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La Stampa Rassegna Stampa
07.05.2009 Un altro tassello per capire le responsabilità avute nelle scelte filo-terroriste dei governi Craxi-Andreotti
La vicenda della signora Veggia, prigioniera sull'Achille Lauro, raccontata da Niccolò Zancan

Testata: La Stampa
Data: 07 maggio 2009
Pagina: 19
Autore: Niccolò Zancan
Titolo: «La prigioniera dimenticata dell'Achille Lauro»

La verità sul sequestro della Achille Lauro è ancora da scrivere. Sulla STAMPA del 6 maggio è uscito un articolo molto interessante di Niccolò Zancan dal titolo " La prigioniera dimenticata dell'Achille Lauro ", che riportiamo. Appartiene a pieno titolo al giornalismo investigativo, una categoria poco presente sui nostri media. Zancan ha ricostruito la storia di Rosina Veggia, che nel 1985 si trovava in vacanza sull'Achille Lauro. Interessante vedere, nella testimonianza della figlia, la parte avuta dal loro avvocato difensore, il senatore socialista Dino Felisetti, che avrebbe dovuto rappresentare la signora Veggia quale parte civile. Ma Felisetti, amico di Craxi, fece in modo di favorire la parte avversa, la difesa dei dirottatori, arrivando addirittura a negare di conoscere chi avrebbe dovuto difendere. Che Craxi, che con il suo comportamento ha impedito la cattura da parte del governo americano dei dirottatori, avesse avuto una parte di primo piano nel proteggere i terroristi palestinesi, responsabili oltre che del sequestro della nave, anche dell'assassinio di Leon Klinghoffer, è cosa nota. Sconosciuta, fino a ieri, era la parte giocata dalla "difesa" della signora Veggia. Un altro tassello nel mosaico, per capire le responsabilità avute nelle scelte filo-terroriste avute con i governi Craxi-Andreotti, le cui conseguenze si avvertono ancora oggi. Ecco l'articolo:

C’è una vittima dell’Achille Lauro rimasta esclusa dai conti della storia. Per ventiquattro anni è stata omessa da ogni ricostruzione del sequestro, non c’era fra le parti civili che si sono costituite al processo. Nell’ottobre del 1985 Rosina Veggia era una casalinga di Reggio Emilia con la faccia mite, gli occhiali spessi, aveva vinto la crociera partecipando a una lotteria. Oggi ha 70 anni, uno sguardo indecifrabile fisso nel vuoto. Quello che tiene nel cuore nessuno lo sa.
I fantasmi dell’Achille Lauro non l’hanno mai abbandonata. Rumori di catene, chiavistelli, baffi, divise, sputi, le gambe divaricate per raggiungere il bagno, passando fra le cariche esplosive piazzate dal commando di terroristi del Fronte per Liberazione della Palestina di Abu Abbas. La signora Veggia ha dovuto assistere all’assassinio a sangue freddo del passeggero statunitense Leo Klinghoffer, ebreo e paralitico. È rimasta legata vicina alle bombe per tre giorni e tre notti. Testimone oculare dei movimenti sulla nave, durante le trattative per i 545 ostaggi. La prima diagnosi dello psichiatra Ernesto Coppola, subito dopo la liberazione, ipotizzava «una sindrome di ipermnesia emozionale parossistica post-bellica». Continuava a rivivere il sequestro. Violenti flash-back. Non riusciva a scendere dalla nave.
Il calvario

Da allora non si è più ripresa. Sono stati ventiquattro anni di cliniche, terapie, psicofarmaci, case di cura in località segrete, avvocati e ricorsi. Ventiquattro anni di misteri, anche. Perché solo nel 2007 l’ospedale militare di Bologna le ha riconosciuto un’invalidità del cento per cento. Solo a partire dal settembre di quell’anno il ministero dell’Interno le ha garantito i benefici che spettano alle vittime del terrorismo (nel suo caso, 2 mila euro per ogni punto di invalidità e un vitalizio di 1033 euro al mese). E soltanto oggi la figlia Marika Ferretti, dopo lunghe e sofferte meditazioni, ha deciso di raccontare questa storia. La loro storia. Ma forse non soltanto la loro: che segreti custodisce la vittima dimenticata dell’Achille Lauro?
«Per anni siamo stati isolati nel silenzio e nella paura. Subito dopo il sequestro, mia madre mi ha rivelato particolari che non sono mai emersi. Io avevo 17 anni, molte cose non potevo valutarle nella maniera corretta. Temo che abbia visto qualcosa che non doveva vedere».
La signora Ferretti parla di fronte a una scrivania ingombra di carte e articoli di giornali. È stata lei a lottare per la madre, fino a riuscire a restituirla alla storia. Ha tenuto ogni riga scritta sul sequestro. Ha chiesto, indagato. Si è dovuta arrendere di fronte al Segreto di Stato che ha blindato il processo. Sono state le ultime due notizie sul caso a convincerla a rompere l’isolamento. Prima la misteriosa scomparsa di Abdellatifh Fatayer, il dirottatore più giovane del commando. Poi la liberazione - tre giorni fa - di Al Youseff Al Molqi, esecutore dell’omicidio di Klinghoffer: scarcerato per buona condotta.
«Vorrei incontrare le figlie di Klinghoffer - dice commossa Marika Ferretti -, dovremmo condividere la nostra tragedia. Forse insieme riusciremmo a fare riaprire il processo. Perché come loro, sono convinta che la verità sul sequestro sia ancora tutta da scrivere». Due elementi, in particolare, la rendono forte di questa convinzione. Il primo. «Era la notte del dirottamento. In Italia si sapeva ancora poco o nulla. Ci telefonò un giornalista del Vaticano. Disse: “La signora Veggia è sconvolta, sta molto male, non è trasportabile”. Il giorno della liberazione ce la fecero vedere per alcuni minuti in una saletta dell’aeroporto di Ciampino. Aveva il volto tumefatto, all’inizio non ci riconobbe neppure, sembrava persa». Ma poi i ricordi incominciarono ad affiorare, in modo anche molto violento. «Quello che mi disse mia madre - spiega Marika Ferretti - non mi sento di rivelarlo pubblicamente. Ma mi stupisce che nessuno se ne sia interessato per tutti questi anni». Il secondo elemento dubbio forse è lo snodo della storia. «Durante il processo ci affidammo all’avvocato più famoso di Reggio Emilia. Il senatore socialista Dino Felisetti, amico di Bettino Craxi, allora presidente del Consiglio. Volevamo essere rappresentati come parte civile. Ci garantì il suo impegno. Salvo scoprire, quando ormai era troppo tardi, che eravamo rimasti fuori. Successivamente negò persino di averci conosciuto. Per fortuna mia nonna aveva tenuto tutta la documentazione, eccola qui: l’ho depositata da un notaio, chiusa in una cassetta di sicurezza. Per tutti questi anni siamo rimasti invisibili allo Stato, anche se lo Stato sapeva benissimo di noi...».
Il silenzio che uccide
Hanno vissuto male. Fra sospetti, piaghe da decubito, sofferenze fisiche e psicologiche. Il marito della signora Ferretti dice: «La nostra è una croce viva, una specie di ergastolo». Hanno paura, cambiano ufficio ogni tre mesi. Hanno grate alle finestre, rose rampicanti sulle grate, non si fidano di nessuno. «Volevamo rimanere nell’ombra - dicono entrambi - ma questo silenzio ci sta uccidendo. Vogliamo capire quello che finora nessuno ha voluto spiegarci».
La vittima dimenticata dell’Achille Lauro ora sta un po’ meglio, anche grazie a nuove terapie. «È inserita nelle piccole attività quotidiane, protesta se il personale va troppo di fretta, canta le canzoni che riconosce e ripete alcuni episodi della sua vita», c’è scritto nell’ultimo referto medico. «Sapere che la mamma è ricoverata in una bella casa di cura è il mio unico motivo di felicità - dice Marika Ferretti -, ora la trattano da regina come si merita. Se chiede all’infermiera di cambiare un quadro perché le ricorda il sequestro, l’infermiera la ascolta. Sogno ancora che un giorno possa scendere finalmente anche lei dall’Achille Lauro».

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