Viaggio B-XVI: standing ovations gli articoli di Valentina Fizzotti e Roberto De Mattei
Testata: Il Foglio Data: 12 maggio 2009 Pagina: 7 Autore: Valentina Fizzotti - Roberto De Mattei Titolo: «Dice Weigel - B-XVI sta capovolgendo il pensiero cattolico su Israele e sugli ebrei»
Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 12/05/2009, a pag. III, l'articolo di Valentina Fizzotti dal titolo " Dice Weigel " e quello di Roberto De Mattei dal titolo " B-XVI sta capovolgendo il pensiero cattolico su Israele e sugli ebrei ". Ecco gli articoli:
Valentina Fizzotti : " Dice Weigel "
Chi non capisce che “Joseph Ratzinger ha passato più di mezzo secolo a spiegare ai cristiani il debito nei confronti del giudaismo” non capisce né lui né il suo pontificato. Addirittura secondo George Weigel, teologo cattolico americano dell’Ethics and Public Policy Center e autore di best seller sugli ultimi due pontefici, sarebbe una vergogna se chiunque parlasse di Benedetto XVI, cattolici, ebrei o musulmani, “si basasse soltanto sulla caricatura fumettistica e non sul vero uomo”. Certo, dice Weigel, anche il Vaticano ha da lavorare sulla sua comunicazione, ma spesso e volentieri i fraintendimenti delle parole del Papa sono dovuti al fatto che “molti giornalisti non hanno il bagaglio intellettuale adatto”. Per questo ieri, quando il Papa ha messo piede in uno dei luoghi più sensibili del pellegrinaggio, il mausoleo che ricorda l’Olocausto, erano tutti pronti a scatenare una seconda Ratisbona. Il Papa per l’ennesima volta ha condannato “l’orrenda tragedia della Shoah” e ha ribadito la posizione della chiesa. Per il pellegrino Ratzinger, amico degli ebrei, però, il rapporto fra occidente e Terra Santa va oltre l’omaggio alla memoria della Shoah. E’ il rapporto fra culture e religioni differenti che si incontrano. E che devono, ha detto il Papa davanti al presidente israeliano Peres, contribuire a ricercare la pace. Con Dio e non nonostante Dio. Per il Papa dialogare non significa nemmeno appiattirsi su una “monocultura”, concordare forzatamente su tutto in nome di un’armonia falsa. Quello che esiste fra ebrei e cristiani, spiega Weigel, è un rapporto di amicizia. “Gli amici fra loro si dicono la verità: l’amicizia nella quale non si dice la verità non è un’amicizia vera. Allo stesso modo il dialogo vero parte dalla premessa che, mentre esiste un desiderio umano naturale di verità, alle volte chi sta dialogando con noi ci può fraintendere. Noi cristiani rispettiamo la ricerca della verità da parte degli ebrei, in se stessa e perché può illuminare anche la nostra stessa ricerca. Ma diciamo anche loro quando pensiamo che abbiano svoltato dalla parte sbagliata sulla strada verso la verità”. Fra ebrei e cristiani – spiega Weigel – in fondo c’è in comune anche la speranza messianica. Soltanto che per i cristiani si è già realizzata. “Un amico rabbino – racconta – una volta mi ha detto: ‘Quando il messia verrà, sarà la prima o la seconda volta? Voi cristiani dite che sarà la seconda. Io spero soltanto che, quando verrà, lo riconosceremo tutti’”. La differenza con l’islam Quella con l’islam, invece, è un’altra storia. “I cristiani non possono accettare per esempio – dice Weigel – il convincimento musulmano secondo il quale ciò che loro credono essere la rivelazione di Dio a Maometto rimpiazza e completa la rivelazione del Dio biblico. Dal nostro punto di vista questo non è vero. Eppure quella differenza di giudizio così significativa non deve portare a violenza e guerra”. Un po’ come accade fra cristiani e mormoni in America: quella che i mormoni ritengono sia una rivelazione a Joseph Smith non ha portato a una guerra. Il problema, proprio come aveva detto Benedetto XVI anche domenica ad Amman, è la manipolazione delle differenze esistenti fra le fedi per fini politici. Per Benedetto XVI il dialogo è una questione di ragione. “Rafforzare la relazione fra fede e ragione è uno dei principali temi pubblici del pontificato – dice Weigel – Prima di tutto, è importante per la nuova evangelizzazione, alla luce della sfida del nuovo ateismo. Poi è il terreno disponibile sul quale può realizzarsi un dialogo con l’islam”. Meglio dialogare sulla base della ragione, piuttosto che mettere in piedi un bel teatrino di convenevoli interreligiosi. Anche perché “un islam che guarda ad Avicenna e Averroé per trarre ispirazione sul suo incontro con il mondo non islamico, invece che ispirarsi a Sayyid Qutb e Ruhollah Khomeini, non rappresenterà una minaccia per il resto del mondo”. Anche il dialogo cattolico con l’ebraismo si basa sulla ragione, ma la sua struttura è diversa da quello che il Papa cerca faticosamente d’instaurare con l’islam. “Quello che chiamiamo occidente è un prodotto dell’interazione fruttuosa della religione biblica (l’ebraismo e il cristianesimo) con la cultura classica (la filosofia greca e il diritto romano). Per questo questo dialogo ha una consistenza diversa”. Al di là delle Sacre Scritture, per Weigel, un buon punto di partenza per la costruzione di un dialogo organico cattolico- giudaico su fede è già stato messo: “E’ il discorso pronunciato da Giovanni Paolo II sul Monte Sinai nel 2000, quando il Papa parlò delle verità morali dei dieci comandamenti scritti nel cuore dell’uomo (come per esempio la legge morale naturale) prima che sulle Tavole di pietra”.
Roberto De Mattei : " B-XVI sta capovolgendo il pensiero cattolico su Israele e sugli ebrei "
Il viaggio di Benedetto XVI in Terra Santa è molto diverso da quelli dei suoi predecessori. Giovanni Paolo II, in particolare, si recò a Gerusalemme nel 2000, l’anno del giubileo, quando il clima internazionale era dominato dall’ottimismo, il traguardo della pace sembrava vicino, l’icona di Arafat era universalmente venerata. L’11 settembre ha spazzato le illusioni, riportando sulla scena gli stati nazionali, di cui si era sbrigativamente decretata la morte, mentre le religioni ritrovano il loro spazio pubblico nella vita dei popoli. In questo nuovo contesto storico, ridurre il viaggio del Papa a un “messaggio di pace” significherebbe non coglierne la novità e la potenzialità. Quella di Benedetto XVI non è una missione politica per costruire improbabili “ponti di pace”, in nome di “valori condivisi”, ma è innanzitutto un pellegrinaggio spirituale intrapreso come Vicario e testimone di Cristo, nella convinzione che nessun ordine internazionale è possibile se non è fondato sul “principe della pace” (Is, 9,5) e sulla “pietra angolare” (Ef, 2, 20) della convivenza umana. Non si può dimenticare che Benedetto XVI è autore di un libro, ormai tradotto in tutte le lingue, dedicato a Gesù di Nazareth. In queste pagine egli combatte il tentativo di scindere il Cristo della storia da quello della fede, caratteristico della teologia contemporanea. Fin dai primi secoli della Chiesa si era peraltro tentato di separare le due nature di Cristo, la divina e la umana, facendo dell’Uomo-Dio una divinità disincarnata, come pretendevano i docetisti, o una figura puramente umana, come affermavano gli ariani. Oggi antiche e nuove eresie si sovrappongono e confutarle è condizione necessaria per restituire a Cristo il suo ruolo che, come sottolinea Benedetto XVI, non è né quello di un “mite moralista”, né di un “rivoluzionario anti-romano”. Gesù di Nazareth non è neanche un’utopia, o un mito, ma una persona storica, nata, morta e risorta, duemila anni orsono nella terra che il Papa visiterà. La lettura di questo libro è indispensabile per comprendere il viaggio di Benedetto XVI a Gerusalemme, che è anche quello del Buon Samaritano, che si china a soccorrere l’uomo ferito giacente sul ciglio della strada. Il Papa applica questa parabola all’umanità sofferente dei nostri giorni, a cui solo Cristo può offrire una parola di speranza e di conforto. E i primi “sofferenti” a cui il viaggio papale è dedicato sono i cristiani di Terra Santa, ormai ridotti a una minoranza, spesso fortemente penalizzata, che non supera il 2 per cento degli arabi e degli ebrei. Essi hanno manifestato il loro pessimismo nei riguardi della visita pontificia, ma il primo a condividerne le preoccupazioni è proprio Benedetto XVI, che non affida alla diplomazia il compito di risolvere la complessa situazione del medio oriente. Il suo appare piuttosto il realismo di chi conosce i mali profondi che aggrediscono l’uomo e sa che l’unica ricetta per guarirli non è politica o economica, ma spirituale e morale. Ciò non toglie che il viaggio abbia anche una dimensione politica, perché la Chiesa di cui Benedetto XVI è il capo, è anche un soggetto giuridico internazionale, dotato della capacità di trattare con gli stati e con i governi. La Santa Sede, autorità costituzionale della Chiesa, ha in questo caso come interlocutore lo stato di Israele, di cui san Pio X, un secolo addietro paventava la nascita, prevedendo i problemi che ciò avrebbe creato, ma che rappresenta oggi una realtà sovrana di cui nessuno può negare l’esistenza e i diritti che da essa conseguono. Lo stato di Israele ha una sua specificità, dovuta al particolare rapporto che lo lega con la religione ebraica. La Legge del Ritorno (1950) che permette a tutti gli ebrei di diventarne cittadini è l’espressione più significativa di questo sottile ma inscindibile legame tra religione e politica. Ed è proprio su questo punto che il mondo cattolico è chiamato da Benedetto XVI a un capovolgimento di impostazione. Negli anni del postconcilio, la posizione del mondo cattolico si articolava attorno a due assi: chiusura verso lo stato di Israele e apertura incondizionata verso la religione ebraica. L’ostilità politica verso Israele, alleato degli Stati Uniti e dell’occidente, si alimentava al terzomondismo e al filo-marxismo diffusi negli ambienti cattolici. Il cedimento teologico era la rinuncia ad affermare l’identità cristiana, non solo davanti al giudaismo, ma di fronte a qualsiasi interlocutore, religioso o secolare che fosse, secondo una concezione di “dialogo ecumenico”, che si traduceva generalmente, in puro e semplice “trasbordo”. Il pontificato di Benedetto XVI invita i cristiani a rovesciare questa prospettiva, assumendo una posizione di aperto sostegno allo stato di Israele, estrema propaggine dell’occidente in una terra in cui si vorrebbe come unica legge la sharia, ma senza rinunciare a svolgere una rigorosa critica teologica di quanto nella religione ebraica è incompatibile con il cattolicesimo. Non si può dimenticare, in particolare, che la sintesi del cristianesimo sta nel mistero dell’Unità e Trinità di Dio, negato, come una blasfemia, dal giudaismo e dall’islamismo. I cristiani non possono rinunciare a proclamare questo mistero, se vogliono essere sé stessi, e non possono tacere il fatto che quando insieme agli ebrei e ai musulmani pronunciano la parola Dio non intendono la stessa identità divina. Esiste certamente un unico Dio, ma essi non pregano un Dio comune. L’universalismo salvifico, secondo cui ogni esperienza religiosa fa parte dell’unico disegno di salvezza, è destinato a tradursi in indifferentismo religioso. Una volta ammesso questo principio non si vede infatti perché debba essere escluso dalla salvezza chi non ha alcuna fede religiosa e, professando magari il relativismo, ha tuttavia un’intensa esperienza di vita: tutti sarebbero, per dirla con Rahner, “cristiani impliciti”. Nel dialogo interreligioso con gli ebrei si sentono spesso citare i riferimenti di san Paolo alla “santa radice” e alla “irrevocabilità dei doni” elargiti da Dio al popolo eletto. Tuttavia, la Lettera ai Romani (9, 4-5 e 11, 17- 24 e 28-29) va letta contestualmente con la Lettera agli ebrei, per quanto essa risulti poco gradita all’esegesi contemporanea. E’ innegabile che Cristo e gli Apostoli nacquero dal popolo ebraico e che, come afferma la dichiarazione Nostra Aetate, “grande è il patrimonio spirituale comune a cattolici ed ebrei” (4e); altrettanto incontestabile è però il rifiuto da parte degli ebrei di ieri e di oggi di innestarsi sulla Chiesa, nuova radice e nuova alleanza che si sostituisce all’antica. Queste considerazioni teologiche non hanno niente a che fare con l’antisemitismo, ma esprimono ciò che Benedetto XVI affermava rivolgendosi ai membri dell’International Jewish Committee on Interreligious Consultations, il 30 ottobre 2008: “Il dialogo è serio e onesto quando rispetta le differenze e riconosce gli altri proprio nella loro alterità”. Solo queste categorie forti permettono di comprendere la novità e le potenzialità del faticoso periplo in medio oriente di un Pontefice di 82 anni. Il bilancio sui risultati del viaggio naturalmente non può essere preventivo. Va ricordato peraltro che il suo significato sarà misurato non solo dai discorsi del Papa, calibrati in ogni sfumatura dalla segreteria di stato, ma dagli atti e dalle immagini che i media veicoleranno. Nella società dell’immagine, il messaggio va al di là delle intenzioni e delle stesse parole ed è legato spesso a dettagli inaspettati e imponderabili. In questo senso le Messe che il Papa celebrerà nel Getsemani, a Nazareth e a Betlemme, acquistano un importante senso simbolico: riaffermano il sofferto primato della fede sulla politica, che è una delle cifre attraverso cui giudicare il pontificato di Benedetto XVI.
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