Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 22/04/2009, a pag. 1-36, l'articolo di Bernard-Henri Lévy dal titolo " I morti della Shoah senza tomba ".
Non bisogna lasciare, dicono alcuni, che i morti seppelliscano i morti e che l’oblio, il buon oblìo, cicatrizzi le ferite del passato? Sì certo, bisognerebbe. Del resto, nulla è più conforme ai comandamenti della Torah dell’ingiunzione evangelica di seppellire subito, una volta per tutte, i morti. Salvo quando sono morti che, appunto, non sono sotterrati. Quando sono morti la cui morte stessa implicava che fosse senza tomba. Quando sono morti di cui era previsto che non lasciassero traccia in alcun luogo. Allora sì, spetta ai vivi essere le tombe viventi di quei morti. Allora sì, in via eccezionale, è dovere dei sopravvissuti portare in sé il ricordo dei padri che, per sempre, avranno l’età dei propri figli. Noi siamo le tombe dei nostri padri... I morti, i poveri morti, hanno grandi dolori... Sono parole di Baudelaire. È il caso della Shoah.
La Shoah, dicono ancora alcuni, fu un grande crimine. Ma cosa vi fa dire che sia più grande di altri? E perché, nel susseguirsi di crimini che è la storia degli uomini, darle un posto d’eccezione? Non si tratta di questo, naturalmente. E nulla è più estraneo alla tradizione ebraica dell’idea di stabilire, fra i morti, una qualsiasi gerarchia. Salvo che, allora, si verificò un evento senza precedenti. Un progetto di messa a morte che non solo implicava l’assenza di tracce, ma l’impossibilità per le vittime di trovare un luogo, uno solo, dove sottrarsi ai loro carnefici. Le vittime di altri genocidi potevano, in teoria, a condizione di trovare asilo in un Paese vicino, sfuggire agli assassini. Per gli ebrei, nessuna via d’uscita.
L’Europa intera e presto, in teoria, tutto il mondo, divennero un’immensa trappola. Lo sterminio — è questa la sua singolarità — non doveva avere sopravvissuti e non lasciava via di scampo.
La nozione di sterminio senza sopravvissuti è importante per un’altra ragione, concreta: questa ragione è Israele. Infatti, di nuovo, si sente dire: «Sì, d’accordo, un crimine; sì, a rigore, un crimine singolare; ma perché aver installato i superstiti della tragedia nell’unica parte del mondo che non partecipò al crimine e che è il mondo arabo?». Di nuovo, la risposta: è il mondo stesso che divenne trappola; non ci fu una sola parte del mondo in cui non soffiò il vento infausto di questa morte; e il mondo arabo non fu da meno nel progetto di sterminio senza sopravvissuti. Oggi, abbiamo tutte le informazioni sulla questione. Abbiamo le Memorie del Gran Muftì— hitleriano — di Gerusalemme.
Abbiamo i lavori degli storici che raccontano come la legione Ss araba aspettasse, dietro l’esercito di Rommel, il momento di attaccare e sterminare gli ebrei già insediati in Palestina. Sappiamo, in altre parole, che il nazismo fu un’ideologia mondiale che conobbe versioni nazionali e, in particolare, una versione araba. Commemorare la Shoah serve anche a ricordare questo.
Per la commemorazione della Shoah, si sarebbe potuto scegliere il giorno dell’apertura dei campi di sterminio. O quello della Conferenza di Wannsee. O qualsiasi altro giorno che testimoni il martirio degli ebrei. Invece no. È stato scelto il 27 «nisan» del calendario ebraico: quest’anno, il 20 aprile e dunque l’anniversario dell’insurrezione nel ghetto di Varsavia. Negli aspri dibattiti che guidarono tale scelta, questo dettaglio non sfuggì certo a nessuno. Cosa significava? Che si voleva infrangere il luogo comune di un popolo che va a morire come le bestie al macello.
Che si volevano celebrare episodi eroici come le rivolte di Sobibor, Birkenau, Treblinka. Che si voleva commemorare un massacro, ma anche una resistenza. Per me, che son figlio di un resistente e non di un deportato, questa volontà è essenziale. Essa invita a ricordare che c’è sempre una possibilità, persino nella notte più nera, di insorgere e di sperare.
Un’ultima parola. Poiché parliamo di calendario, è invece un puro caso che si sia aperta, lo stesso giorno, la conferenza «antirazzista» di Durban II. Di nuovo, si sono levate alcune voci per dire: «Non temete, fissando lo sguardo sui vecchi genocidi, di non scorgere quelli che avvengono qui, adesso, sotto i vostri occhi?». Non c’è da temerlo. Poiché, oltre al fatto che la suddetta conferenza si è tramutata in una carnevalata, che è stata utilizzata da un criminale come Ahmadinejad per infangare il bel concetto di antirazzismo, possiamo capovolgere la domanda.
Perché tutte le istituzioni votate al ricordo della Shoah si sono mobilitate per il Darfur? Perché i primi ad aver capito quel che succedeva in Ruanda furono coloro che, ebrei o no, avevano a cuore la Shoah?
Perché, quando il mondo chiudeva gli occhi sul massacro dei musulmani in Bosnia, a suonare l’allarme furono uomini che in comune avevano soltanto un pensiero, il «mai più» di Auschwitz?
Eppure, non erano più informati di altri. Avevano giusto una bussola. Una scala del male e del peggio. Una sorta di radar che ogni volta segnalava la prossimità della Bestia e il suo caratteristico profumo. È questo il ricordo della Shoah. Ed è per questo che bisogna commemorarla.
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