Un paese non basta, Arrigo Levi
Il Mulino Euro 16
Per un giornalista di lungo corso viene sempre il momento del desiderio di rifare la propria storia. Anche Arrigo Levi, di cui Il Mulino ha pubblicato da poco “Un paese non basta” ha avuto questa tentazione: ma il libro è esorbitato rispetto al primo intento. Già il titolo è rivelatore, perché allude alle diverse “patrie” di Levi, e a una vita che ha ecceduto largamente il profilo della normalità. Si tratta allora di seguire la traiettoria affascinante della sua vita, e prendere nota di come un’esperienza eccezionale si sia trasformata in una coscienza civile e politica. Si tratta di un’autobiografia che si concentra su quattro grandi nuclei narrativi e di riflessione. La prima parte ricostruisce la storia della sua famiglia e gli anni della sua infanzia, in una Modena felice, dove lo studio da avvocato del padre Enzo e la casa di campagna delle vacanze rappresentano felicemente la condizione di una comunità ebraica del tutto integrata, anche se capace di mantenere le proprie tradizioni. Non ci fossero state le leggi razziali, e l’inclinazione assassina assunta dal fascismo, la vicenda della famiglia Levi sarebbe stata raccontata con un profilo nostalgico: “un albero genealogico modenese di alcuni secoli” tra molti Formaggini, Treves e Mortara, echi risorgimentali, una storia borghese qualunque, con macchina,frigorifero, e telefono fin dagli anni venti, il tennis, legami ravvivati dalle tradizioni, dalla memoria dei cibi, delle feste e dei giochi estivi, nel clima di una famiglia larga e affettuosa. Furono ovviamente le esplosioni di odio politico nell’ultima fase del fascismo, insieme alla consapevolezza che nel cuore dell’Europa agli ebrei stava accadendo qualcosa che travalicava le atrocità di una guerra, a indurre l’intera famiglia Levi a fuggire, nel 1942, quando Arrigo aveva sedici anni, alla ricerca di un’altra patria, l’Argentina. E qui forse si coglie uno dei primi aspetti del giovane ebreo totalmente laicizzato, anzi “miscredente”, che ne impronterà l’intera vita: vale a dire il piacere di sentirsi in patria in qualsiasi comunità disponibile ad accettarlo. Non si tratta di un cosmopolitismo generico, ma di un’apertura, una curiosità, una simpatia verso altri mondi. Tanto da considerare anche a distanza di tempo i quartieri di Buenos Aires, l’università, le scuole di ballo, come luoghi personali e indimenticabili. Non stupisce allora che poco dopo essere tornato in Italia nel 1946, sull’onda degli eccessi peronisti, e dopo avere mosso i primi passi nel mestiere, per il giovane Levi risultasse irresistibile il richiamo di Israele, la terra ebraica divenuta una nazione, messa a rischio dalla guerra araba del 1948. Soldato del genio, chiamato a minare e sminare strade nel deserto, Levi guarda, riflette, mette a confronto i luoghi biblici con l’orizzonte che gli concede l’esperienza diretta. D’altronde, Israele è un’altra delle sue patrie possibili: senza romanticismi, ma con un’adesione fortissima. Da ogni nuovo paese, Levi trae un insegnamento. Che diventa un modello quando negli anni Cinquanta il giornalismo lo porta a Londra, nell’Inghilterra di Giorgio VI. Gli inglesi così decent, il rispetto rigoroso della privacy, la semplicità della burocrazia, l’autocontrollo che nei momenti dovuti si apre a una cortesia calorosa, rappresentano il lato informale del rapporto con l’Inghilterra e la sua mentalità; l’altro aspetto è dato invece dall’ammirazione per il sistema politico, per una concezione liberale e tollerante, per un modo di interpretare il confronto politico che esclude la violenza ideologica. Poteva essere molte cose, Arrigo Levi. Stenografo, teologo, biblista, esperto di letteratura ispanica. Il suo libro sarebbe stato interessante anche se avesse rispettato l’intento iniziale, cioè raccontare “come sono diventato giornalista”. Ne è uscito in realtà un racconto in cui la narrazione si alterna con la riflessione, per esprimere quel complesso di convinzioni formatesi via via, che forse non sono così distanti dalle idee di suo padre, ebreo laico che continuava a “camminare nelle vie del Signore”, nel senso di “fare tutto il bene possibile a parenti o a estranei, e di escludere il mio vantaggio, ogniqualvolta questo richiedesse sacrifici altrui”.
Edmondo Berselli
La Repubblica
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Assassino del padre, Martin Pollack
Traduzione di L. Vitali
Bollati Boringhieri Euro 22,00
Cinque anni prima del trionfo di Hitler, nel tribunale penale della quieta Innsbruck si apre una finestra sul futuro prossimo d’Europa. Un misterioso ma ordinario processo per parricidio spalanca gli occhi, a chi sa vedere, sull’onda antisemita pronta a scatenarsi. Il nome dell’imputato, Philipp Halsmann, dice oggi qualcosa agli amanti della fotografia: nel dopoguerra sarà il ritrattista che convince Marylin, Dalì, Nixon, a saltare davanti all’obiettivo, bloccandoli nella leggerezza di un sorriso infantile, i piedi sollevati dal suolo. Quasi nessuno sa che la sua stessa vita aveva rischiato di saltare, all’età di 22 anni. Nel settembre 1928 Halsmann è in gita sulle Alpi col padre, dentista ebreo di Riga, quando durante un’escursione il vecchio muore cadendo da un dirupo. Strane circostanze convincono gli investigatori che si tratti di parricidio. La verità sfuma nel polverone di un secondo “caso Dreyfus”: il nascente movimento filonazista tirolese si scaglia sul ragazzo per smascherare “il mostruoso influsso dell’ebraismo”. Gli intellettuali della Vienna rossa reagiscono contro la “provincia nera”. La stampa europea si spacca. A favore del giovane Halsmann si espongono nientemeno che Einstein, Fromm, Mann e Freud. Due condanne, la grazia: Halsmann ripara in Usa. Poi l’orrore della Shoah sovrasta l’eco del precoce accanimento antisemita di Innsbruck, ricostruito in modo avvincente in questo autentico legal thriller storico-politico.
Michele Smargiassi
Almanacco dei libri – la Repubblica