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Corriere della Sera Rassegna Stampa
29.04.2009 Romano finge di non sapere perchè i profughi palestinesi sono tali
E nega che Israele sia lo Stato ebraico

Testata: Corriere della Sera
Data: 29 aprile 2009
Pagina: 33
Autore: Sergio Romano
Titolo: «Palestina: due Stati separati o uno Stato per due popoli»

Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 29/04/2009, a pag. 33, la risposta di Sergio Romano ad un lettore che lo interpella sulle possibilità di soluzione del conflitto israelo-palestinese. Ecco la lettera e la risposta precedute dal nostro commento:

Romano scrive : " Discutere con Mah­mud Abbas, presidente del­l’Autorità palestinese, non ha molto senso perché è un leader debole. Hamas è mol­to più rappresentativo, ma non intende riconoscere lo Stato ebraico.". In verità anche Abu Mazen ha recentemente dichiarato di non riconoscere Israele come Stato ebraico.
Poi Romano scrive : "
Ben­ny Morris ritiene che l’unico sbocco politico della crisi po­trebbe essere la creazione di uno Stato giordano-palesti­nese. Il regno di Giordania si allargherebbe sino a com­prendere la Cisgiordania e la striscia di Gaza, avrebbe uno sbocco sul mare, potrebbe ac­cogliere almeno una parte dei rifugiati palestinesi fuggi­ti nel 1948 e nel 1967.(...) Non credo che il regno di Giordania sia disposto a rimettere in di­scussione i propri equilibri interni cercando di assorbire almeno 4 milioni di palesti­nesi". La Giordania, insomma, non sarebbe disposta ad accogliere quattro milioni di palestinesi.
Romano non racconta dell'origine del problema dei profughi palestinesi e non mette in rilievo il fatto che essi sono diventati tali per volere dei Paesi arabi che, quando è nato Israele, hanno spinto la popolazione araba locale a scappare, assicurando il rientro dopo la sconfitta e il previsto massacro degli ebrei. Molti dei palestinesi fuggirono sperando di ricevere asilo dal Paesi arabi che li avevano spinti ad andarsene, ma questo non è successo. L'atteggiamento dei Paesi arabi nei confronti dei loro " fratelli palestinesi " è quello di compiangerli per la loro situazione (fomentando l'odio per Israele) senza aiutarli in nessun modo. Anche Hamas, che sostiene di rappresentare i palestinesi e di farne gli interessi, dopo l'Operazione Piombo Fuso, ha intercettato molti degli aiuti che erano destinati alla popolazione e li ha venduti invece di distribuirli gratuitamente.
Romano, poi, non si lascia scappare l'occasione di riproporre distorsioni storiche e luoghi comuni antisraeliani. Sostiene che i governi israeliani abbiano perseguito una politica di espansione territoriale, mirando alla costituzione di un "grande Israele". In realtà, la stessa conquista di Cisgiordania e Gaza è avvenuta in seguito a una guerra difensiva, Israele è sempre stato disponibile alla trattativa e ha ceduto territori sia quando ha trovato un partner negoziale (il Sinai all'Egitto) sia quando non l'ha trovato (Gaza). Per l'ex ambasciatore, inoltre, Israele è uno "Stato identitario", il "contrario di quel che dovrebbe essere lo stato moderno". L'idea di un'eccezionalità di Israele è però completamente falsa: l'Europa stessa è una comunità di stati nazionali, o "identitari" che dir si voglia. Uno stato moderno non deve essere necessariamente multinazionale, piuttosto, deve assicurare l'eguaglianza di diritti alle minoranze. Cosa che Israele fa.
Uno Stato unico nel quale gli ebrei fossero in minoranza, invece, sarebbe uno stato arabo-islamico, probabilmente dominato dai fondamentalisti, dal quale le minoranze non avrebbero  da aspettarsi nulla di buono.
Ecco lettera e risposta:

Anni fa la prima pagina del Corriere riportava l’articolo di un notissimo scrittore israeliano, di cui ora purtroppo mi sfugge il nome; egli asseriva che non vi sarà mai pace fino a quando ci si ostinerà a portare avanti trattative per giungere a un accordo basato su «due Stati per due popoli». È passato tanto tempo, ma sono sempre più convinto che avesse ragione, proponendo l’unica vera soluzione possibile: la convivenza di entrambi su un solo territorio. Certo è ora difficile stravolgere la storia degli ultimi 50 anni, compreso il sicuro no di Israele a questa prospettiva, ma ritengo che sia ancora più utopistico pensare alla fine del conflitto nei termini attuali.

Luigi Cereda



Caro Cereda,


L’
idea di un grande Stato arabo-ebraico, dal Giordano al Me­diterraneo, piacque a Theo­dor Herzl, fondatore del mo­vimento sionista, al filosofo Martin Buber e ad altri espo­nenti dell’ebraismo nel seco­lo scorso. Scomparve dal no­vero delle soluzioni possibili quando questa terra contesa divenne teatro di due strate­gie diametralmente opposte: quella dell’Olp di Yasser Ara­fat, decisa a cacciare gli ebrei dalla regione, e quella del go­verno israeliano, mosso dal­la speranza di creare un «Grande Israele» dal Giorda­no al mare. La situazione sembrò migliorare negli an­ni Novanta, quando ambe­due i contendenti parvero ac­cettare la prospettiva di due Stati destinatati a convivere pacificamente l’uno accanto all’altro. Ma non è sorpren­dente che oggi, dopo le crisi e le guerre degli scorsi anni, qualcuno abbia riproposto la soluzione dello Stato unico. Ne hanno discusso a lungo due studiosi britannici, Tony Judt e Virginia Tilley. Ne han­no parlato più recentemente alcuni esponenti del mondo accademico israeliano e pale­stinese. Il loro modello è il Sud Africa dove bianchi e ne­ri, dopo la fine dell’apar­theid, hanno lavorato per cre­are le condizioni della loro convivenza. Ma un libro dello storico israeliano Benny Morris, ap­parso anche in italiano pres­so Rizzoli («Due popoli, una terra») sostiene che i vecchi contrasti, l’odio, le diverse mentalità culturali e civili, il diverso tasso di accrescimen­to demografico degli ebrei e degli arabi, rendono questa prospettiva impossibile. An­che la divisione della Palesti­na in due Stati, tuttavia, sa­rebbe secondo Morris altret­tanto impossibile. Le difficol­tà sono molte: il fatto com­piuto degli insediamenti ebraici nei territori occupati, la geografia economica della regione e, sempre secondo Morris, l’assoluta indisponi­bilità della grande maggio­ranza degli arabi ad accettare l’esistenza di uno Stato ebrai­co nella loro regione.
Vi è nel suo libro, quindi, un cupo pessimismo. Conti­nuare a perseguire la creazio­ne di due Stati, come gli ame­ricani da Clinton a Obama, è
inutile. Discutere con Mah­mud Abbas, presidente del­l’Autorità palestinese, non ha molto senso perché è un leader debole. Hamas è mol­to più rappresentativo, ma non intende riconoscere lo Stato ebraico. Non esiste quindi alcuna soluzione ra­gionevole del conflitto? Ben­ny Morris ritiene che l’unico sbocco politico della crisi po­trebbe essere la creazione di uno Stato giordano-palesti­nese. Il regno di Giordania si allargherebbe sino a com­prendere la Cisgiordania e la striscia di Gaza, avrebbe uno sbocco sul mare, potrebbe ac­cogliere almeno una parte dei rifugiati palestinesi fuggi­ti nel 1948 e nel 1967.

Ciò che più mi piace nel li­bro di Morris è il realismo con cui ha smantellato alcu­ni luoghi comuni della retori­ca e dell’ottimismo ufficiali. Ma occorre essere altrettan­to realisti nel valutare la sua ipotesi di uno Stato giorda­no- palestinese. Non credo che il regno di Giordania sia disposto a rimettere in di­scussione i propri equilibri interni cercando di assorbire almeno 4 milioni di palesti­nesi,
e forse molti di più se fosse costretto ad accettare anche i profughi provenienti da altri Paesi arabi. Come ve­de, caro Cereda, sono addirit­tura più pessimista di Benny Morris. E sono tale anche per­ché temo che la crisi palesti­nese nasconda una realtà an­cora più grave: la crisi dello Stato israeliano, minacciato da alcune contraddizioni. È uno Stato identitario, cioè esattamente il contrario di ciò che dovrebbe essere lo Stato moderno. Ma ha all’in­terno delle sue frontiere più di un milione di arabi e ha permesso che più di quattro­centomila ebrei andassero a vivere in mezzo a tre milioni di palestinesi. Il problema, in ultima analisi, è demografi­co. Israele è in crisi perché la curva della natalità araba vo­la molto più alta di quella de­gli ebrei e perché la diaspora ha smesso di rispondere ai suoi appelli. Non può essere uno Stato degli ebrei se non è omogeneo. E non potrà mai esserlo se 5 milioni di ebrei desiderano continuare a vivere negli Stati Uniti e persino 130.000 ebrei preferi­scono la Germania a Israele.

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