Riportiamo da LIBERO di oggi, 15/05/2009, a pag. 31, l'articolo di Ernesto Aloia dal titolo " Il trasformista dell'islam europeo ".
Singolare esperienza davvero, quella di confrontarsi con gli scritti di Tariq Ramadan, l’indiscussa superstar degli intellettuali islamici europei, ospite alla Fiera del Libro di Torino (domani ore 13.00, Sala Rossa), kermesse al cui boicottaggio l’anno scorso aveva contribuito in prima persona (causa la presenza di Israele in qualità di ospite d’onore). Il suo sbalorditivo talento nel pronunciare o nello scrivere, in ogni momento, le parole più gradite al proprio uditorio lascia alla fine la sensazione che non un solo Ramadan si aggiri per l’Europa, ma due, dieci, cento, e che questi cento parlino tutti insieme dicendo cose diverse, talvolta opposte. Questo spiega sia il suo straordinario successo presso l’opinione pubblica europea multiculturalista, sia la durezza con cui è stato talvolta attaccato. Dipinto ora come il meglio che l’attuale cultura islamica sappia esprimere, ora come un epigono di suo nonno Hasan al Banna, fondatore del movimento integralista dei Fratelli Musulmani, come un fondamentalista o come un modernizzatore, Tariq Ramadan non è alcuna di queste cose. Conclusa la lettura della sua ultima e più ambiziosa opera (La Riforma radicale: Islam, etica e liberazione, Rizzoli, pp. 410, euro 22), crediamo che per inquadrarne il pensiero sia necessario ricorrere alla definizione, già utilizzata da Massimo Introvigne, di neofondamentalismo - un fondamentalismo, cioè, capace di sviluppare una certa elasticità intorno a certe questioni ineludibili della modernità, intrecciandosi e potenziandosi con la critica anticapitalista (ovvero antioccidentale) proposta dai movimenti no global.
Il fatto che il titolo del libro contenga la parola “riforma” non deve trarre in inganno: non si allude mai a una limitazione della sfera di influenza della religione in uno qualunque dei contesti della vita quotidiana, della scienza, del diritto, della cultura, dell’arte - al contrario, il progetto di Ramadan è proprio la costruzione di un sistema di pensiero in cui tutto discenda dai princìpi dell’islam. La soluzione del “letteralismo settario” però è ai suoi occhi rozza e inadeguata. Bisognerà allora rivolgersi alle risorse dell’ijtihad, l’interpretazione critica, al fine di meglio realizzare quella riforma che permetterà all’islam non tanto di adattarsi alle condizioni del mondo contemporaneo, ma piuttosto di anticiparne e guidarne l’evoluzione. Il primo passo da compiere è porre ordine nel sistema delle fonti, il che significa distinguere nella Scrittura coranica ciò che è immutabile e intangibile (i princìpi) da ciò che deve essere oggetto di interpretazione, e in secondo luogo determinare a chi competa lo svolgimento di quest’opera interpretativa il cui risultato finale sarà l’armonizzazione di tutti i campi del sapere sotto la guida delle scienze islamiche. Intendiamoci, Ramadan non è uno sprovveduto, e non prospetta affatto una “medicina islamica” o una “economia islamica”: prospetta una medicina e una economia guidate da princìpi etici islamici. Non si augura una “arte islamica”. Per lui, che conosce a fondo la cultura francese, scopo dell’arte è metterci di fronte alle grandi domande sulla natura umana. Certo, la sua suddivisione dei ruoli lascerebbe perplesso un laico europeo: «L’arte fornisce le domande, la fede le risposte». Più chiaro di così.
Due cose vanno riconosciute a Ramadan, o perlomeno a Ramadan quale si mostra in queste pagine: il coraggio di denunciare senza equivoci la «crisi della coscienza musulmana contemporanea», dilaniata dalle divisioni interne; e la decisione con cui si esprime criticamente su determinati atteggiamenti diffusi nel mondo islamico. Tariq Ramadan prende posizione sulla medicina, sui rapporti tra uomini e donne, sull’economia, sull’ecologia, sulla politica, sul diritto penale. Le sue opinioni non hanno nulla del rigore acritico dell’integralista. Come dicevamo, si muove con la scioltezza del neofondamentalista, esprimendosi talvolta con chiarezza, talvolta sfruttando appieno il suo gusto per la sfumatura ambigua (il capitolo dedicato alle donne e alla famiglia è esemplare).Quello che lascia sbigottiti è invece la totale mancanza di riferimenti esterni al mondo islamico. Mai, in oltre quattrocento pagine, viene prospettata anche solo l’ipotesi che per uscire dalla crisi della coscienza islamica qualche sia pur minimo aiuto possa giungere dalle esperienze di altre società e dalle risposte che queste seppero dare, in passato, a problemi analoghi. La soluzione ai problemi, a tutti i problemi delle società islamiche e delle comunità musulmane all’estero, deve giungere dall’interno, dall’islam stesso. Tariq Ramadan fa spesso riferimento all’esperienza delle comunità islamiche formatesi in Europa e negli Stati Uniti, e sostiene che il loro apporto potrà essere, sul piano culturale, di grande aiuto. Ma proprio qui, nella sua opera più ambiziosa, sembra smentirsi scegliendo la via di un isolamento che - per quanto illuminato dalla ragione, dalla cultura e dalla moderazione - finisce pur sempre per sfociare in una sorta di pericoloso autismo culturale.
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