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Fiamma Nirenstein ci parla della guerra antisemita contro l'Occidente

Riprendiamo da FORMICHE.net, la video-intervista di Roberto Arditti a Fiamma Nirenstein dal titolo: "A che punto siamo in Medio Oriente. Intervista a Fiamma Nirenstein". 
(Video a cura di Giorgio Pavoncello)

Intervista a tutto campo a Fiamma Nirenstein di Roberto Arditti, a partire dal suo ultimo libro: "La guerra antisemita contro l'Occidente". Le radici dell'antisemitismo e perché l'aggressione contro il popolo ebraico in Israele è un attacco a tutto campo contro la civiltà occidentale. E una sconfitta di Israele segnerebbe anche la nostra fine. 



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Corriere della Sera Rassegna Stampa
11.04.2009 Allan Bloom rivelò le trappole del politicamente corretto
chi non aveva letto il suo profetico libro, ora può farlo

Testata: Corriere della Sera
Data: 11 aprile 2009
Pagina: 41
Autore: Pierluigi Battista
Titolo: «Il Platone neocon che sfidò i conformisti»

L'editoire Lindau ristampa un libro da tempo esaurito, "La chiusura della mente americana ", di Allan Bloom, che non è azzardato definire un testo profetico. Lo racconta diffusamente sul CORRIERE della SERA di oggi, 11/04/2009, a pag.41, Pierluigi Battista, in un articolo dal titolo " Il Platone neocon che sfidò i conformisti ".

Se avessimo letto con più attenzio­ne (e meno ostilità acrimoniosa) questo libro di Allan Bloom del 1987 non avremmo aspettato l’11 settembre per azzannarci sullo «scontro di civiltà» o l’arrivo di papa Ratzinger per rinfocolare la disputa sul «relativi­smo culturale». Avremmo capito che la denuncia di Bloom dei misfatti compiuti in nome dell’«uomo democratico» domi­nante in Occidente non era una fisima re­azionaria ma il lamento, ferreamente ar­gomentato, di chi vedeva sgretolarsi pro­prio l’«attaccamento al messaggio e allo spirito» dei principi democratici e fonda­tivi dell’America. Giacché una società co­mincia a inabissarsi quando non è più in grado di leggere Platone e di accapigliar­si nella ricerca spasmodica della verità e del bene.

Troppo astratto, difficile, eccessiva­mente «filosofico»? Eppure La chiusura della mente americana fu un successo strepitoso. Talmente clamoroso da fare di Allan Bloom un uomo straordinaria­mente ricco. Chi ha letto Ravelstein, scritto da Saul Bellow per commemora­re l’amico morto nel 1992 di Aids, ne ri­corderà l’eccentricità geniale, l’eleganza ricercata e dispendiosa, il gusto per gli impianti stereofonici sofisticatissimi ac­quistati con i proventi del libro. Ricorde­rà il magnetismo esercitato da Bloom sui suoi discepoli più dotati, la sua sregola­tezza così in contrasto con l’intransigen­za conservatrice del suo pensiero, le tele­fonate in cui si divertiva diabolicamente a scambiare i gossip più feroci sul conto dell’establishment politico del mondo, affamato dei suoi consigli. Era il monu­mento del politicamente scorretto, il pro­feta dell’ondata culturale «neocon» che avrebbe sommerso la supponenza del ca­techismo progressista e qualche anno dopo avrebbe segnato il trionfo ideologi­co della «Right Nation» (e Bloom conte­se a Leo Strauss il titolo di «Platone di Bush»). In Italia pochi si accorsero del­l’impatto che ebbe La chiusura della mente americana (ora finalmente ripro­posto da Lindau, molto tempo dopo la sua sparizione dalle librerie). Eppure il li­bro ebbe l’effetto di scardinare molte cer­tezze, tanto da far dire a Jim Sleeper sul New York Times che quello di Bloom «è un libro di sinistra. Anzi, è il libro che la gente di sinistra ha sempre letto di na­scosto ».

E non è un paradosso. Bloom smantel­la
infatti la neomitologia della sinistra li­beral, ma sempre in nome di una strug­gente nostalgia per la grande promessa contenuta nelle carte fondamentali del­l’America: l’idea di una comunità demo­cratica basata sui diritti naturali e sul­l’uso della ragione come via privilegiata alla costruzione del bene comune. Allie­vo di Leo Strauss, Bloom sa bene che la critica demolitrice della ragione, attività privilegiata solo per una ristretta aristo­crazia intellettuale, non può mai diventa­re democratica, pena il suo pervertimen­to e la dissoluzione stessa di una società bisognosa di certezze granitiche. Ma quando procede al massacro intellettua­le della retorica egualitaria e multicultu­ralista che ammorba le università ameri­cane condannate al declino e alle medio­crità, dimostra che la finta «apertura» delle menti progressiste è invece la più impermeabile «chiusura» nei confronti della ragione. In quelle menti annebbia­te dalla moda culturale del momento, «la relatività della verità» non è una per­cezione teorica, ma «un postulato mora­le ». A suo parare sparisce, nella retorica «relativista» in cui gli studenti progressi­sti sono «indottrinati», lo stesso deside­rio razionale di «essere nel giusto», di stabilire che qualcosa è «migliore o peg­giore » di un’altra. «Se — scrive Bloom — faccio loro le domande di routine, stu­diate per confutarli e farli pensare, per esempio 'Se tu fossi stato un ammini­­stratore inglese in India, avresti permes­so agli indigeni sotto la tua giurisdizione di bruciare la vedova al funerale di un uo­mo che era morto?', tacciono oppure ri­spondono che, in primo luogo, gli ingle­si non avrebbero dovuto trovarsi lì». Sa­rà il massimo dell’«apertura» relativista nei confronti dell’Altro, ma il nuovo con­formista non sa rispondere alle doman­de fondamentali. La sua è una nuova reli­giosità superstiziosa, apparentemente «aperta a tutte le specie di uomini e a tut­te le specie di stili di vita, a tutte le ideo­logie ». Che «non ha nemici, se non l’uo­mo che non è aperto a tutto». Ma in que­sto modo, spiega, il massimo dell’apertu­ra, il massimo del relativismo si stravol­ge nel suo contrario: nel massimo della chiusura, nel massimo dell’intolleranza (e addirittura della ripulsa morale) per chi non si inchina ai suoi dogmi.

La requisitoria di Bloom è sgradevole, irritante. E talvolta finisce per assomiglia­re a un’invettiva esacerbata contro il de­gradato spirito dei tempi, scomunicato nella sua interezza. Prende a bersaglio la musica rock, la rivoluzione sessuale, la fi­ne dell’autorità paterna nelle famiglie oramai disgregate, gli sfibrati piani di studio delle facoltà umanistiche. Perfino Woody Allen che, secondo Bloom, avreb­be
deformato e americanizzato la grande filosofia della disperazione tedesca in una innocua e fatua Disneyland del disa­gio psichico moderno. Ma è impressio­nante come Bloom, due anni prima del crollo del Muro di Berlino, avesse dia­gnosticato l’accartocciamento dell’Occi­dente democratico, incapace di vivere e di legittimarsi in mancanza del grande Nemico. E avesse intravisto nel declino dell’università americana il fulcro della crisi del progressismo. Convinto, come scrive Bellow nella sua prefazione, «che l’università, in una società governata dal­la pubblica opinione, avrebbe dovuto es­sere un’isola di libertà intellettuale», Bloom si dispera per le conseguenze ca­tastrofiche del suo asservimento all’«opi­nione » dominante. Lo fa sulla scorta di una lettura sofisticata della teoria politi­ca e filosofica di Machiavelli, Hobbes, Locke e Rousseau. Ma per giungere a conclusioni politiche che mettano in di­scussione le certezze più care di una sini­stra postmarxista che ha sublimato la sconfitta nelle litanie del relativismo cul­turale. Perciò la riproposta del libro di Bloom in Italia permette di ritornare a un testo che negli Stati Uniti ha rappre­sentato una svolta destinata a ripercuo­tersi persino nelle scelte strategiche del­la politica di Washington. Plato­ne- Bloom non andrà alla Casa Bianca, pe­rò diventerà il testimone e il simbolo di una storica sconfitta culturale della sini­stra, negli Stati Uniti ma anche in Europa (e soprattutto in Italia). Relegando il poli­ticamente corretto nel museo archeologi­co delle dottrine estinte.

Nella foto Allan Bloom

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