Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 12/05/2009, a pag. 43, la risposta di Sergio Romano ad un lettore dal titolo " Le molte anime del sionismo, Dialogo con Dan Segre " e dalla STAMPA, a pag. 5, l'articolo di Igor Man dal titolo " Una capitale troppo santa " preceduti dal nostro commento.
CORRIERE della SERA - Sergio Romano : " Le molte anime del sionismo, Dialogo con Dan Segre "
Oltre ad essere velenoso, Sergio Romano è anche furbo, Dan Segre non è "un lettore" qualsiasi, è stato, come altri (trai quali chi scrive), un buon amico di Romano, prima che.... diventasse quello che è diventato. Il momento del passaggio è stata la pubblicazione di " Lettera a un amico ebreo", da quel momento in poi Sergio Romano si è trasformato in quello che conosciamo. Ecco perchè la lisciata di pelo iniziale. Una critica anche da Dan Segre ! anche se espressa con toni molto attenuati, la critica c'è. Se si è mosso anche Dan segre, chissà che qualcuno al CORRIERE della SERA cominci a prendere sul serio la dose di veleno che sempre più spesso Romano inietta a Israele. Ci ricordiamo la domanda del precente direttore, " certo, se protestasse qualcuno con un nome importante..." Adesso quel qualcuno c'è, succederà qualcosa ? staremo a vedere.
Ho riflettuto sulla sua risposta a Stanley Feiwell. Una società forte e in formazione come Israele può sempre trarre vantaggio dalle critiche. Credo di poter affermare che il sionismo non ha trapiantato in Israele un irredentismo di «terra e sangue». È stato influenzato dal nazionalismo romantico europeo. Ma né i «sognatori del ghetto», né i socialisti che hanno creato e sviluppato lo Stato, né le masse religiose di immigranti dai Paesi arabi, né gli ortodossi stessi, ostili al sionismo, hanno fatto loro l’idea del «sangue e della terra». Persino i coloni più radicali hanno sempre considerato idolatra l’idea di santificare il popolo attraverso la terra e il sangue. Non pochi credono di poterlo fare attraverso il ritorno alla terra.
Quelli che hanno pensato di farlo a scapito dei palestinesi nelle zone occupate non rappresentano un gruppo significativo. Non ne fa parte l’attuale dirigenza nazionalista religiosa, convinta come la maggioranza dell’elettorato, che un «grande Israele» sia irrealizzabile e pericoloso. L’evacuazione di Gaza lo dimostra. Ancor meno crede nell’efficacia delle armi dopo le operazioni contro gli Hezbollah del Libano e di Hamas a Gaza. Pensa che le vecchie formule di trattativa di pace siano illusorie. Cerca vie nuove, forse irrealistiche, ma non ispirate da un’ideologia di «sangue e terra». Mi sembra dunque onesto concederle il beneficio del dubbio. Analisi necessariamente brevi e puntuali come la sua possono indurre a pensare che il movimento nazionale ebraico sia identificabile con nazionalismi europei che degli ebrei e del sionismo sono stati i peggiori nemici.
Dan V. Segre, Gerusalemme
Caro Segre,
Ai lettori che non la conoscono (pochi, ne sono certo) debbo dare qualche notizia che renderà la sua lettera ancora più interessante. Lei ha fatto una scelta sionista nel 1938, all’età di 16 anni, quando si è imbarcato a Trieste su una nave per la Palestina. Ha lavorato in un kibbutz, ha combattuto con gli inglesi nella Legione ebraica, ha risalito la penisola con gli Alleati, ha preso parte alla prima guerra arabo-israeliana ed è stato uno dei primi diplomatici inviati all’estero dal nuovo Stato. Più tardi, dopo un tragicomico scandalo da cui uscì trionfante, lei si è diviso fra mestieri diversi: professore universitario, scrittore, saggista, giornalista. Ha descritto il Medio Oriente per i lettori del Corriere e del
Giornale. E ha raccontato la sua vita in due libri («Memorie di un ebreo fortunato», «Il bottone di Molotov») che sono, con i ricordi di Augusto Segre e quelli recenti di Arrigo Levi, piccoli capolavori di letteratura autobiografica.
Comincio dall’ultimo punto della sua lettera. È paradossale che un certo sionismo possa assomigliare a quei nazionalismi europei di cui le principali vittime furono, per l’appunto, gli ebrei. Ma il paradosso appartiene alla storia di una ideologia che si è progressivamente diffusa, dopo la rivoluzione francese, provocando guerre sanguinose fra Stati che si erano contagiati a vicenda con lo stesso morbo. Zev Jabotinskij, uno dei maggiori protagonisti della destra sionista, non poteva ignorare che l’amicizia del fascismo per il suo movimento era, nella migliore delle ipotesi, strumentale, e che il nazismo era nemico degli ebrei. Ma fu attratto in alcuni momenti da modelli che sembravano rispondere alle sue strategie.
In realtà nel sionismo vi sono molte anime. Quella che lei ha descritto è l’anima del sionismo mazziniano e socialdemocratico dei fondatori dello Stato. Ma vi è anche un sionismo radicale che nasce dalle concezioni di Jabotinskij, passa attraverso l’organizzazione giovanile Betar, le cellule clandestine dell’Irgun Zwai Leumi, il partito Herut, costituito da Menachem Begin dopo la proclamazione dello Stato, il partito Gahal, nato dalla fusione tra Herut e i nazional-liberali, e infine il partito Likud, creato nel 1973 da Sharon e Begin. Jabotinskij, quindi, è il capostipite di una dinastia nella quale figurano alcuni dei maggiori uomini politici israeliani: Begin, Ytzhak Shamir, Benjamin Netanyahu e, benché appartenga a un partito diverso, Avigdor Liebermann, da poco ministro degli Esteri: tutti, in un modo o nell’altro, contrari alla creazione di uno Stato palestinese. Lei ha ragione quando descrive le opinioni ragionevoli della maggioranza degli israeliani. Ma il sionismo radicale ha finito per dettare o condizionare le strategie dello Stato. Lo dimostra il fatto che nessun governo abbia potuto o voluto interrompere gli insediamenti coloniali nei territori occupati. Credo che con il ritiro da Gaza Sharon volesse soltanto «gettare zavorra», vale a dire sbarazzarsi di un territorio dove 20.000 soldati israeliani erano impegnati nella protezione di 8.000 coloni. A questo punto, caro Segre, non ci rimane che attendere i risultati della visita di Netanyahu a Washington nei prossimi giorni. Mi auguro che diano ragione alle sue analisi e alle sue speranze.
La STAMPA - Igor Man : " Una capitale troppo santa "
Riferendosi al piano di costruzione di parchi a Gerusalemme, Man(zella) scrive : " Il progetto ha una sua logica che coniuga urbanistica e politica territoriale. Ha solo il torto di ricordare una volta ancora al colto e all’inclita che «è stata la capitale del popolo ebraico (per tremila anni) e resterà la capitale riunificata di Israele» ". E se anche fosse ?Il progetto ha una logica urbanistica e basta. Non è un espediente per inglobare territori. Niente complotti. Inoltre Gerusalemme è la capitale di Israele, non è così strano che gli ebrei israeliani abbiano deciso di migliorarne l'aspetto urbanistico. In ogni caso, come scrive Man(zella) stesso," sotto la sovranità israeliana - ha aggiunto il portavoce -, i Luoghi Santi sono ben protetti (...) Il governo continuerà a sviluppare Gerusalemme per il bene della sua composita popolazione ".
Poi Man(zella) scrive : " I palestinesi protestano e c’è, al solito, chi minaccia sfracelli. Di più: si ha l’impressione che Israele dia per scontato che Gerusalemme «è e sarà» la capitale (santa) dello Stato ebraico". Non è un'impressione. Israele HA come capitale Gerusalemme (forse Man(zella), troppo occupato a scrivere articoli carichi d'odio e bugie su Israele non se n'è accorto?), anche se i Paesi arabi si rifiutano di riconoscerlo.
Ecco l'articolo:
Con eccezionale tempismo, nel (preciso) momento in cui il Pontefice è ospite in Israele nell’evidente tentativo di limare le non poche asperità che guastano i reciproci rapporti, quelli che chiameremo «i biblisti» fanno esplodere il fino a ieri vago progetto urbanistico volto a definire lo status di Gerusalemme. Il progetto ha una sua logica che coniuga urbanistica e politica territoriale. Ha solo il torto di ricordare una volta ancora al colto e all’inclita che «è stata la capitale del popolo ebraico (per tremila anni) e resterà la capitale riunificata di Israele» giusta la dichiarazione (puntuale) del portavoce della municipalità di Gerusalemme. Ancora: «sotto la sovranità israeliana - ha aggiunto il portavoce -, i Luoghi Santi sono ben protetti (...) Il governo continuerà a sviluppare Gerusalemme per il bene della sua composita popolazione».
Secondo fonti giornalistiche bene informate, il progetto dei «parchi biblici» a Sud e a Est della città contesa, risale al settembre del 2005 quando capo del governo era Sharon. E risulta che allora, due anni prima dell’inutile conferenza di Annapolis, sparigliò le carte con la sua consumata destrezza, lasciando credere ai palestinesi che il progetto era «chiaramente urbanistico» e come tale capace di assicurare alla Città Santa «sviluppo e benessere». Invece, scoprono oggi, insieme con gli stessi israeliani, e grazie a una bene informata Ong, che i negoziatori israeliani (l’ex premier Olmert e Tzipi Livni) lasciavano credere alla controparte palestinese («per non irritarla») che avrebbe inglobato la zona del Santo Bacino - giusto per fare un esempio. Il progetto biblico, la sua divulgazione, coincidono con l’ambizioso progetto decennale di «rilancio» illustrato proprio in questi giorni dal sindaco di Gerusalemme capitale.
I palestinesi protestano e c’è, al solito, chi minaccia sfracelli. Di più: si ha l’impressione che Israele dia per scontato che Gerusalemme «è e sarà» la capitale (santa) dello Stato ebraico. Ben altri timori turbano un popolo affamato di pace. Uno su tutti: un blitz in Iran per distruggere i siti nucleari. Con tutte le conseguenze del caso. Nel 1956 in Israele i giovani cantavano: «Sempre in tre saremo/io, tu/ e la prossima guerra».
Per inviare la propria opinione a Corriere della Sera e Stampa, cliccare sulle e-mail sottostanti