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Fiamma Nirenstein ci parla della guerra antisemita contro l'Occidente

Riprendiamo da FORMICHE.net, la video-intervista di Roberto Arditti a Fiamma Nirenstein dal titolo: "A che punto siamo in Medio Oriente. Intervista a Fiamma Nirenstein". 
(Video a cura di Giorgio Pavoncello)

Intervista a tutto campo a Fiamma Nirenstein di Roberto Arditti, a partire dal suo ultimo libro: "La guerra antisemita contro l'Occidente". Le radici dell'antisemitismo e perché l'aggressione contro il popolo ebraico in Israele è un attacco a tutto campo contro la civiltà occidentale. E una sconfitta di Israele segnerebbe anche la nostra fine. 



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Corriere della Sera Rassegna Stampa
11.05.2009 Minacciata l’esistenza del Pakistan
2 articoli, e l'intervista di Ennio Caretto a Richard Perle

Testata: Corriere della Sera
Data: 11 maggio 2009
Pagina: 8
Autore: Guido Olimpio - Lorenzo Cremonesi - Ennio Caretto
Titolo: «Minacciata l’esistenza del Pakistan - E i profughi dalla valle talebana abbandonano le case e il raccolto - Anche l’Europa deve scendere in campo»

Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 11/05/2009, a pag. 8, l'articolo di Guido OIimpio dal titolo " Minacciata l’esistenza del Pakistan ", il reportage di Lorenzo Cremonesi dal titolo " E i profughi dalla valle talebana abbandonano le case e il raccolto  " e l'intervista di Ennio Caretto a Richard Perle, già  stratega di Bush,  dal titolo " Anche l’Europa deve scendere in campo ". Ecco gli articoli:

Guido Olimpio: " Minacciata l’esistenza del Pakistan "

WASHINGTON — Qualcosa si muove sul fronte orientale. O almeno questo è ciò che pensa il generale David Petra­eus, responsabile del coman­do che segue le operazioni nel­lo scacchiere afghano-pachi­stano. La sfida dei talebani — nel suo giudizio — ha «galva­nizzato » l’esercito del Paki­stan e lo ha spinto a reagire nei confronti di una «minac­cia esistenziale». Le prossime settimane, ha aggiunto, saran­no decisive per capire se la ri­sposta di Islamabad ha avuto successo. Poi, stemperando i timori emersi negli Usa nei giorni scorsi, il generale ha af­fermato di avere fiducia nel si­stema che protegge l’arsenale nucleare del Pakistan: «Ci fi­diamo delle misure di sicurez­za e delle procedure».
Alle parole di Petraeus ha fatto eco il presidente pachi­stano Ali Zardari. In un’intervi­sta alla Nbc ha rassicurato che «lo Stato non collasserà» ma ha riconosciuto che il suo Pae­se sta combattendo «la guerra per la propria esistenza». Quindi ha ricordato che il pro­blema delle formazioni inte­graliste non è nato oggi essen­do un’eredità della guerra con­tro i sovietici. La crescita del movimento mujaheddin negli anni 80, ha osservato, «è un cancro creato da noi tutti, Pakistan e America». Una chia­ra allusione al finanziamento da parte delle intelligence dei due Paesi (e dell’Arabia Saudi­ta) verso gli insorti che si bat­tevano per liberare l’Afghani­stan dall’Armata Rossa.
Il nuovo impegno nella lot­ta all’estremismo, sancito dal recente incontro di Washin­gton con Barack Obama e il
presidente afghano Karzai, non ha comunque sgombrato il campo da alcune differenze di vedute tra i partner. In parti­colare sul dossier dei raid ame­ricani. Missioni affidate a veli­voli convenzionali in Afghani­stan e agli aerei senza pilota in Pakistan. Il Pentagono, ha av­vertito il consigliere per la si­curezza nazionale James Jo­nes, non fermerà gli attacchi, anche se cercherà di evitare che si ripetano errori nella de­signazione dei bersagli: «Rad­doppieremo i nostri sforzi per impedire che degli innocenti siano uccisi». Un problema se­rio, per le ripercussioni politi­che e sociali, confermato dalla strage costata la vita pochi giorni fa a decine di civili in Afghanistan. Per Jones «lega­re le mani ai nostri comandan­ti sarebbe una cosa imprudente». Su questo aspetto è parso più prudente Petraeus. Infatti, ha riconosciuto che «le nostre tatti­che non devono compromettere gli obiettivi strategici».
Ossia bisogna evitare di alienarsi il consenso della popolazione solo per neutralizzare questo o quel capo terrorista.
Per diversi responsabili mi­litari i raid si sono rivelati un’arma efficace, specie con­tro le formazioni qaediste. Grazie alle incursioni dei dro­ni sono stati eliminati nume­rosi dirigenti e altri sono stati costretti a nascondersi. Un bi­lancio positivo riconosciuto dallo stesso Petraeus, il quale ritiene che «Al Qaeda mantie­ne delle enclavi e dei rifugi, ma non ha più basi operative in Afghanistan». La spada è adesso nelle mani dei talebani che usano le zone tribali del Pakistan come retrovia. Una regione dove hanno trovato ospitalità molti qaedisti. For­se tra i fuggiaschi c’è anche Bin Laden. Ma, come ha am­messo Jones, nessuno sa se Osama sia «vivo e morto».

Lorenzo Cremonesi : " E i profughi dalla valle talebana abbandonano le case e il raccolto  "

MARDAN — Sono arrampicati a grappoli sui cassoni dei camion colorati. Le auto hanno i por­tapacchi sul tetto carichi all’inverosimile di vali­gione tenute assieme da corde di canapa, e poi coperte, secchi, pentole, e materassi, soprattut­to materassi per i bivacchi dei prossimi giorni. All’interno degli abitacoli, le donne si coprono il viso non appena uno straniero le fissa. E do­vunque sono stipati bambini, accaldati, pian­genti, che saltano sulle ginocchia degli autisti che lasciano fare, stanchi per le lunghe ore di tensione segnate dalla paura dei bombardamen­ti, stremati dalle attese ai posti di blocco.
Si distinguono immediatamente i veicoli dei profughi in fuga da Swat, Dir, Buner e le altre regioni dove da cinque giorni l’esercito pachi­stano ha lanciato contro i talebani quella che il presidente Asif Ali Zardari ieri è tornato a defini­re la «battaglia decisiva per la sopravvivenza del nostro Paese». Ieri per tutta la giornata han­no lentamente sfilato verso sud, con il caldo che nelle ore centrali già supera i 35 gradi, fra i lanci di bottiglie d’acqua, biscotti e pacchetti di patatine da parte dei giovani volontari delle or­ganizzazioni caritative islamiche locali.
Centinaia e centinaia di veicoli di ogni gene­re. Colorati, pulsanti di vita nel loro carico di umanità dolente e impaurita. Secondo le autori­tà, da qui solo nelle ultime 24 ore sono transita­ti in oltre 100.000. L’Onu parla già di oltre mez­zo milione di profughi. Ma i media locali riporta­no il doppio della cifra. E sottolineano: «Chi può, la maggioranza evita i campi di tende, si rifugia da parenti e amici verso Islamabad e Lahore, sino a Karachi». Passata Peshawar, solo due ore di viaggio sulla nuova autostrada da Islamabad, in circa un’ora si arriva a Mardan. Da qui l’accesso per la vallata di Swat è a meno di 50 chilometri. Ma il primo posto di blocco dell’esercito si trova soltanto una decina di chi­lometri più avanti. Di qua verso nord possono transitare unicamente le truppe impegnate nel­l’offensiva. Ed è qui che vengono accolti i profu­ghi per la prima assistenza. Il luogo si chiama «Jalala Camp». Ieri mattina vi erano state monta­te 200 tende (ognuna in grado di ospitare alme­no 10 persone) dell’Onu oltre ad alcune decine delle organizzazioni pachistane.
A mezzogiorno erano stati piazzati anche un grande tendone-moschea, la zona dei servizi igienici, quella della mensa e una piccola clinica d’emergenza.
Pochi i segnali dei combattimenti. Qualche elicottero in cielo. Il passaggio di colonne moto­rizzate di soldati. Ogni tanto il rombo dell’arti­glieria, lontano, verso la striscia scura delle montagne all’orizzonte. Nel suo bollettino quo­tidiano il portavoce dell’esercito, generale Athar Abbas, parla di 400 morti tra la guerriglia talebana in cinque giorni. «Circa 200 nelle ulti­me 24 ore», specifica. Se fosse confermato, ad ascoltare le autorità pachistane, i talebani avreb­bero dunque perso quasi un decimo dei loro ef­fettivi, valutati in un numero compreso tra i 4 e 5 mila uomini. Ma sono per primi i giornalisti locali a mettere in guardia. «Non esiste alcuna conferma. In realtà non ci sono fonti indipen­denti. Nessun osservatore o giornalista può rag­giungere le zone dei combattimenti. E in passa­to le cifre delle vittime talebane sono spesso sta­te gonfiate dai militari», osserva tra gli altri Rahimullah Yusufzai, decano dei reporter di Pe­shawar e corrispondente per il quotidiano in lin­gua inglese The News. A suo dire questa nuova offensiva militare contro i talebani trova in via di principio un largo consenso non solo tra la popolazione del Pakistan in generale, ma per una volta anche «tra quella residente in larghi settori delle zone colpite, che si è stancata del­l’estremismo islamico crescente tra i mullah che guidano le bande di giovanissimi talebani». Ma con un grosso limite, come Yusufzai notava anche nell’articolo pubblicato ieri mattina: «Se le vittime civili dovessero crescere, il consenso per il governo potrebbe rapidamente trasfor­marsi in malcontento». Un sentimento questo facile da percepire tra i profughi.
«Il nostro problema maggiore sono gli anima­li che abbiamo dovuto abbandonare in fretta e furia sotto l’incalzare delle bombe e soprattutto i nostri campi di grano, che non possiamo mie­tere », dice tra i tanti Azrat Mohammad, un cin­quantenne, la cui misera consolazione è di esse­re riuscito a portare via due galline.
Già, il raccolto. Questa è una società ancora profondamente contadina, guidata, dominata dai ritmi ancestrali della vita nei campi. «Se il governo non permetterà a questa gente di torna­re presto alle loro case per mietere il grano, scoppierà una grande crisi economica. Un gigan­tesco dramma collettivo. E i talebani torneran­no a raccogliere consensi», aggiunge Yusufzai. All’infermeria, nella parte destinata alle donne, un paio di ragazze ricordano che nell’ultimo an­no tutte le scuole femminili erano state chiuse. «I talebani stavano imponendo la loro interpre­tazione
del Corano, come in Afghanistan. Nessu­na donna poteva più uscire di casa da sola, nep­pure per fare la spesa o andare al mercato. Dove­va per forza essere accompagnata da un uomo della famiglia», dice quasi gridando, rabbiosa, Nasib Jan. Una sua nipote, Dilshab, 13 anni, si lamenta però non dei talebani, ma della fami­glia che in nome della tradizione pashtun quan­do è rimasta orfana l’ha obbligata a sposarsi con un lontano parente. «Peccato. Avrei voluto continuare a studiare e diventare maestra», ag­giunge.
Poco più in là, tra le tende diventate bollenti sotto il sole, i più però se la prendono con l’eser­cito: «Ma perché i nostri comandi non usano le truppe di terra? I soldati pachistani sparano da lontano. Aviazione e artiglieria uccidono la no­stra gente, distruggono le nostre case. Fanno co­me gli americani in Afghanistan e così alla fine i nostri ragazzi, per rabbia, potrebbero unirsi an­cora più numerosi ai ranghi dei più pazzi tra gli estremisti talebani».

Ennio Caretto : " Anche l’Europa deve scendere in campo "

WASHINGTON — Per Richard Perle la guerra contro i talebani «si vince o si perde in Pakistan prima che in Afghanistan». La soluzione della crisi, afferma l'ex sottosegre­tario alla Difesa di George W. Bu­sh, «non è tanto nelle nostre mani quanto in quelle del governo pachi­stano ». L'amministrazione Obama ne è consapevole, e preme sul Paki­stan perché aumenti l’intervento militare. Ma l’Europa, protesta Per­le, «non fa la sua parte su nessuno dei due fronti», sebbene sia più a rischio dell'America. «Sembrate non capire che questa è la crisi più grave di tutte, che l'arsenale atomi­co pachistano potrebbe cadere nel­le mani dei fondamentalisti islami­ci con conseguenze spaventose».
Qual è il rischio maggiore?
«Che i talebani possano destabi­lizzare il Pakistan come stanno de­stabilizzando l'Afghanistan. Il go­verno e le forze armate pachistane non sono in grado di controllarli, o non vogliono. I talebani sono pa­droni delle zone di frontiera, ma anche di zone vicine a Islamabad. E contro di essi l'America può solo usare i droni (
gli aerei senza pilo­ta, ndr), non può combatterli sul terreno come in Afghanistan».
Teme che i talebani prendano il potere in Pakistan?
«I talebani sono una parte del­l’estremismo islamico. Se non lo­ro, gruppi affini possono rovescia­re il governo. Il Pakistan ha armi atomiche. Se i fondamentalisti se ne impadronissero, l'India si senti­rebbe minacciata e non resterebbe a guardare. Come escludere una guerra terribile, forse atomica?».
Che cosa si può fare?
«Bisogna persuadere il Pakistan a combattere i talebani in casa pro­pria, sarebbe il preludio alla loro sconfitta anche in Afghanistan. Ma per questo bisogna dare a Islama­bad massicci aiuti economici e mili­tari. E in questo l’Europa non ap­poggia abbastanza gli Stati Uniti».

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