Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 01/05/2009, in prima pagina, l'analisi di Carlo Panella dal titolo " Una stretta di mano a Mogadiscio (nel 1992) dice tutto sulla crisi di oggi "
New York. Il paradosso di un Golfo di Aden in mano alla pirateria, dopo soltanto una quindicina d’anni dalla missione militare delle Nazioni Unite “Restore Hope”, è ben spiegato in una “photo opportunity” dell’11 dicembre 1992, con cui Robert Oakley, l’inviato speciale dell’Amministrazione americana, celebrò due giorni dopo lo sbarco a Mogadiscio di milleottocento marine la stipula di un accordo con i due signori della guerra, Mohamed Aidid e il suo rivale Ali Mahdi Mohamed. In quella stretta di mano possiamo oggi leggere tutte le cause e le ragioni dei fallimenti delle Nazioni Unite, e soprattutto degli Stati Uniti, in Somalia, così come in tutta l’area di crisi che arriva sino al Pakistan. Aidid infatti – avvisarono inutilmente gli italiani – faceva parte del problema e non certo della soluzione della crisi somala: era un macellaio che usò l’incredibile fiducia di Oakley per meglio impiantarsi nella capitale e poi iniziò a sparare sui militari delle Nazioni Unite e ripagò infine Washington massacrando 19 Delta Force che tentavano di catturarlo, nell’episodio noto come “Black Hawk Down” che determinò la ritirata degli Stati Uniti di Bill Clinton e dell’Onu dalla Somalia. Nelle ragioni per cui Oakley firmò con Aidid quell’accordo, nelle coordinate della Cia per inquadrare il dossier somalo, nei criteri di analisi di Washington a fronte di uno scenario islamico leggiamo oggi i “fondamentali” di una dottrina americana che sempre porta al disastro e che poi si replicherà in varie forme – vedi l’acquiescenza verso i talebani in Afghanistan sino all’11 settembre del 2001, o la dissoluzione dell’esercito di Saddam Hussein appena deposto in Iraq, o l’irresponsabile appoggio a Pervez Musharraf in Pakistan – e che ancora si replica nei confronti dei regimi yemenita e saudita. Questa logica rifiuta di vedere quel che pure è palese: il legame biunivoco tra fondamentalismo islamico e terrorismo o jihadismo, attentatori suicidi inclusi. Rifiuta di prendere atto che nei paesi islamici fa sempre più presa una concezione violenta della società (a partire dalla riduzione a semischiavitù della donna) che si proietta in aggressività militare violenta verso l’esterno e l’occidente. Questa logica porta al disastro, perché spinge a trattare apocalittici attentatori suicidi come se fossero invece nazionalisti irredentisti. Dal 1995 è noto che la Somalia è regno incontrastato di Osama bin Laden e dei signori della guerra, ma le Nazioni Unite e gli Stati Uniti hanno fatto di tutto – incluso il via libera a un’invasione da parte dell’Etiopia, poi fallita – tranne che quel che andava fatto. Il risultato è stato la consegna della Somalia alle Corti islamiche alleate di al Qaida e la trasformazione dei signori della guerra in corsari dei barchini, che non sono contrastabili in mare, ma che possono essere spazzati via soltanto con la ripresa del controllo di Mogadiscio, ipotesi che – ora che c’è la nuova Amministrazione di Barack Obama così propensa al dialogo e alla mano tesa – non è ipotizzabile neppure in via teorica. Il dramma è che questo errore di dottrina produce effetti in una regione strategica in cui i regimi – tutti dittatoriali – stanno sempre più cedendo al fondamentalismo. Così è nello Yemen di Abdullah Saleh, culla e santuario di al Qaida, così in Arabia Saudita in cui la nomina a erede al trono del principe Najif (il filoamericano Sultan, sinora erede designato, sta morendo) segna la fine di ogni promessa di riforme del re Abdullah e il trionfo futuro dei fondamentalisti, con ripercussioni devastanti in tutto il mondo islamico. Da sempre Najif, ministro dell’Interno dal 1975, rappresenta alla corte saudita la componente più rigida, fondamentalista e tradizionalista del regno, sostenitore della più rigida dogmatica salafitawahabita e di conseguenza protettore e finanziatore sia dei Fratelli musulmani sia dei movimenti terroristi islamici, a partire da Hamas. Allo stesso modo è nell’altro golfo cruciale per l’area, il Golfo persico, che il presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad mette a profitto i lunghi mesi di tregua regalati da Obama – prototipo del fraintendimento sull’islam fondamentalista – per impiantare un devastante “Hezbollah del Golfo” e addirittura per dichiarare con impudenza la sua prossima mossa: la destabilizzazione – e forse l’annessione – del Bahrein.
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