Gli inglesi, invece di preoccuparsi degli attentati che il fondamentalismo islamico sta preparando sul suolo britannico ( si veda l'articolo di Fabio Cavalera ), sembrano presi dall'insana volontà di boicottare i prodotti alimentari israeliani, come scrive Francesco Battistini, sul caso della catena "Tesco". Sul CORRIERE della SERA di oggi, 11/04/2009, a pag.14. Il titolo del pezzo di Cavalera non è esatto, il complotto non è degli studenti, ma degli studenti pakistani. Che ci sia una manina politicamente corretta, magari anche infarinata agli esteri del Corriere ? Ecco gli articoli:
Fabio Cavalera- Manchester, il complotto degli studenti
LONDRA — Non ci voleva poi molto a bucare le frontiere britanniche. La via più facile, per i pachistani, era quella di procurarsi un visto studentesco e con il timbro sul passaporto si poteva essere sicuri che a Londra prima o poi si sarebbe sbarcati. Nessuna indagine. Nessuna verifica. Niente di niente.
Chi andava a controllare come e perché un ventenne cresciuto ai confini fra Pakistan e Afghanistan, la tana di Osama Bin Laden e delle sue bande, riuscisse a pagare almeno 8 mila sterline per iscriversi a un college universitario? E chi si prendeva in carico il dovere di certificare se i ragazzi fossero davvero immacolati liceali con il sogno di una prestigiosa laurea? Se ne sono presentati cinquantamila negli ultimi cinque anni. Tanti.
Troppi? Quel colabrodo di sistema è stato una pacchia per chi non aveva in testa i libri ma le bombe. Ed è proprio così che dieci dei dodici sospetti terroristi affiliati ad Al Qaeda, bloccati mercoledì da Scotland Yard, sono entrati nel Regno Unito: da insospettabili secchioni. Abdul Wahab Khan, ad esempio, da un paio d’anni si era iscritto al Manchester College of Professional Studies di Manchester. «Era gentile e intelligente», giurano i vicini di casa. Ma la polizia la pensa diversamente. Gli agenti si sono precipitati ad arrestarlo perché dopo averlo pedinato si sono convinti che stesse preparando per il weekend di Pasqua un attacco al Trafford Centre di Manchester, che è uno dei centri commerciali più importanti dell’Inghilterra, e ad altri tre obiettivi. Naturalmente un conto è sospettare e un conto è provare. E gli investigatori avranno 28 giorni di tempo per spiegare la fretta con cui hanno catturato Abdul Wahab Khan e i suoi undici compari distribuiti fra la John Moore University di Liverpool, la campagna dell’Essex e la stessa Manchester.
Una cosa è certa: poche ore prima che le forze della sicurezza si muovessero con qualche ora di anticipo sui tempi programmati per via della gaffe di Bob Quick, il numero uno dell’antiterrorismo — immortalato in Downing Street con i dettagli dell’operazione «Pathway » in bella vista fra le mani — i vertici dell’intelligence avevano spiegato a Gordon Brown, il primo ministro, i dettagli di un piano che, secondo le loro informazioni, avrebbe avuto conseguenze tragiche. Il premier ieri si è sbilanciato parlando di prove «molto grandi», segno che l’allarme rosso non era un’invenzione di comodo e che qualcuno si preparava a trasformare la vacanza in un tiro al bersaglio.
Che poi a tramare fosse una cellula di giovani pachistani non è neppure un particolare di second’ordine. Il precedente del 7 luglio 2005, gli attentati alla metropolitana e ai bus di Londra, è un dato certo: i kamikaze, pur di nascita inglese, avevano origini familiari nel Pakistan. La differenza sta semmai nella nuova strategia di Al Qaeda che, anziché ricorrere a militanti già residenti nel Regno Unito, privilegerebbe l’utilizzo di manovalanza esportata, grazie ai visti studenteschi, dai suoi campi di addestramento. Colpa di Islamabad che non collabora? O colpa di Londra che rilascia i permessi senza verificare il background dei richiedenti? Un balletto. Ne hanno discusso al telefono il premier Gordon Brown e il presidente pachistano. All’invito del primo — «dovete fare di più» — Asif Ali Zardari ha replicato: «Va bene, ma spetta a voi controllare prima di concedere i visti».
Francesco Battistini- " Il caso del numero verde che boicotta gli israeliani"
GERUSALEMME — 0800-505555, un bip: «Servizio clienti Tesco. Se state chiamando per informazioni sui prodotti da Israele, siete pregati di digitare 1». Il pregiudizio non si coglieva e il risponditore automatico aveva il tono antipatico, più che ostile. Però quella frasetta era ronzata subito male, anche perché schiacciando l’1 si capiva subito di che informazioni si trattasse: quelle sulla campagna per il boicottaggio del «made in Israel», che in Gran Bretagna ha trovato sponsor nel governo Brown e, dopo Gaza, è diventata un peso fisso sulla bilancia commerciale.
Qualcuno ha segnalato alla Federazione sionista. Una verifica, la protesta: «Il messaggio è chiaro — dice Jonathan Hoffman, il vicepresidente —. I signori Tesco ci stanno dicendo che, per le merci da Israele, c’è un 'canale particolare'. E che trattarle è comunque una grana ».
In Gran Bretagna, lo è da anni. Dall’ortofrutta all’hi-tech, molta roba arriva sui banchi dei supermercati con un’etichetta che somiglia a un avvertimento: «Prodotto nella West Bank», ovvero negl’insediamenti che tutta la comunità internazionale considera illegali e che dovrebbero essere smantellati, in base alla Road Map e agli accordi di Annapolis. La Palestine Solidarity Campaign ha raccolto molte adesioni fra gl’inglesi e il boicottaggio è diventato reale. «Non c’è dubbio, hanno acceso un semaforo rosso», riconosce Dan Katrivas, responsabile estero dei manifatturieri israeliani: «C’è una campagna capillare, le organizzazioni pro palestinesi bombardano i negozianti con lettere e telefonate, chiedendo di togliere le nostre merci».
È a questo che s’aggrappano i dirigenti Tesco, la più grande catena britannica di distribuzione, che hanno disattivato quel tasto 1 e fatto le scuse: «Il problema è che le nostre linee sono rimaste intasate, specie nei giorni della guerra di Gaza. La gente chiamava per sapere come aderire al boicottaggio, ma anche se fosse possibile acquistare lo stesso i prodotti israeliani. Abbiamo pensato d’aprire una linea apposita». L’attenzione non è piaciuta: se il boicottaggio è finora un danno più d’immagine che di sostanza — l’export israeliano ha subìto una flessione del 3-5 per cento —, in ogni caso i mercati inglese e scandinavo stanno diventando un tabù. Ci vuol poco a finire nel mirino antisraeliano, come sanno alla Starbucks, la multinazionale del caffè. Qualche mese fa, un chierico egiziano ha osservato la donna del logo verdenero e ha creduto di riconoscervi il volto Esther, la regina degli Ebrei persiani celebrata dal Vecchio Testamento. È scattata la fatwa. Starbucks ha smentito, ma è servito a poco: dal Cairo a Beirut, il caffè s’è fatto amarissimo.
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