Una pace perfetta Amos Oz
Traduzione di Elena Loewenthal
Feltrinelli Euro 17,50
Forse la pioggia se la sono portata con loro. Dalla Russia, dalle pianure dell’Ucraina, dalla tragedia che li ha cacciati di là. O forse tutta quell’acqua viene da una favola presa troppo sul serio. Da una di quelle leggende africane che Rimona copia con la sua scrittura ordinata: “Quando viene una notte di luna, i kikuyu in Kenia riempiono secchi e bacinelle per trattenere la luna nell’acqua e averla in serbo per le notti più nere, e poi con quell’acqua curano i malati”. Ma adesso, tra i monti di Galilea, di acqua ce n’è in abbondanza. E anche di malati, che però, per curarsi, vorrebbero piuttosto un po’ di tepore. C’è chi è malato di vecchiaia, chi di disillusione, chi come Yonatan ha l’anima fradicia di solitudine. Una pace perfetta di Amos Oz è stato pubblicato in ebraico nel 1982, e già allora aveva i toni di un tuffo nel passato. Perché in Israele cambiava tutto così in fretta, che anche il 1966 appariva come un’epoca remota. Era un inverno infilato tra due guerre, col kibbutz che sembrava ancora un’utopia possibile, e poi le sigarette esibite per darsi un tono e il desiderio di andarsene alla scoperta del gran mondo. Quello di Yonatan è un esistenzialismo girato in bianco e nero. Il suo smarrimento ritaglia il sogno israeliano in grevi scene di desolazione quotidiana. E dire che in guerra si è comportato come un eroe, “con sprezzo della propria vita”, come hanno scritto i giornali, e non ci sarebbe motivo per essere disgustati da quella comune sionista, in cui tutti s’aiutano l’un l’altro, o almeno vorrebbero farlo. Ma c’è quel “cielo basso che scende tra le case, sporcando tutto con chiazze di lana grigia e densa”, e il peggio viene di notte, quando dal villaggio che gli arabi hanno abbandonato nel 1948 sembrano levarsi risate cattive. Un giorno dopo l’altro Yonatan trova una scusa per non partire finchè una specie di elfo dalle dita affusolate non fa irruzione nel kibbutz. Azariah è forse l’invenzione più riuscita del libro. Logorroico, narcisista, con un disperato bisogno di piacere e un orecchio finissimo, capace di catturare anche il suono dell’anima. Nessuno lo può sopportare, ma tutti se ne invaghiscono e si sciolgono alla sua apparente ingenuità, non solo le donne, anche i ruvidi pionieri, tra cui il “malmostoso Yonatan”. Oz è molto bravo a far tralucere attraverso gli eccessi verbali e psicologici di Azariah il trauma giovanile che lo tormenta: gli anni della guerra e della Shoah, la fuga tra i boschi dell’Europa orientale e una paura inesorabile, che lo perseguita come un fantasma. Altre parti del libro sono meno convincenti, come le tirate sulla politica israeliana degli anni Sessanta e sul tramonto del sionismo socialista. “C’era una volta il kibbutz”, potrebbe intitolarsi un lungo capitolo, e rileggere queste pagine oggi, con il disincanto di un Israele sopravvissuto a fatica alle proprie illusioni, fa un po’ tristezza. I protagonisti della storia, però, ci sono dentro fino al collo, e rimangono irretiti da un intrico di legami amoroso-cerebrale. C’è il triangolo sentimentale, quasi d’obbligo in quegli anni, e la rivalità tra amici, largamente machista. Meglio giocare a scacchi o azzuffarsi per una donna? Oggi sarebbe un quesito politically incorrect. Ma forse il bello di essere rimasti agli anni Sessanta è quello di potersi permettere, almeno per lo spazio di un racconto, la nostalgia per le scelte sbagliate. E non solo in una Galilea orrendamente piovosa.
Giulio Busi
Il Sole 24 Ore