L’Olanda ha scelto la strada dell’autocensura sull’islam L'analisi di Giulio Meotti
Testata: Il Foglio Data: 19 maggio 2009 Pagina: 1 Autore: Giulio Meotti Titolo: «Dentro il bunker di Leiden»
Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 19/05/2009, a pag. 1-II, l'articolo di Giulio Meotti dal titolo " Dentro il bunker di Leiden ". Quarta puntata del reportage sull'Olanda. Ieri il Corriere della Sera ha elogiato gli articoli di Giulio Meotti sulla resa dell'Olanda all'islam. Ci chiediamo come mai il Corrierone, il più importante quotidiano italiano, non faccia altrettanto. Semmai fa di peggio, tre inchieste in tre città europee con problemi di " integrazione " e poi stop. Che senso hanno le lodi al Foglio ? Cosa spetta il Corriere a raccontare agli italiani il loro futuro prossimo ? Ecco l'articolo di Giulio Meotti:
Leiden. “Praesidium Libertatis” è il motto dell’Università di Leiden, la più antica università olandese. Significa il bastione della libertà. Afshin Ellian ci mostra lo stemma con il tipico orgoglio dell’outsider. Risale alla metà del Cinquecento, quando gli olandesi si liberarono dell’occupazione spagnola, la fondazione dell’università da parte degli Orange. Nella sua atmosfera rilassata e cerebrale, Leiden è una città bellissima con i canaletti, le torri slanciate verso il cielo, i tetti in pietra e le scale a chiocciola. E’ uno dei simboli dell’Olanda come provocazione geografica, con la sua voglia di rubare terra al mare. Si dice “poldering”. Siamo nella città di Rembrandt e dove insegnava Johan Huizinga, il grande storico che nel 1933 da rettore ingaggiò una battaglia epocale contro una conferenza di Johannes von Leers, l’antisemita apprezzato da Joseph Goebbels. A Huizinga sarebbe costata la morte in carcere. Leiden è anche l’università del prestigioso astronomo marxista Anton Pannekoek, il mentore di Martinus Van der Lubbe, l’olandese che diede fuoco al Reichstag il 27 febbraio 1933. Il professor Ellian parla un inglese delicato, macchiato di malinconia orientale, non c’è traccia dell’asperità olandese. L’ufficio di Ellian non è lontano da dove insegnava anche Rudolph Cleveringa. Con l’occupazione tedesca, ai funzionari pubblici olandesi venne fatto compilare un modulo in cui dovevano dichiarare se erano “ariani” o “ebrei”. Lo fecero tutti tranne Cleveringa, perché aveva intuito le conseguenze di quel gesto. “Era il paese della tolleranza e della libertà, l’Unione sovietica stava crollando, era magico essere in Olanda”, racconta Ellian al Foglio. “Nel 1983 ero fuggito dagli ayatollah verso l’Afghanistan. Poi scappai anche da lì quando arrivarono i sovietici perché ero antistalinista. La mia prima impressione in Olanda furono le persone che per strada e nei caffè parlavano ad alta voce, urlavano, mentre in Iran si bisbiglia sempre a causa della paura. Non capivo come potessero avere un’agenda dei propri contatti, una cosa pericolosissima in Iran. Fu una rinascita, rinacqui alla libertà. E poi tutto quel verde e quell’acqua, da dove venivo c’era il deserto”. Leiden è la patria della carta costituzionale olandese. Johan Thorbecke, fondatore della Costituzione, già nel 1862 formulava il giudizio secondo cui “il governo non deve ergersi a giudice dell’arte e della scienza”. Questo principio è divenuto il fondamento della politica culturale olandese. Ma a giudicare dalla vita di Afshin Ellian, è un principio morto. Incontriamo il professor Ellian al secondo piano del dipartimento di Diritto. Si arriva attraverso un corridoio chiuso elettronicamente e dai vetri blindati, sembra di essere in una banca, più che in un normale dipartimento di Diritto, per giunta in Olanda, il paese dove numerosi “eretici” nel corso della storia sono venuti a pubblicare le loro opere. Ci apre un poliziotto olandese, controlla il passaporto e lo zaino, perquisisce con metodo. E’ il 6 maggio, un giorno di lutto per l’Olanda. “E’ il giorno in cui Pim Fortuyn venne giustiziato”, ci dice Ellian. “E scriva giustiziato, fu a tutti gli effetti un’esecuzione. E’ stato il primo assassinio politico in tre secoli in Olanda”. Ellian è l’unico accademico di tutto il paese sotto una scorta continua. In Olanda la protezione è rarissima, siamo nella “monarchia delle biciclette”, una “democrazia pacificata” per il sociologo Arend Lijphart, il paese in cui anche la regina fino a poco tempo fa pedalava in libertà. Per questo la protezione di Ellian, notte e giorno, genera scandalo e timore. Fu Afshin Ellian a lanciare in Olanda una giovane dissidente somala di nome Ayaan Hirsi Ali. Si conobbero a un dibattito organizzato dal giornale Trouw. Ayaan disse in pubblico: “Non negate anche a noi il diritto di avere il nostro Illuminismo”. Fu il suo esordio. Al termine dell’incontro, Ellian le si avvicinò: “Tu sei una piccola Voltaire”. Dopo l’uccisione del regista Theo van Gogh per mano di un islamista nel novembre 2004, il professor Ellian scrisse un editoriale sul quotidiano NRC Handelsblad dal titolo “Coraggio, colleghi accademici, mettete l’islam sul tavolo operatorio della filosofia”. Da allora vive sorvegliato a vista 24 ore su 24. Durante l’intervista ci prega di non divulgare informazioni sulla sua famiglia, “non voglio dare a questa gente un motivo in più per minacciarmi”. Ellian viene da Teheran, era un membro del partito di sinistra Tudeh, auspicava riforme costituzionali contro l’autoritarismo dello Scià e dei mullah. Venne perseguitato dagli ayatollah una volta che questi presero il potere. “All’epoca eravamo tutti di sinistra”, ci racconta l’accademico olandese. Uscì dall’Iran a dorso di un cammello e trascorse sette anni a Kabul. Nel 1989, con il sostegno delle Nazioni Unite, viene mandato in Olanda, dove si laurea in Filosofia, Diritto internazionale e Diritto penale. “In Olanda ci sono molti iraniani perché, dopo l’arrivo nel mio paese degli ayatollah, ci fu un grande esodo. Il mio popolo è responsabile della propria situazione. Fecero la rivoluzione per la libertà, ma hanno avuto la tirannia. Mio cugino è stato fucilato, non aveva fatto nulla, i mullah uccidevano senza un perché. Venne giustiziato anche il marito di mia cugina. Non sappiamo dove sia sepolto”. La città in miniatura di Madurodam, famosa in tutto il mondo, rappresenta in piccolo i simboli dell’Olanda, gli edifici lungo i canali di Amsterdam, il mercato del formaggio di Alkmaar, il Palazzo Reale di Piazza Dam e il campanile del Duomo di Utrecht. “L’Olanda per me è come una miniatura dei problemi, una sorta di riproduzione miniaturizzata del dramma dell’Europa”, continua Ellian. “L’Olanda è un paese piccolo, ma questa area ha resistito all’invasione spagnola con coraggio, da qui sono partiti i Padri Fondatori americani, qui gente come Cartesio, Rousseau, Locke, Sade e Spinoza pubblicavano i loro scritti, l’Olanda è stata la speranza data all’Europa. Era un paese senza colpa, c’era sempre stata una sorta di purezza, come un’infanzia. E’ per questo che gli olandesi sono naïf, fino a fidarsi di Milosevic. Non conoscevamo violenza politica, come voi con le Brigate rosse. Era un dolce sogno, ma stava crescendo una violenza nichilista. Con le uccisioni di Pim Fortuyn e Van Gogh è finita l’illusione kantiana della pace”. Ellian è oggi il più grande critico della cultura olandese del compromesso. “Ciò che più mi preoccupa non è l’islamizzazione dell’Olanda, ma l’appeasement degli olandesi. Il problema non sono i musulmani ma gli europei. Penso alla decisione dell’Inghilterra di bandire dal suo territorio Geert Wilders, il primo parlamentare europeo cacciato dal Regno Unito. Oggi è in gioco la solidarietà democratica”. La cultura europea non vuole un dibattito autentico sull’islam, Ellian parla di “atteggiamento mafioso di riverenza. A Ratisbona il Papa ha tenuto un discorso molto importante, Ratzinger ci ha offerto un grande dialogo su ragione e fede, un regalo soprattutto ai musulmani”. Assieme a lui, in tanti avrebbero bisogno della protezione. “Il problema è che il governo non sostiene la libertà di parola e qui ormai non ci sono quasi più persone coraggiose dopo la morte di Fortuyn e Van Gogh e l’uscita di scena di Ayaan. Servirebbe una legislazione europea per proteggere i dissidenti islamici e le persone minacciate. Mi preoccupa questo grande cambiamento di valori in Europa, in nome dei diritti umani si vuole arrestare la libertà d’espressione. Mentre i diritti umani nascono a protezione dell’individuo contro lo stato. La prima condizione della libertà non è la Costituzione, ma che ci siano persone coraggiose. Qui la libertà è stata difesa da non olandesi come Ayaan e Sooreh Hera”. Di tanto in tanto, durante l’intervista, vengono a controllare gli uomini del servizio di protezione. “E’ un incubo vivere così, noi che volevamo cambiare il medio oriente dall’Europa ci siamo ritrovati l’Europa cambiata dal medio oriente. La mia paura più grande è la balcanizzazione dell’Europa, vedo nascere zone islamiche pure in mezzo a noi”. Non è d’accordo sul tracollo multiculturale il filosofo ateo Hermann Philipse, anche lui di Leiden e che pure ha parlato di tribalizzazione dei Paesi Bassi: “L’immigrazione crea sempre tensioni ma possiamo essere positivi”, dice Philipse al Foglio. “Il modello olandese resta un successo se pensiamo a cosa significhi integrare due milioni di musulmani. Per questo sono ottimista, a patto che il numero di immigrati non superi una certa quota”. Se in Inghilterra e in Spagna il jihadismo è ricorso ai kamikaze, in Olanda ha usato l’assassinio e l’intimidazione di singole personalità pubbliche. E’ un metodo più efficace. Mettendone a tacere uno, è l’intero paese a essere sotto scacco. “Dopo la morte di Van Gogh, non posso muovermi senza essere seguito da un paio di poliziotti”, prosegue Ellian. “Spesso la minaccia si fa intensa e i miei spostamenti rarissimi, altri giorni è più normale, per così dire. Io credo però che la cultura europea abbia ancora il potere di cambiare le persone, nessuno conosce la fine di questa guerra, ma non abbiamo il diritto di perdere la speranza. Ho sempre buone ragioni per capitolare, ma non posso fermarmi. Sarebbe un giorno triste per l’Europa. La storia è mossa da esempi, non dai partiti, gli uomini fanno la storia”. Sull’apostasia islamica, dopo la vicenda Hirsi Ali, si è consumato un caso politico eclatante. Decine di intellettuali olandesi scelsero l’11 settembre 2007 per annunciare all’Aia una “Dichiarazione universale di tolleranza”. Sono scrittori, editorialisti, politici e accademici, perlopiù di sinistra. Il pronunciamento pubblico a favore degli apostati è scattato dopo che un giovane politico laburista, Ehsan Jami, fondatore di un comitato di protezione degli ex musulmani, è stato aggredito da un gruppo di islamisti. “Essere musulmano non è un fattore genetico”, dice Jami. “Con questo comitato voglio dire ai giovani che, come me, amano la libertà, di uscire allo scoperto”. La storia di Jami è per certi versi simile a quella di Hirsi Ali. Nel 1994 Ehsan arrivò in Olanda e ottenne la nazionalità. Dieci anni dopo entrava nel Partito laburista. Il 4 agosto del 2007, dopo essere assurto alla notorietà per aver lasciato l’islam, venne attaccato a Voorburg da tre islamisti. Due giorni dopo gli fu assegnata una scorta permanente. Ehsan vive vicino all’Aia in una “casa sicura”. Il mese scorso a Copenhagen ha ricevuto il Danish Free Press Award. Lo incontriamo per un’intervista. “La mia iniziativa di sostegno agli ex musulmani, come io sono, è stata fin dall’inizio ostacolata dai multiculturalisti che pensavano avrei arrecato danno alla loro immagine. L’islamismo reagì negando il problema, ‘non esistono gli ex musulmani’. Qui abbiamo perso la libertà di espressione e di parola. Così, dico che i più grandi nemici della democrazia non sono gli islamisti, siamo noi che consentiamo loro di farlo. Il mio partito, il Labour, mi ha cacciato perché ho detto che in Olanda oggi gli ex musulmani sono perseguitati, si nascondono dalla famiglia, sono minacciati di morte. Quando arrivai qui ero fiero dell’Olanda, oggi ne sono tristemente deluso. Deluso”. Il professor Meindert Fennema, storico esponente dei Verdi olandesi, ha firmato la lettera di sostegno a Jami, ma non concorda con la sua diagnosi. “Il vecchio consenso sul multiculturalismo è stato spezzato”, ci dice Fennema, direttore dell’Istituto di ricerca sull’immigrazione dell’Università di Amsterdam. “Ma la democrazia olandese ha la forza per vincere questa sfida”. Assieme a Ellian e Jami, c’è una terza esule iraniana che incarna il “dramma del multiculturalismo” olandese, come ebbe a chiamarlo nel 2000 il sociologo di sinistra Paul Scheffer. Si chiama Sooreh Hera, ha una voce esilissima, quasi impercettibile, è piccola e ha un’alta dose di alterigia persiana che manifesta durante l’intervista. La incontriamo con la sua guardia personale al Sofitel Hotel di Amsterdam, il bellissimo albergo che si affaccia sui canali del quartiere a luci rosse. Sooreh aveva presentato al Museo dell’Aia un’installazione di fotografie che ritraeva coppie omosessuali. In una fotografia, i modelli indossano maschere di Maometto e Alì. In questa intervista al Foglio, l’artista racconta la sua vicenda. “Sono arrivata in Olanda otto anni fa a causa di un libro di poesie che gli ayatollah bollarono come offensivo dell’islam. Gli iraniani che si trovano qui non sono come gli altri immigrati, gente in cerca di lavoro. Noi siamo rifugiati. Il giorno dopo il mio arrivo da Teheran, quando spalancai le finestre, vidi così tante donne velate, sembrava di essere in Iran. Era molto strano”. Il Museo Municipale dell’Aia aveva scelto le opere di Hera. “E’ uno dei migliori musei di tutta l’Olanda. Mi chiamò un esponente della comunità islamica dell’Aia per dirmi che la mia opera non l’avrebbero mai esposta. Altri chiamarono per minacciarmi di morte, venne creata una associazione islamica dal titolo ‘Rispetto per te, rispetto per me’. Ma io ho sempre pensato che fosse meglio chiamarla ‘Rispetto per me, rispetto per me’. Mi hanno minacciato per telefono: ‘Ti bruceremo viva’, ‘ti prenderemo’, ‘ti uccideremo’ e così via. Ho ricevuto una telefonata anonima: ‘Abbiamo ucciso una volta siamo pronti a farlo una seconda…’. Un celebre sito arabo pubblicò la mia fotografia, dissero che ero un’apostata e che per questo dovevo essere punita. Il quotidiano iraniano Keyhan pubblicò un editoriale di Hossein Shariatmadari, un capo dei pasdaran responsabile della morte di scrittori e intellettuali. Diceva che dovevo essere uccisa e che le frontiere non dovevano fermare l’omicidio. Disse che Amsterdam era la Capitale del movimento antislamico, citando con me anche Geert Wilders”. “Il fuoco del proiettile nella testa di questa dannata e blasfema è un’assoluta necessità”, recitava la fatwa di Shariatmadari. “Dal museo speravano che avrei ritirato la mia opera, facendo un’esibizione parziale”, prosegue Hera. “Dissero di voler acquisire le foto senza pubblicarle e che un giorno, forse, quando la situazione fosse stata più calma, le avrebbero esposte. Ma io penso che un giorno sarà peggio. Sempre peggio. Non accettai, era autocensura, sarebbe stato un giorno triste per l’occidente. Alla fine il mio spazio rimase vuoto. Come un quadro postmoderno. L’influenza islamica in Olanda e in occidente è più forte di quanto si pensi. E’ un incubo essere minacciata da più parti. Qui sotto la bandiera del rispetto e della libertà religiosa hanno gettato via la libertà d’espressione. Per un occidentale è più difficile da capire, ma se uno viene dall’Iran sa di cosa parlo. Ho paura dei fanatici, per i quali la morte è una lussuria. Il potere dell’arte visiva è molto forte, ma quando in Olanda si parla di islam ti assumi un rischio non solo fisico, ma anche di esclusione culturale e sociale, sei isolato, non hai editori, giornali, gallerie d’arte. Ci sono gallerie che vorrebbero lavorare con me, ma hanno paura a esporre il mio nome. E’ tragico che l’Iran sia così lontano ma con un tale potere nel decidere della nostra vita qui. Oggi temo soprattutto per la mia famiglia, sono molto religiosi e vivono in Iran, chissà cosa può succedergli”. Come Sooreh, il pittore musulmano Rachid Ben Ali ha dovuto abbandonare di notte il proprio letto e riparare in albergo a causa delle minacce. “Non sono affatto ottimista sulla libertà di parola in Olanda, la politica è piena di codardi e di superficiali, non andremo lontano”, conclude Hera. “E ne sono vittime anche i musulmani. Mi conforta che, nonostante la paura e il pericolo, ci sia gente che continua a scrivere e a battersi. E’ positivo che non vi sia silenzio, possiamo nominare la paura e forse anche l’islam ne beneficerà”. Afshin Ellian spiega così il prezioso ruolo dei dissidenti islamici. “Sono i dissidenti dell’islam quelli che possono fermare la balcanizzazione dell’Europa. Ci sono milioni di musulmani fra di noi, serve dialogo critico e non resa, bisogna prevenire l’apartheid. E la libertà e la dignità umana vanno rafforzati con la legge. Abbiamo il dovere morale di aiutare i dissidenti, temo la paura europea perché così come Vaclav Havel, Anna Achmatova e Josip Brodskij hanno contribuito ad abbattere il comunismo, così oggi abbiamo bisogno dei dissidenti dell’islam. Se cambiamo i musulmani qui abbiamo delle possibilità di cambiare il medio oriente. Altrimenti è finita”. Prendiamo un treno alla volta di Utrecht, attraversando un paesaggio rurale di mulini a vento, paludi e fattorie. Dobbiamo incontrare il professor Pieter van der Horst. Il suo è un caso unico in tutta Europa. Dopo trentasette anni di insegnamento, decine di pubblicazioni e una fama consolidata di antichista che parla ebraico e aramaico, il meno che ti aspetti dalla tua università è che ti lasci totale libertà per la lezione di congedo, la più attesa di una vita. Incontriamo il professore vicino all’aula che avrebbe dovuto ospitare la sua ultima lezione prima del pensionamento. Doveva intitolarsi “Il mito del cannibalismo ebraico”. L’accademico ci fa notare con ironia che il motto dell’Università di Utrecht è tratto dal profeta Aggeo dell’Antico Testamento: “Il sole della giustizia”. “Doveva essere la mia ultima lezione”, dice Van der Horst a colloquio con il Foglio nel faculty club. “Decisi di tracciare le origini del mito del cannibalismo ebraico dall’antica Alessandria al medioevo, e poi il nazismo e l’islam. Oggi nel mondo islamico gli ebrei vengono ogni giorno descritti come cannibali e animali. Due settimane fa, in occasione della Pasqua ebraica, la tv di Hamas per sette giorni ha mandato in onda un documentario in cui si spiega che gli ebrei ogni anno devono uccidere un certo numero di musulmani per farci il pane azzimo. Ayaan Hirsi Ali scrisse un articolo in cui raccontava come nel mondo islamico le fosse stato insegnato che gli ebrei erano mostri e di quanto fosse rimasta scioccata nello scoprire, una volta in Olanda, che erano degli esseri umani. Volevo parlare di tutto questo”. E’ consuetudine che la lezione di congedo non venga revisionata da nessuno. “Io sempre per consuetudine avevo preparato alcuni libretti per il pubblico. Una ricercatrice, contro ogni regola, lo lesse e vide che parlavo di antisemitismo islamico. Si recò dal preside, Willemin Otten, denunciando quanto scrivevo. Otten mi chiese di eliminare la parte sull’islam. Mi disse che era ‘insensibile’. Accadeva a due settimane dalla lezione. Mi chiamò il rettore, Willem Hendrik Gispen, e per intimidirmi aveva convocato altri quattro professori. Mi dissero che era irresponsabile parlare di islam e che correvo seri rischi. Chiesi al rettore se aveva elementi di minacce. Lui disse di sì e soltanto dopo venni a sapere che non ce ne erano affatto. Mia moglie, impaurita, mi chiese di eliminare quei passaggi e se non lo avessi fatto il rettore avrebbe avuto il potere di impedirmi di tenere la lezione. E così feci. Fu pura autocensura perché non ho mai ricevuto alcuna minaccia. Alcuni colleghi scrissero una lettera aperta in sostegno del rettore, che fu appoggiato da tutto il corpo docente. Ma da tutto il paese, ebrei e non, mi è arrivato tanto amore. Mi hanno lasciato fiori davanti alla porta di casa e un avvocato di Amsterdam si è offerto di darmi assistenza legale gratuita. Da Israele mi hanno poi invitato a tenere quella lezione”. Il professore trae questo bilancio dal suo caso. “Non capisco, dopo quello che è successo con Anne Frank e negli anni Quaranta, come facciamo ad accettare che gli ebrei non possano circolare liberamente per strada con i paramenti religiosi. Gretta Duisenberg, la moglie del banchiere europeo, un giorno stava raccogliendo firme per boicottare Israele. Un giornalista le chiese quante ne volesse raccogliere. Lei rispose: ‘Sei milioni’. Ho tanti amici ebrei che non usano più la kippà per paura dei musulmani e non portano più al collo la stella di David. E noi accettiamo questo come se fosse normale, accettiamo che in Olanda le sinagoghe siano presidiate dalla polizia e che ogni evento pubblico ebraico sia protetto dalla polizia. Dall’altra parte sono triste per la libertà accademica. Spinoza qui aprì la critica ai libri sacri e alla libertà intellettuale. Ma Spinoza doveva farlo spesso senza nome, mentre noi possiamo farlo alla luce del sole. Però abbiamo preso la strada dell’autocensura. Quale sarà la fine?”. E’ tragico e fatale che i tre più importanti difensori della libertà d’espressione in Olanda, i tre più noti disturbatori della quiete multiculturale, siano tre immigrati iraniani che, come il portoghese Spinoza, arrivarono qui in cerca di libertà. Alle spalle del professor Van der Horst c’è un quadro dell’Età dell’Oro del XVII secolo. Tutto appare in ordine, dai colletti bianchi dei mercanti calvinisti alla calma luminosa di un paese “soddisfatto”, come diceva Huizinga di Leiden. Il primo impatto con l’Olanda è dominato da quest’immagine di pittoresca e placida tranquillità. Ma se gratti via con forza il decoro, scorgi che dietro all’ordine germina la paura.
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