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Un paese non basta Arrigo Levi Arrigo Levi, famoso giornalista e scrittore italiano, ha scritto un libro di memorie, assai appassionante, anche se in una pagina ci dice di temere di essere stato un po’ troppo serioso. Direi proprio di no. Nonostante le sciagure del secolo che tormentarono la sua esistenza giovanile e nonostante la fuga in Argentina a 16 anni con la famiglia ebraica perseguitata, Levi ha scritto un libro avvincente e spesso perfino divertente. Come tanti altri di noi anche Levi ha avuto almeno due vite mancate. E’ un mancato avvocato modenese, per non aver potuto seguire le orme del padre Enzo, a causa delle persecuzioni, ed è un mancato professore universitario per non aver seguito l’esempio di altri suoi congiunti. Anche lui, in verità, ha tenuto lezioni universitarie alla Johns Hopkins o alla Statale di Bologna, ma tiene a farci sapere di non essere salito mai in cattedra, “perché dalla cattedra non si colloquia bene con il prossimo”. Gli è bastato appoggiarcisi stando in piedi. Del resto in molti ricordiamo la sua bravura, competenza, affabilità e umanità nella conduzione tra il 1966 e il 1968 del telegiornale Rai. Nel 1962 dopo la fuga in Argentina a causa delle leggi razziali italiane, si recò a Mosca come corrispondente prima del “Corriere della sera” e poi del “Giorno”. E’ stato anche direttore della “Stampa” di Torino. Levi, insomma, ha sì avuto due carriere mancate, ma poi ha pur avuto una vita pienissima, tanto che grazie ai meriti da lui acquisiti è diventato consigliere di ben due presidenti della Repubblica, Ciampi e Napolitano, con un bell’ufficio nel Palazzo del Quirinale. Molto doloroso fu per lui e per i suoi il distacco da Modena, dove gli antenati abitavano da cinque secoli e nelle cui sinagoghe i rabbini recitavano, fino alle leggi razziali del ’38, una “benedizione” al re Vittorio Emanuele III, colui che poi appose la sua firma sotto quegli sciagurati provvedimenti. Fino al ’38, l’Italia era insomma la vera patria degli ebrei d’Italia. “Nell’adolescenza – ci dice Levi – leggevo Leopardi e lo trovavo (lo trovo ancora) uno spirito fratello o almeno (mi dicevo) uno spirito cugino meno fortunato di me, ma con la stessa voglia di essere felice e gli stessi inspiegabili umori oscuri sempre in me riaffioranti, che non sapevo se fossero soltanto i turbamenti dell’adolescenza di cui parlano i romanzi o qualcosa di meno passeggero. Non lo so ancora oggi, anche se tendo a chiedermi se questi stati d’animo abbiano a che fare, anziché con l’adolescenza, con l’età che avanza”. “Allora – scrive Levi rievocando il suo passato – non c’erano scuole di giornalismo. Si diventava giornalisti nei giornali. Ma, prima che nei giornali, studiando, o in una biblioteca, che vale più di cento scuole di giornalismo. Ancora oggi, e non solo allora. So bene di essere stato fortunato, negli anni della mia infanzia e giovinezza, non solo per essere scampato alla persecuzione, ma per il dono di una vita serena, per gli insegnamenti e i valori che l’ambiente colto e liberale di una famiglia borghese, ebraica e italiana dell’inizio di secolo naturalmente conferiva”. Del tutto privo di faziosità Levi riconosce che, nella zona italiana della Francia occupata, le autorità militari e civili dell’Italia mussoliniana, impedivano la deportazione degli ebrei in Germania, suscitando l’indignazione degli alleati tedeschi. E “quando Mussolini, per placare le ire tedesche, inviò a Nizza un funzionario, Guido Lospinoso, con l’incarico di cedere alle richieste hitleriane, lo stesso Lospinoso scelse l’ebreo Angelo Donati come suo principale consigliere”. I nazisti trovavano inconcepibile che un ebreo, in qualità di consigliere delle autorità italiane, impedisse la soluzione finale nella regione di Nizza. Gli ebrei vennero soltanto allontanati dalla zona costiera e obbligati a risiedere in paesini della Savoia, dove quella loro presenza viene ancora celebrata, con il ritorno, in taluni anni di alcuni sopravvissuti. Molti di loro come ad esempio il futuro diplomatico Nathan Ben Horin, riuscirono a raggiungere attraverso le montagne, la vicina e ben più sicura Svizzera. La situazione degli ebrei rifugiatisi nella zona di occupazione italiana, ci avverte Levi, divenne più precaria dopo la caduta del regime mussoliniano. Nel 1948, Levi partì alla volta di Israele per combattere nella guerra (dagli israeliani definita Guerra d’Indipendenza), che la Lega Araba aveva scatenato contro quel nuovo Stato, proprio allora nascente. Dopo circa un anno, tuttavia, Levi lasciò Israele, per riprendere a studiare, viaggiare e a conoscere il mondo. “Forse un paese non mi basta”, ha scritto Levi a pagg. 220, come recita il titolo di questo libro. Dal titolo del libro sono stati però cancellati sia il “forse”, avverbio di dubbio, sia quel “mi” (e mi chiedo se l’autore non lo abbia fatto per una sorta di pudore). A quei tempi Levi pensava all’America, ma soprattutto all’Inghilterra, e ovviamente all’Italia, della cui cultura era ed è profondamente impregnato. Piero Melograni --------------------------------------- Palestine Hubert Haddad Il dottor Charbi è stanco e male in arnese, infagottato “in un abito informe, il collo sporco, legato da una cravatta a righe”. Eppure, oltre a essere un buon medico, ha una sua filosofia di vita, che diffonde tra i pazienti come una medicina per i casi estremi: “Bisogna sempre parlare ai moribondi, ai pazzi, agli asini, persino ai nemici!”. In Palestine di Hubert Haddad, di pazzi, asini e nemici non ne mancano davvero, anzi sono gli attori principali: persone stralunate, povere bestie da soma, che pagano le angosce di tutti, e poi una folla di soldati armati all’inverosimile, pronti a umiliare o uccidere per un nonnulla. Tra i tentativi letterari di vedere il conflitto vicino-orientale con gli occhi degli altri, è questo uno dei più singolari. Haddad, nato in Tunisia nel 1947, ed emigrato da bambino in Francia, ridefinisce un “ebreo arabo”, ed ebraico-araba, anzi a tratti arabo-ebraica, è l’anima del suo libro. Quella che ha provato a raccontare è la vita quotidiana nei territori occupati, attraverso il filtro delle emozioni e degli affanni dei palestinesi. Se ci è riuscito – e si può dire che il risultato sia in buona parte conseguito – è grazie a un espediente da narratore consumato. Il suo protagonista è infatti arabo solo a metà, o meglio è un ebreo di madrelingua araba che, sbattuto dal caso in un villaggio vicino a Hebron, s’immedesima in una parte non sua e s’adatta a vivere nei panni di un altro, fino a provarne i più intimi moti dell’animo. Del resto, nel racconto, quasi nessuno è quello che sembra. Il destino ha fatto troppe capriole per tutti, per gli israeliani, per i profughi palestinesi che, dopo una serie infinita di sconfitte, sembrano ipnotizzati da “quel caos di disavventure”, e persino per i pacifisti, che s’intromettono tra gli uni e gli altri, “specie di turisti missionari”. Il copione potrebbe sembrare quello di una commedia degli equivoci, ma qui, tra le pattuglie israeliane in assetto di guerra, i bulldozer che spianano le case arabe per costruire il muro di separazione, e i terroristi alla ricerca di sempre nuovi obiettivi, una commedia è davvero impensabile: “Tutto accade in un meandro di tempo che nessuna ragione controlla”, e anche i sentimenti più elementari sono intrisi di insensatezza. Quella di Cham, già “soldato di prima classe”, è una metamorfosi lenta e terribile, così come pieno di paura è persino l’amore, che lo avvicina a Falastin, la ragazza dalla capigliatura color disfacimento, magra fino all’irrealtà, e forse per questo ancor più sensuale. La prosa di Haddad è a tratti sovraccarica, ma il costante tentativo di rovesciare torti e ragioni costringe il lettore a inoltrarsi fino in fondo nel racconto. Palestine ha le disarmonie ma anche l’eccitazione di un esperimento con pochi precedenti. Non sempre i profili dei palestinesi sono credibili e una giovane araba che cita il Cantico dei cantici in uno slancio d’amore suscita qualche perplessità. Il messaggio del libro arriva comunque chiaro e forte: sotto un simile cielo non c’è salvezza per nessuno, né per gli oppressi né per gli oppressori, e nemmeno per quanti s’illudano di non appartenere né agli uni né agli altri. Giulio Busi ----------------------------------------------------- Angeli e uomini Chaterine Chalier Si sa che non sempre serve essere sapienti o abili nell’imbastire intrighi. Qualche volta persino un asino vede più chiaro di un gran dottore, o meglio un’asina, come capita nella storia biblica che ha per protagonista quel presuntuoso di Balaam. L’angelo del Signore, con tanto di spada sguainata in mano, si apposta lungo un viottolo fra vigneti ed è pronto a far la festa a Balaam. L’asina sapiente, archetipo di tutti gli animali saggi delle favole che verranno, lo vede di lontano e pensa bene di cambiare strada, infilandosi per campi. Il suo padrone, che non s’accorge di un bel niente, non trova di meglio che picchiarla e quasi la vuole uccidere. Ne nasce un battibecco, perché si sa che le asine hanno la lingua lunga, e alla fine il Signore spazientito apre gli occhi di Balaam, che vede così l’angelo e quasi sviene di paura. L’autore di questo passo del libro dei Numeri doveva essere un serissimo mattacchione, perché quell’angelo che gioca a rimpiattino nel paesaggio assolato del vicino Oriente, è una metafora ben riuscita del rapporto tormentato, a volte ironico ma molto più spesso pauroso, che lega angeli e uomini. E non è detto che i messaggeri celesti abitino solo i libri vecchi di millenni. Le loro incursioni ne quotidiano possono dare filo da torcere anche ai giorni nostri. Catherine Chalier è una filosofa cresciuta alla scuola di Levinas e rotta alle astuzie dell’esistenzialismo parigino. Eppure ha fatto del suo meglio per costruire una laica, quasi postmoderna rete acchiappa-angeli. Qualcuno ha ancora le ali, come ai bei vecchi tempi, altri sono enigmatici e silenziosi, mentre c’è chi parla fin troppo. In ogni caso, gli inviati soprannaturali che si affollano nel libro della Chalier sanno bene di dover combattere innanzitutto la nostra incredulità di moderni. “Rileggere gli atti del processo intentato contro gli angeli in nome del disincantamento del mondo” non significa, per l’autrice, abdicare alla modernità, ma piuttosto interrogarsi sull’invisibile, chiedersi cioè se gli stati aurorali della coscienza, a cui gli angeli danno voce, possano ancora essere utili in una società secolarizzata. Secondo la Chalier, siamo vittime di un angelismo di bassa lega”, irretiti in sogni di ubiquità di immortalità tecnologica. Non sarebbe forse meglio fermarsi ad ascoltare serafini e cherubini, troni e dominazioni, tutte quelle creature diafane insomma che popolano da sempre le menti di profeti e mistici? Ma è pur vero che per parlare con loro bisogna prima scoprire dove sono. Per trovarli, si può sempre chiedere consiglio a qualche animale dalla vista lunga. Giulio Busi |
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