Riportiamo da REPUBBLICA di oggi, 30/04/2009, a pag. 46, l'intervista di Marco Ansaldo ad Amos Oz dal titolo " Amos Oz: 'le mie due penne per raccontare israele' "
Sorride Amos Oz. «Diventare un libro? No, ora non lo voglio più». È seduto al caffè Marilyn Monroe, nella zona alta di dove va a trovare figlia e nipoti, lasciando la sua prediletta città nel deserto, Arad. «Era il mio desiderio di bambino: avevo 6 anni, ed ero così sovrastato dalla cultura di mio padre e dei suoi amici intellettuali, vittima di un sistematico lavaggio del cervello, che la mia unica speranza, il mio rifugio, era di diventare un libro. Non uno scrittore, ma proprio un libro. Cioè di trasformarmi in un oggetto da preservare, da mettere sugli scaffali. Non ci sono riuscito, ma oggi sono contento di fare lo scrittore». Sogna, un giorno, di mollare tutto, «di salire su una macchina rossa e di partire per un lungo viaggio con mia moglie». Ma oggi quel grande saggista e romanziere è ancora qui con noi a parlare di Israele e Palestina, della guerra e delle donne. E ancora per molto lo farà, visto che a Repubblica anticipa di voler affrontare, «magari non subito», la continuazione di quella che è considerata sua autobiografia, Una storia di amore e di tenebra. «Perché in realtà - spiega sorseggiando un cappuccino dopo essersi alzato alle 5, aver fatto come sempre una passeggiata nel deserto, e poi scritto prima una pagina di un saggio con la sua penna blu, e poi una di un romanzo con l´altra di colore nero ("uso un colore per quando sono arrabbiato con il governo e un altro per le mie storie" ha detto al Nyt) - quello era un libro sulla mia famiglia. Più precisamente, sui miei genitori. Io ero un personaggio di contorno. Scriverò un romanzo su quel che avvenne dopo».
Amos Oz il 4 maggio compie 70 anni. Arad prepara tre giorni di convegni e di festa alla presenza di amici, colleghi e del capo dello Stato, Shimon Peres. Poi toccherà all´Università Ben Gurion, a Beersheba, dove Oz insegna letteratura. «Credo - aggiunge abbassando la voce - che mi stiano preparando delle sorprese. Continuo a lavorare al mio nuovo libro. Posso solo dire che si svolge più o meno in Israele, ma riguarda una situazione umana, più che israeliana vera e propria. Preferisco però non parlare del mio parto. Ma penso sempre, in futuro, a una sorta di opera definitiva, qualcosa che sia insomma "il libro". Potrebbe essere la continuazione di Una storia di amore».
I libri, in fondo, non erano il suo destino?
«Io ho sempre avuto, fin da bambino, dai 5 anni in avanti, il desiderio di scambiare storie con gli altri. Siccome non ero alto, pensavo di poter impressionare le bambine raccontando loro delle storie. Così, al tempo stesso, ricevevo storie. Ero insomma impegnato in un continuo business di dare e avere che mi ha portato poi a fare questo, di mestiere».
Un mestiere da svolgere con una forte tensione morale.
«Assolutamente. La prospettiva morale, e quindi politica, è molto importante. Lo vediamo qui, con Israele e Palestina. Io sono sempre stato per la soluzione di due Stati per due popoli: ci troviamo di fronte a due diritti. A volte, magari, anche a due posizioni sbagliate. In questo piccolo Paese, abitato prima dai palestinesi, e poi, altrettanto giustamente, dagli israeliani, queste due entità oggi devono vivere assieme».
Nel suo Contro il fanatismo lei sostiene la necessità del Muro di separazione. Costruirlo è servito?
«Sì, ma lo hanno tirato su nel posto sbagliato! Non puoi edificare nel giardino del vicino. Se lo fai, lui si arrabbia e ti dichiara guerra. Andava tirato su lungo i confini del 1967, precedenti la guerra dei Sei Giorni».
L´elezione di Barack Obama le suscita speranze?
«Sì, ma ha creato delle aspettative messianiche. Ovviamente, sono contento che sia diventato Presidente e, se fossi stato americano, l´avrei votato anch´io. Credo però che non si siano accorti di aver eletto un intellettuale».
Non va bene?
«Sì, sì, va bene lo stesso. Servirà anche questo».
Un suo libro ancora molto amato e letto è Conoscere una donna. Su questo tema è giunto a qualche conclusione?
«Mio nonno Alexander un giorno mi prese da parte e mi disse: "Dobbiamo seriamente parlare delle donne. La donna, beh, in un certo senso, è proprio come noi. Ma, per altri versi, è completamente diversa. A questo - mi disse lui, che aveva 93 anni - sto ancora lavorando". Ecco, per ora posso dire di essere arrivato alle stesse conclusioni: ci sto ancora lavorando».
Dicevamo che Israele è un Paese piccolo. Ma con un´alta concentrazione di grandi scrittori. Perché questa specificità?
«Dovremmo chiederci perché Paesi piccoli come Olanda e Belgio hanno prodotto in un determinato periodo storico tanti pittori di fama mondiale. Sono domande legittime. Posso rispondere per Israele. Perché questo posto, dopo la guerra, è stato mèta di uomini e donne di 136 Paesi diversi, creando così una concentrazione di diversità e intelligenze tali da formare un humus collettivo unico. E la situazione di tensione, di confronto, di guerra, ha fatto poi sì che questo sforzo si trasferisse a livello estremo sul piano culturale».
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