Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 11/05/2009, a pag. 8, l'articolo di Guido OIimpio dal titolo " Minacciata l’esistenza del Pakistan ", il reportage di Lorenzo Cremonesi dal titolo " E i profughi dalla valle talebana abbandonano le case e il raccolto " e l'intervista di Ennio Caretto a Richard Perle, già stratega di Bush, dal titolo " Anche l’Europa deve scendere in campo ". Ecco gli articoli:
Guido Olimpio: " Minacciata l’esistenza del Pakistan "
WASHINGTON — Qualcosa si muove sul fronte orientale. O almeno questo è ciò che pensa il generale David Petraeus, responsabile del comando che segue le operazioni nello scacchiere afghano-pachistano. La sfida dei talebani — nel suo giudizio — ha «galvanizzato » l’esercito del Pakistan e lo ha spinto a reagire nei confronti di una «minaccia esistenziale». Le prossime settimane, ha aggiunto, saranno decisive per capire se la risposta di Islamabad ha avuto successo. Poi, stemperando i timori emersi negli Usa nei giorni scorsi, il generale ha affermato di avere fiducia nel sistema che protegge l’arsenale nucleare del Pakistan: «Ci fidiamo delle misure di sicurezza e delle procedure».
Alle parole di Petraeus ha fatto eco il presidente pachistano Ali Zardari. In un’intervista alla Nbc ha rassicurato che «lo Stato non collasserà» ma ha riconosciuto che il suo Paese sta combattendo «la guerra per la propria esistenza». Quindi ha ricordato che il problema delle formazioni integraliste non è nato oggi essendo un’eredità della guerra contro i sovietici. La crescita del movimento mujaheddin negli anni 80, ha osservato, «è un cancro creato da noi tutti, Pakistan e America». Una chiara allusione al finanziamento da parte delle intelligence dei due Paesi (e dell’Arabia Saudita) verso gli insorti che si battevano per liberare l’Afghanistan dall’Armata Rossa.
Il nuovo impegno nella lotta all’estremismo, sancito dal recente incontro di Washington con Barack Obama e il presidente afghano Karzai, non ha comunque sgombrato il campo da alcune differenze di vedute tra i partner. In particolare sul dossier dei raid americani. Missioni affidate a velivoli convenzionali in Afghanistan e agli aerei senza pilota in Pakistan. Il Pentagono, ha avvertito il consigliere per la sicurezza nazionale James Jones, non fermerà gli attacchi, anche se cercherà di evitare che si ripetano errori nella designazione dei bersagli: «Raddoppieremo i nostri sforzi per impedire che degli innocenti siano uccisi». Un problema serio, per le ripercussioni politiche e sociali, confermato dalla strage costata la vita pochi giorni fa a decine di civili in Afghanistan. Per Jones «legare le mani ai nostri comandanti sarebbe una cosa imprudente». Su questo aspetto è parso più prudente Petraeus. Infatti, ha riconosciuto che «le nostre tattiche non devono compromettere gli obiettivi strategici».
Ossia bisogna evitare di alienarsi il consenso della popolazione solo per neutralizzare questo o quel capo terrorista.
Per diversi responsabili militari i raid si sono rivelati un’arma efficace, specie contro le formazioni qaediste. Grazie alle incursioni dei droni sono stati eliminati numerosi dirigenti e altri sono stati costretti a nascondersi. Un bilancio positivo riconosciuto dallo stesso Petraeus, il quale ritiene che «Al Qaeda mantiene delle enclavi e dei rifugi, ma non ha più basi operative in Afghanistan». La spada è adesso nelle mani dei talebani che usano le zone tribali del Pakistan come retrovia. Una regione dove hanno trovato ospitalità molti qaedisti. Forse tra i fuggiaschi c’è anche Bin Laden. Ma, come ha ammesso Jones, nessuno sa se Osama sia «vivo e morto».
Lorenzo Cremonesi : " E i profughi dalla valle talebana abbandonano le case e il raccolto "
MARDAN — Sono arrampicati a grappoli sui cassoni dei camion colorati. Le auto hanno i portapacchi sul tetto carichi all’inverosimile di valigione tenute assieme da corde di canapa, e poi coperte, secchi, pentole, e materassi, soprattutto materassi per i bivacchi dei prossimi giorni. All’interno degli abitacoli, le donne si coprono il viso non appena uno straniero le fissa. E dovunque sono stipati bambini, accaldati, piangenti, che saltano sulle ginocchia degli autisti che lasciano fare, stanchi per le lunghe ore di tensione segnate dalla paura dei bombardamenti, stremati dalle attese ai posti di blocco.
Si distinguono immediatamente i veicoli dei profughi in fuga da Swat, Dir, Buner e le altre regioni dove da cinque giorni l’esercito pachistano ha lanciato contro i talebani quella che il presidente Asif Ali Zardari ieri è tornato a definire la «battaglia decisiva per la sopravvivenza del nostro Paese». Ieri per tutta la giornata hanno lentamente sfilato verso sud, con il caldo che nelle ore centrali già supera i 35 gradi, fra i lanci di bottiglie d’acqua, biscotti e pacchetti di patatine da parte dei giovani volontari delle organizzazioni caritative islamiche locali.
Centinaia e centinaia di veicoli di ogni genere. Colorati, pulsanti di vita nel loro carico di umanità dolente e impaurita. Secondo le autorità, da qui solo nelle ultime 24 ore sono transitati in oltre 100.000. L’Onu parla già di oltre mezzo milione di profughi. Ma i media locali riportano il doppio della cifra. E sottolineano: «Chi può, la maggioranza evita i campi di tende, si rifugia da parenti e amici verso Islamabad e Lahore, sino a Karachi». Passata Peshawar, solo due ore di viaggio sulla nuova autostrada da Islamabad, in circa un’ora si arriva a Mardan. Da qui l’accesso per la vallata di Swat è a meno di 50 chilometri. Ma il primo posto di blocco dell’esercito si trova soltanto una decina di chilometri più avanti. Di qua verso nord possono transitare unicamente le truppe impegnate nell’offensiva. Ed è qui che vengono accolti i profughi per la prima assistenza. Il luogo si chiama «Jalala Camp». Ieri mattina vi erano state montate 200 tende (ognuna in grado di ospitare almeno 10 persone) dell’Onu oltre ad alcune decine delle organizzazioni pachistane.
A mezzogiorno erano stati piazzati anche un grande tendone-moschea, la zona dei servizi igienici, quella della mensa e una piccola clinica d’emergenza.
Pochi i segnali dei combattimenti. Qualche elicottero in cielo. Il passaggio di colonne motorizzate di soldati. Ogni tanto il rombo dell’artiglieria, lontano, verso la striscia scura delle montagne all’orizzonte. Nel suo bollettino quotidiano il portavoce dell’esercito, generale Athar Abbas, parla di 400 morti tra la guerriglia talebana in cinque giorni. «Circa 200 nelle ultime 24 ore», specifica. Se fosse confermato, ad ascoltare le autorità pachistane, i talebani avrebbero dunque perso quasi un decimo dei loro effettivi, valutati in un numero compreso tra i 4 e 5 mila uomini. Ma sono per primi i giornalisti locali a mettere in guardia. «Non esiste alcuna conferma. In realtà non ci sono fonti indipendenti. Nessun osservatore o giornalista può raggiungere le zone dei combattimenti. E in passato le cifre delle vittime talebane sono spesso state gonfiate dai militari», osserva tra gli altri Rahimullah Yusufzai, decano dei reporter di Peshawar e corrispondente per il quotidiano in lingua inglese The News. A suo dire questa nuova offensiva militare contro i talebani trova in via di principio un largo consenso non solo tra la popolazione del Pakistan in generale, ma per una volta anche «tra quella residente in larghi settori delle zone colpite, che si è stancata dell’estremismo islamico crescente tra i mullah che guidano le bande di giovanissimi talebani». Ma con un grosso limite, come Yusufzai notava anche nell’articolo pubblicato ieri mattina: «Se le vittime civili dovessero crescere, il consenso per il governo potrebbe rapidamente trasformarsi in malcontento». Un sentimento questo facile da percepire tra i profughi.
«Il nostro problema maggiore sono gli animali che abbiamo dovuto abbandonare in fretta e furia sotto l’incalzare delle bombe e soprattutto i nostri campi di grano, che non possiamo mietere », dice tra i tanti Azrat Mohammad, un cinquantenne, la cui misera consolazione è di essere riuscito a portare via due galline.
Già, il raccolto. Questa è una società ancora profondamente contadina, guidata, dominata dai ritmi ancestrali della vita nei campi. «Se il governo non permetterà a questa gente di tornare presto alle loro case per mietere il grano, scoppierà una grande crisi economica. Un gigantesco dramma collettivo. E i talebani torneranno a raccogliere consensi», aggiunge Yusufzai. All’infermeria, nella parte destinata alle donne, un paio di ragazze ricordano che nell’ultimo anno tutte le scuole femminili erano state chiuse. «I talebani stavano imponendo la loro interpretazione del Corano, come in Afghanistan. Nessuna donna poteva più uscire di casa da sola, neppure per fare la spesa o andare al mercato. Doveva per forza essere accompagnata da un uomo della famiglia», dice quasi gridando, rabbiosa, Nasib Jan. Una sua nipote, Dilshab, 13 anni, si lamenta però non dei talebani, ma della famiglia che in nome della tradizione pashtun quando è rimasta orfana l’ha obbligata a sposarsi con un lontano parente. «Peccato. Avrei voluto continuare a studiare e diventare maestra», aggiunge.
Poco più in là, tra le tende diventate bollenti sotto il sole, i più però se la prendono con l’esercito: «Ma perché i nostri comandi non usano le truppe di terra? I soldati pachistani sparano da lontano. Aviazione e artiglieria uccidono la nostra gente, distruggono le nostre case. Fanno come gli americani in Afghanistan e così alla fine i nostri ragazzi, per rabbia, potrebbero unirsi ancora più numerosi ai ranghi dei più pazzi tra gli estremisti talebani».
Ennio Caretto : " Anche l’Europa deve scendere in campo "
WASHINGTON — Per Richard Perle la guerra contro i talebani «si vince o si perde in Pakistan prima che in Afghanistan». La soluzione della crisi, afferma l'ex sottosegretario alla Difesa di George W. Bush, «non è tanto nelle nostre mani quanto in quelle del governo pachistano ». L'amministrazione Obama ne è consapevole, e preme sul Pakistan perché aumenti l’intervento militare. Ma l’Europa, protesta Perle, «non fa la sua parte su nessuno dei due fronti», sebbene sia più a rischio dell'America. «Sembrate non capire che questa è la crisi più grave di tutte, che l'arsenale atomico pachistano potrebbe cadere nelle mani dei fondamentalisti islamici con conseguenze spaventose».
Qual è il rischio maggiore?
«Che i talebani possano destabilizzare il Pakistan come stanno destabilizzando l'Afghanistan. Il governo e le forze armate pachistane non sono in grado di controllarli, o non vogliono. I talebani sono padroni delle zone di frontiera, ma anche di zone vicine a Islamabad. E contro di essi l'America può solo usare i droni ( gli aerei senza pilota, ndr), non può combatterli sul terreno come in Afghanistan».
Teme che i talebani prendano il potere in Pakistan?
«I talebani sono una parte dell’estremismo islamico. Se non loro, gruppi affini possono rovesciare il governo. Il Pakistan ha armi atomiche. Se i fondamentalisti se ne impadronissero, l'India si sentirebbe minacciata e non resterebbe a guardare. Come escludere una guerra terribile, forse atomica?».
Che cosa si può fare?
«Bisogna persuadere il Pakistan a combattere i talebani in casa propria, sarebbe il preludio alla loro sconfitta anche in Afghanistan. Ma per questo bisogna dare a Islamabad massicci aiuti economici e militari. E in questo l’Europa non appoggia abbastanza gli Stati Uniti».
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