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La Stampa Rassegna Stampa
18.05.2009 Arabo-Israeliano o soltanto Arabo ?
Sayed Kashua si decida

Testata: La Stampa
Data: 18 maggio 2009
Pagina: 38
Autore: Francesca Paci
Titolo: «Non sarei scrittore senza i libri della Ginzburg»

Nell'intervista di Francesca Paci a Sayed Kashua,sulla STAMPA di oggi, 18/05/2009, a pag.38, dal titolo " Non sarei scrittore senza i libri della Ginzburg", lo scrittore israeliano dichiara " ... il ministro degli esteri Lieberman vorrebbe sbarazzarsi anche di noi arabi-israeliani , la bomba demografica che minaccia lo Stato ebraico.. ". Kashua, giornalista di HAARETZ, invitato a Torino lo scorso anno in quanto scrittore israeliano, rifiutò di venire, scrivendo al direttore della Fiera " non parteciperò ai festeggiamenti di uno Stato che opprime il mio popolo ". Si decida, allora, Kashua, non può rammaricarsi se Lieberman considera gli arabi-israeliani una minaccia demografica per lo Stato e, nello stesso tempo, dargli ragione con il suo comportamento. Non solo non è venuto in quanto israeliano, insieme agli altri scrittori israeliani lo scorso anno, ma è venuto quest'anno, ospite l'Egitto, insieme agli scrittori arabi. Si decida, perchè non si trasferisce in uno stato arabo, invece di vivere in Israele, dove, secondo lei, il "suo popolo" è oppresso ? Cos'è che la trattiene ? Il lauto stipendio di Haaretz ? Il fatto che in Israele può scrivere tutto ciò che vuole ? Perchè scrive libri che in Israele vendono bene per cui vengono anche tradotti all'estero ? Si decida Kashua, non può vivere in uno Stato che opprime il "suo popolo" e sputare nel piatto dove, lautamente, mangia. Altrimenti dà ragione a Lieberman, il ministro-falco che non si fida di quelli come lei, di quelli che, come lei, vorrebbero poter fare il servizio militare, per poi magari puntare, nel momento del bisogno, il fucile dalla parte sbagliata. Gli israeliani la riempiono di onori e danè, ma non pretenda anche che si suicidino per farle piacere. Ecco l'intervista:

Ho cominciato a scrivere quando ho capito che non avrei mai guidato un aereo della Palestinian Airforce». Sayed Kashua, uno dei maggiori autori arabo-israeliani, scherza sulle speranze del padre patriota, sulle sue che in realtà ha una paura terribile di volare, sulla pace che «si farà attendere parecchio» nonostante le preghiere del Papa e la buona volontà del presidente americano Obama. Trentatré anni, 2 figli, il passaporto blu con cui è arrivato alla Fiera del Libro di Torino che gli consente di votare alla Knesset ma lo esclude dalla leva, Kashua traduce in ebraico la lingua dei palestinesi. Potrebbe essere un ponte, dice, se ci fosse un cantiere aperto tra due popoli condannati alla reciproca distruzione. Invece, guardato con sospetto dagli uni e disprezzato dagli altri, fluttua nella terra di nessuno in cui vive un quinto della popolazione israeliana, arabo danzante come il protagonista del suo primo libro tradotto in Italia da Guanda.
Stasera il presidente americano Obama incontra il premier israeliano Netanyahu: cosa si aspetta?
«Obama mi piace, dopo Bush apprezzerei chiunque. Ma i palestinesi sanno che l’America non li ha mai veramente sostenuti. Sono scettico: la costruzione delle colonie ebraiche continua, le case palestinesi vengono demolite, il ministro degli Esteri Liberman vorrebbe sbarazzarsi anche di noi arabi-israeliani, la bomba demografica che minaccia lo Stato ebraico. A meno d’essere forzato Netanyahu non acconsentirà alla nascita di uno Stato palestinese».
Che impressione ha avuto delle parole del Papa a Gerusalemme?
«Benedetto XVI ha parlato di uno Stato palestinese, sembra una buona chance. Ma la routine di controlli e diffidenza che sperimento ogni giorno mi ricorda che gli israeliani non sono pronti alla pace, la vittoria elettorale della destra lo prova».
I personaggi dei suoi libri sembrano sempre nel posto sbagliato, che lavorino in Israele o vivano tra i palestinesi. Perché?
«Nella mia terra non c’è posto per l’individuo. Le uniche identità possibili sono collettive: qualsiasi scelta, compreso dove vivi, è politica. I palestinesi mi e ci considerano amici del giaguaro, venduti. Gli israeliani si proclamano democratici ma non accetteranno mai di mescolarsi con la minoranza araba-israeliana».
Per questo scrive?
«Scrivo per sopravvivere, per spiegare ai miei connazionali che sono come loro, ho una storia. I miei libri in ebraico vendono. Adesso alcuni romanzi saranno tradotti in arabo a Beirut: tratto argomenti sensibili, non so come verranno letti. La migliore accoglienza che abbia ricevuto è stata all’estero».
La letteratura come la vita.
«I palestinesi sono un problema per il mondo. Non se ne parla mai in termini di diritto ma come un problema da risolvere».
Come mai lo scorso anno ha rifiutato di partecipare alla Fiera del libro di Torino dedicato a Israele e quest’anno invece è qui?
«Dopo la polemica sul boicottaggio, non volevo essere usato. Non ho avuto invece alcun problema a parlare tra le bandiere israeliane alla Fiera di Parigi. Detesto i boicottaggi culturali. Sono cresciuto leggendo autori arabi come Barakat e Naghib Mahfuz ma anche gli israeliani Oz, Yehoshua, Edgar Keret e Yoel Hoffman. Gli scrittori non sono bandiere. Senza i libri di Natalia Ginzburg non avrei mai intrapreso la carriera letteraria. Gli unici ponti possibili sono quelli che costruiscono gli scrittori, il Medio Oriente farebbe bene a pensarci su».

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