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Il Foglio Rassegna Stampa
05.05.2009 Obama: forse riuscirà a guadagnare l’uscita dall'Iraq prima di doversene occupare sul serio
La risposta di Daniele Raineri all'articolo di Lorenzo Cremonesi

Testata: Il Foglio
Data: 05 maggio 2009
Pagina: 7
Autore: Daniele Raineri
Titolo: «Obama distratto in Iraq, Maliki ne approfitta ma riapre la porta ad al Qaida»

Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 05/05/2009, a pag. III, l'articolo di Daniele Raineri dal titolo " Obama distratto in Iraq, Maliki ne approfitta ma riapre la porta ad al Qaida ":

Roma. Ieri l’inviato del Corriere Lorenzo Cremonesi raccontava in un bel reportage la rinascita della capitale irachena Baghdad, condita con gli inevitabili stravizi da medio oriente emancipato, whiskey fuoristrada e lapdance, e, sempre ieri, è arrivata la notizia che il Papa potrebbe visitare il paese nella seconda metà di questo mese. Notizie ottime. Ma il quadro più generale sta cambiando e prende una brutta tinta. Il governo del premier sciita Nouri al Maliki sta demolendo il Grande patto modellato nel 2007 e nel 2008 dal generale americano Petraeus per riportare la pace: i sunniti si impegnano a snidare i terroristi di al Qaida che si nascondono tra loro e in cambio ottengono diritto di parola sul futuro del paese, che loro temono ormai essere saldamente nelle mani della maggioranza sciita. I governanti sciiti acconsentirono: all’epoca temevano per la loro stessa incolumità perché il paese era fuori controllo e gli attentatori suicidi arrivavano persino in Parlamento. Salvo che oggi, a situazione più controllabile, si stanno rimangiando tutto. La legge del gennaio 2008 che consente agli ex iscritti di basso-medio livello al partito Baath di Saddam Hussein – talvolta erano persino sciiti, e quasi sempre prendevano la tessera soltanto per accedere a posti di lavoro statali – non è stata ancora tradotta in realtà. I Consigli del Risveglio, i cui volontari sunniti hanno battuto al Qaida a fianco degli americani e avrebbero dovuto essere integrati nella polizia e nell’esercito, sono disoccupati. Dal 1 aprile i loro stipendi dipendono dal governo, ma ci sono già ritardi. Alcuni loro capi sono stati arrestati, scatenando anche combattimenti furiosi e localizzati. L’ultimo, Nadhim al Jubouri, due giorni fa con l’accusa di “terrorismo”. Il potere sciita non rispetta il patto e questo riapre le porte al nemico naturale, il terrorismo di al Qaida che, proprio grazie al suo fanatismo antisciita, aveva fatto presa sui sunniti (disillusi e disoccupati). I primi rintocchi suonano già. Venerdì scorso due marine e un marinaio americani sono stati uccisi “durante operazioni di combattimento” nella provincia sunnita al cento per cento di al Anbar. Notizie così non arrivavano da un anno perché al Anbar è – era – la prima della classe del paese. Fino al 2007 regno della guerriglia sunnita – Fallujah, Haditha, Ramadi, Abu Ghraib, ci sono tutti i nomi e i ricordi più terribili della guerra – poi centro della riscossa nazionale contro il terrorismo e simbolo del nuovo Iraq che si restituisce a sé stesso. Il giorno dopo i combattimenti mortali ad al Anbar, il primo maggio, altre due uccisioni a nord, a Mosul. Due militari iracheni sunniti che accompagnano gli americani in un normale giro di colloqui aspettano l’ora del tè, poi sparano a tradimento con i loro kalashnikov e scappano via in automobile. Il venti aprile altri soldati americani stanno arrivando all’inaugurazione di un edificio governativo a Baquba, a est, dall’altra parte del paese, ma un altro infiltrato sunnita, un attentatore suicida con indosso la divisa dell’esercito iracheno, si fa saltare in aria, uccidendo tre civili. Ad aprile una serie di attentati con tutti i segni del terrorismo di al Qaida ha colpito la capitale Baghdad: attacchi multipli, contro gli sciiti e contro bersagli “soft”, moschee e ristoranti senza protezioni e affollati da civili. Il presidente americano, Barack Obama, riconosce che c’è un aumento della violenza ma che “comunque il numero di vittime civili rimane molto basso rispetto all’anno scorso”. L’agenzia giornalistica americana McClutchy, che in Iraq tiene un meticoloso registro delle violenze, chiede: “Is Obama Wrong?”, il presidente si sbaglia? I dati lo smentiscono: l’anno scorso a Baghdad le vittime civili furono meno. Mancano meno di due mesi al 30 giugno, data fissata nell’accordo Sofa (Status of force agreement) fra Washington e Baghdad per far uscire i soldati americani dalle città irachene e passare a un ruolo più defilato, soltanto d’appoggio, nella lotta contro gli estremisti. Meno di due mesi, e alla Casa Bianca la tentazione di rubricare ogni cattiva notizia sotto la voce “problemi loro” è fortissima. L’Amministrazione Obama, già pressata dalla crisi economica e appagata dalla complessità delle relazioni diplomatiche con Iran, Pakistan e Cuba, ha scelto a Baghdad una strategia del disengagement furtivo: le cose vanno sempre peggio, ma forse riusciremo a guadagnare l’uscita prima di essere costretti a occuparcene sul serio. Non stanno facendo pressioni su Maliki – per due mesi non hanno nemmeno mandato un ambasciatore – non stanno esercitando alcun tipo di persuasione. Si limitano ad aspettare le scadenze del piano di ritiro. E a sperare che non ci sia davvero bisogno di studiare un nuovo piano.

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