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La Stampa Rassegna Stampa
25.04.2009 Un bilancio dei primi 100 giorni di amministrazione Obama
l'analisi di Maurizio Molinari e un'intervista a Charles Kupchan

Testata: La Stampa
Data: 25 aprile 2009
Pagina: 1
Autore: Maurizio Molinari - Charlese Kupchan
Titolo: «I veri nemici sono in casa - Pensa solo allo share. Così tradisce gli Usa - Un pragmatico vero. Disinnescherà l'Iran»

Riportiamo dalla prima pagina e da pagina de de La STAMPA di oggi, 25/04/2009 l'analisi di Maurizio Molinari dal titolo " I veri nemici sono in casa ", e l'intervista  a Charles Kupchan intitolata   " Un pragmatico vero. Disinnescherà l'Iran ", sui primi 100 giorni dell'amministrazione Obama.

Ecco gli articoli:

" I veri nemici sono in casa "

Senza giacca nello Studio Ovale, in raccoglimento di fronte al ritratto di John F. Kennedy nella West Wing, circondato da uno staff che lavora online e seguito ovunque dal teleprompter che lo aiuta a leggere i discorsi, Barack H. Obama nei primi cento giorni di governo ha incarnato lo stile di un presidente quarantenne, lavorando su due priorità.
Affidare la ripresa alla realizzazione di un modello economico incentrato sul sostegno alla classe media e rilanciare la leadership Usa nel mondo contando sulla capacità di dialogare con gli avversari.
Eletto da una nazione atterrita dall’incubo della povertà, Obama ha mobilitato le finanze pubbliche per sostenere la crescita nel breve periodo ma ciò che per lui conta di più è l’obiettivo di medio termine: la creazione di un nuovo modello di crescita che aiuti le famiglie della classe media a spendere meno e vivere meglio. Basta scorrere la lista delle iniziative prese per rendersene conto: più sanità pubblica per ridurre le spese per anziani e bambini, più borse di studio per spingere verso il college i figli dei poveri, alta velocità per abbattere le mura geografiche che isolano i centri meno sviluppati, rete a banda larga per dare pari opportunità online a ogni cittadino, fonti rinnovabili per abbattere le bollette energetiche, interessi più bassi per le carte di credito. Ordini esecutivi, leggi al Congresso e decreti puntano a trasformare il ceto medio flagellato dalla recessione nel pilastro di una nuova stagione di crescita. Il regista è Larry Summers, il ministro del benessere clintoniano, mentre il titolare del Tesoro Tim Geithner ha confezionato un piano di rimedi alla crisi finanziaria che ancora non convincono Wall Street, esponendo il presidente alle accuse di «statalismo» rivoltegli dai repubblicani come a quelle di «aver adottato false soluzioni» giuntegli da liberal come Paul Krugman e Joseph Stiglitz. Se il piano di lungo termine per la classe media spiega l’ottimismo della maggioranza degli americani sulla direzione in cui va la nazione, le perduranti incertezze economiche sono all’origine delle lunghe file di disoccupati alle «job fairs» di città in città.
Il risultato è che il presidente consolida un personale rapporto con la base attraverso meeting via Internet, messaggi su Youtube e mail ai fan di «Organizing for America» mentre al Congresso ha difficoltà a trovare i voti per far passare il bilancio federale. La base elettorale è ancora con lui e crede nei cambiamenti che promette mentre i problemi sono nelle battaglie politiche quotidiane con l’opposizione repubblicana sulle barricate e i democratici spaccati sul «tassa e spendi».
Anche sul fronte della politica internazionale Obama appare in mezzo al guado. I primi cento giorni sono serviti per presentare, da Londra a Strasburgo, da Praga e Trinidad, un’idea di leadership americana nel mondo che si riassume nella «responsabilità di aiutare la comunità internazionale a trovare le risposte migliori ai problemi più urgenti», dalla salute del Pianeta alla lotta al terrorismo, dalla recessione alla proliferazione nucleare. È un approccio pragmatico, basato sulla necessità delle alleanze e sul dialogo con gli avversari, che ha portato Obama a promuovere «mutuo rispetto» con l’Islam, stringere la mano al venezuelano Hugo Chavez, scambiarsi messaggi con l’iraniano Mahmud Ahmadinejad e far accogliere i suoi inviati dal siriano Bashar Assad, ma tale slancio finora ha dato scarsi risultati: l’Europa è contro lo stimolo globale per l’economia, la Nato non manda più soldati in Afghanistan, la Nord Corea ha testato un nuovo missile intercontinentale, l’Iran ha inaugurato la prima centrale nucleare e il Pakistan appare in balia dei gruppi jihadisti. La differenza fra propositi è risultati è tale che Karl Rove, ex guru elettorale di Bush oggi polemista conservatore, infierisce dalle colonne del «Wall Street Journal» accusando Obama di «farsi largo nel mondo parlando male della propria nazione» con effetti disastrosi.
Ma ciò che più minaccia Obama è il rischio di una guerra intestina a Washington: lo scontento degli agenti della Cia per la divulgazione dei memo sulle «tecniche rafforzate» degli interrogatori durante gli anni di Bush e gli attacchi al vetriolo lanciati da Dick Cheney su sicurezza ed economia preannunciano una resa dei conti dentro l’establishment che potrebbe essere innescato dalle commissioni di inchiesta del Congresso invocate dai leader democratici.

" Un pragmatico vero. Disinnescherà l'Iran "

DA NEW YORK
«Barack Obama afferma una nuova versione della leadership americana nel mondo, adattandola alla realtà del XXI secolo». Charles Kupchan, titolare degli Studi europei al «Council on Foreign Relations» legge i primi cento giorni di presidenza nel segno delle «notevoli novità avvenute».
Qual è l’idea di leadership americana che Obama afferma?
«E’ basata sul fatto che nel XXI secolo i protagonisti della scena internazionale sono molteplici. L’America deve muoversi su questo terreno per identificare i problemi, capire come possano essere risolti e dunque con chi lavorare per risolverli. Si tratta di un cambiamento drammatico rispetto a Bush, la cui attenzione era per i cambiamenti di regime. Bush era ideologico, Obama è pragmatico, si prepara a lavorare con Paesi come Russia, Cina e Arabia Saudita per risolvere i problemi in agenda».
Ma non è rischioso tendere la mano ai leader autoritari?
«Se i primi cento giorni hanno messo in luce le innovazioni di Obama ora la prova più difficile sarà vedere se funzioneranno. Se riuscirà a riportare la Russia a recitare un ruolo di equilibrio e stabilizzazione, se riuscirà a disinnescare la crisi nucleare con l’Iran».
Qual è l’appoccio all’Europa?
«Chi parlava di un G2 sinoamericano destinato a offuscare l’Ue è stato smentito. Il primo viaggio di Obama è stato in Europa ed ha sottolineato il ruolo chiave che assegna alla Nato. La partnership fra America e Europa resta prioritaria».
Sul fronte economico che cosa è avvenuto?
«Obama non vuole modificare il sistema economico americano ma sanare le lacune di quello finanziario ricorrendo all’intervento dello Stato. Non siamo all’origine di uno stravolgimento del capitalismo, assistiamo alla sua correzione».
Quale impatto hanno avuto questi cento giorni sui rapporti interrazziali?
«Sul piano della vita quotidiana non vi sono stati grandi cambiamenti e anzi la situazione è peggiorata a causa della crisi economica. L’elezione del primo presidente afroamericano ha avuto però un forte valore simbolico facendo venire alla ribalta una nuova America, più giovane, interrazziale e multietnica. Se consideriamo solo gli americani sotto i 20 anni, le minoranze sono già maggioranza. Entro una generazione questo varrà per l’intera nazione».
Quali sono i maggiori rischi per il presidente?
«Obama nelle primarie ha sconfitto Hillary cavalcando la rivolta della base degli elettori democratici e nel viaggio in Europa ha avuto successo nel parlare direttamente alla gente più che ai leader. La forza di Obama è nell’essere un politico che fa insorgere le masse ma quando si governa la difficoltà sta nel realizzare le proprie politiche. Per riuscirci ha bisogno di una coalizione di governo della quale finora non dispone perché al Congresso i repubblicani sono su posizioni di estrema destra mentre i democratici sono divisi fra centristi e liberal. Obama vuole governare al centro ma dovrà trovare i numeri per riuscire a farlo altrimenti non avrà quei due terzi di voti del Senato che servono per ratificare qualsiasi trattato internazionale, dal clima alla non proliferazione».

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