Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 06/05/2009, a pag. 14, il reportage di Luigi Offeddu sull'immigrazione islamica nella città di Rotterdam dal titolo " Il sindaco islamico di Rotterdam e gli sfratti delle «ragazze in vetrina» " . Ricordiamo ai lettori che a Rotterdam, pochi giorni fa, il sindaco (islamico) ha stabilito che le donne dovessero sedere a teatro in posti appositamente per loro e separati da quelli degli uomini in nome della sharia. Ricordiamo anche il video in Home Page "Demografia musulmana". Ecco l'articolo:
ROTTERDAM — Da questo scalone di marmo, nel municipio, scendeva cent’anni fa Louis Botha: generale boero, primo capo del governo sudafricano fondato sull’apartheid, venuto in visita alla terra degli antenati. E da questo stesso scalone, oggi, fra i busti degli ammiragli che dominarono i mari coloniali, si affaccia il «nero» Ahmed Abulateb, nato e cresciuto nel Rif marocchino, musulmano praticante, figlio di un imam: eletto sindaco della città, 48 anni, l’Obama del Nord Europa. «Incredibile — ha commentato Geert Wilders, il vate dei populisti in testa a tutti i sondaggi — è come se un olandese divenisse sindaco della Mecca». Ma non è la Mecca, questa. È il primo porto del mondo, Rotterdam, città-laboratorio, 600mila abitanti al 46% immigrati da altri continenti. Ogni mese, 400 nuovi immigrati. E nel 2012, ha comunicato ieri il Comune, gli immigrati saranno più degli olandesi «nativi ». È «la diga sul fiume Rotte», questo significa il nome, che ha fatto saltare molte altre dighe culturali e sociali. Sempre un passo avanti a tutti: quando ad Amsterdam i «coffeeshop» degli spinelli e le ragazze in vetrina erano una rarità, qui erano già una tradizione; e quando a L’Aja non si vedeva una ragazza velata, qui (nel 1962!) era già aperta una moschea.
Ora le moschee sono 4. E Abulateb è solo la conferma finale. Botha è stato l’inizio. Lui, o Willem Schalk e i 342 che salparono sulla nave Dordrecht nel 1658, per il Capo di Buona Speranza. Se mai ci fu una società basata sulla razza, fu la loro. Il loro apartheid, il non «mescolarsi» ad altre etnie, fu una fede. Ribadita, secoli dopo, dalla genetica: gli scienziati hanno studiato 230 persone, non imparentate fra loro, residenti in Sudafrica e colpite dalla Corea di Huntington, una malattia genetica del sistema nervoso; ripercorsi gli alberi genealogici per 14 generazioni, si è visto che discendevano tutti da 5 famiglie vissute 400 anni fa in rigido apartheid, al Capo. Ma se queste sono le radici, come ha potuto nascere qui la capitale dell’integrazione? «Domanda mal posta — dice Henri, studente di Scienze sociali nell’università intitolata a Erasmo —. La rovesci: con un porto così, e con un impero coloniale, da Curaçao a Sumatra, che un giorno si è rovesciato tutto qui, come non avrebbe potuto succedere?».
E così eccola, la macedonia etnico-sociale. Prima regola: la polizia è dappertutto. Secondo: ciò che non è proibito, è consentito; ma se fai qualcosa di proibito, sono guai. Quasi ogni mese viene sfrattata una «ragazza in vetrina», o un coffee- shop: «Non colpiamo gli utenti, ma la criminalità », spiegano al comando della polizia.
Nei giardini, gli impiegati in pausa divorano cartocci di aringhe (piatto nazionale olandese) e bumbu-bumbu, spezie indonesiane; i ragazzi pattinano sull’onda dell’hindipop (versione asiatica dell’hip-hop). Passa in bici una ragazza velata, e intorno a lei una coppia su tre è mista. Bianchi, neri, tutti cittadini olandesi. Ma non automaticamente: in Olanda chi vuole la residenza permanente deve superare un corso di integrazione, lingua e cultura civica, che dura 3 anni. Se non vieni dalla Ue, devi pagare 270 euro: «E io l’ho fatto», dice orgoglioso Dong-Tai, venditore di frittelle cinesi, uno dei tanti.
Non sempre la macedonia etnica ha funzionato bene. Quando, anni fa, l’immigrazione musulmana giunse al culmine, proprio da Rotterdam si levò la voce di Pim Fortuyn, che nei musulmani indicava una minaccia mortale. Lo uccise un esaltato, e quella ferita non si è rimarginata. Però il laboratorio è ancora aperto.
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