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La Stampa Rassegna Stampa
12.05.2009 Il piano di pace arabo
pace, una parola dai molti significati

Testata: La Stampa
Data: 12 maggio 2009
Pagina: 3
Autore: Francesca Paci
Titolo: «Facciamo la pace subito o tra un anno è guerra»

Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 12/05/2009, a pag. 3, l'articolo di Francesca Paci dal titolo " Facciamo la pace subito o tra un anno è guerra ".

Il Papa chiede una pace «giusta» per la Terra Santa, il presidente americano Barack Hussein Obama vola in Egitto alla conquista dell’opinione pubblica musulmana, le elezioni israeliane hanno consegnato la Knesset al superfalco Netanyahu ma i palestinesi ammettono a bassa voce che in sessant’anni di conflitto le uniche concessioni territoriali, da Hebron alla Striscia di Gaza, sono arrivate dalla destra. Nonostante la secolare palude che avvolge il Medio Oriente, molti analisti intravedono oggi le condizioni per una bonifica. La conferma arriva dal re Abdallah II di Giordania che ieri, in un’intervista al quotidiano britannico The Times, ha annunciato l’impegno ufficiale di Washington nella stabilizzazione della regione. Il giovane sovrano è appena tornato dagli Stati Uniti, primo leader arabo a varcare la soglia della Casa Bianca nell’era Obama, con la bozza di un piano di pace ad ampio raggio, la nascita di uno Stato palestinese nei confini del 1967 in cambio della normalizzazione dei rapporti tra Israele e i 57 paesi della Conferenza islamica. Lo schema è quello dell’iniziativa saudita del 2002 rimasto finora un ambizioso pezzo di carta, ma la nuova Amministrazione Usa sembra più disposta della precedente a servirsi del soft power prima di cedere alle armi.
«Se rinviamo ancora i negoziati vedremo un nuovo conflitto nel giro di un anno», sostiene re Abdallah. Obama è avvertito: «O si muove qualcosa entro maggio o la sua formidabile credibilità svanirà». La tempistica preoccupa gli attori mediorientali almeno quanto gli spin doctors della Casa Bianca. La Giordania, come l’Egitto e l’Arabia Saudita, segue con ansia l’espansione iraniana nel cortile di casa. La Siria, strangolata dalla crisi economica, valuta seriamente l’ipotesi di abbandonare il tradizionale equilibrismo opportunista e passare dalla parte dei «buoni», i Paesi arabi cosiddetti moderati, rinunciando alla protezione di Teheran per avere indietro le alture del Golan occupate nel 1967 e annesse nell’81. Israele mostra la faccia dura del ministro degli esteri Lieberman ma sa che nell’imminente viaggio a Washington il premier Netanyahu non potrà limitarsi a dire no. L’ha ammesso lui stesso ieri al termine del meeting con il presidente egiziano a Sharm el Sheik quando, dopo aver eluso la domanda di Mubarak sulla nascita d’uno Stato palestinese indipendente, ha rivelato che «i colloqui con i palestinesi riprenderanno a settimane».
Bibi è un osso duro, concede al Times il sovrano giordano: «Lo vidi dieci anni fa, ero appena salito al trono. L’incontro più sgradevole che ricordi». Ma i tempi cambiano e cambiano le priorità. Per questo, continua il monarca che oggi partirà per Damasco, «l’esito della visita di Netanyahu alla Casa Bianca è decisivo». Secondo la soluzione «57 Stati» Israele si ritira entro i confini del 1967 e smantella le colonie ebraiche nei territori palestinesi ottenendo in cambio la possibilità di volare con aerei El Al nell’immenso cielo arabo-musulmano. Il ritorno dei profughi palestinesi del ‘48 e l’autorità su Gerusalemme, nodi spinosi forse più delle frontiere, passano in secondo piano, materia da discutere in progress. Re Abdallah è fiducioso: «Gerusalemme non è un problema internazionale ma una soluzione internazionale, parliamo di un terzo della popolazione mondiale che incontra gli israeliani a braccia aperte». Un tavolo così affollato non s’immaginava più dal 1991, quando il presidente Bush padre riuscì a portare a Madrid tutte le parti coinvolte nel conflitto.
Il futuro della regione pare, non sorgerà dal Giordano, dalle Alture del Golan o dal deserto del Sinai. Bisogna spingere lo sguardo oltre, in Marocco, nel Golfo, in Indonesia. I palestinesi scuotono la testa scettici ma aguzzano la vista. Non si sa mai. «Il piano saudita è tornato in pista, è vero, l’ha confermato il presidente palestinese Abu Mazen», osserva Hafez Barghouti, direttore del quotidiano Al Hayat al Jadidah, organo ufficiale di Fatah. L’esito delle elezioni israeliane ha scoraggiato gli abitanti di Ramallah, ma Obama resta un faro: «Per la prima volta la Casa Bianca ha affermato che la nascita di uno Stato palestinese indipendente è interesse americano. C’è una chance, anche i leader di Hamas hanno capito che devono scegliere da che parte stare. Washington può usare la carta iraniana per far pressione su Israele. La destra israeliana, dal canto suo, sa che qualsiasi cosa concedesse in nome della pace avrebbe l’appoggio dei laburisti, un privilegio che la sinistra non ha».
Il calendario incalza. Dopo Netanyahu il presidente Obama riceverà il collega egiziano Mubarak e quello palestinese Abu Mazen, colloqui preliminari e di sostanza prima dello sbarco al Cairo il 4 giugno con l’annuncio del nuovo piano pace. L’audacia della speranza tradotta in arabo funzionerà? Il professor Efraim Inbar, docente di studi politici all’università Bar Ilan e direttore del Begin-Sadat Center for Strategic Studies invita alla cautela: «I paesi musulmani non sono pronti alla fine delle ostilità. E poi la questione palestinese non interessa a nessuno, conta solo l’Iran». Gli ottimisti però, confidano nel gioco di sponda.

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