Riportiamo dal MANIFESTO di oggi,09/04/2009, a pag. 9, l'articolo di Daphna Golan dal titolo " Un lungo cammino verso la pace " e l'articolo di Michelangelo Cocco dal titolo " Le aziende di Tel Aviv colpite E la Fiom si schiera ".
Dahpna Golan è un'ebrea israeliana che ha sperimentato sulla sua pelle molte delle guerre contro Israele (così, almeno scrive nel suo pezzo). Se ne potrebbe dedurre che ami il suo Paese e la sua storia e che, da israeliana, riesca a comprendere la sua necessità di difendersi dai terroristi di Hamas, Hezbollah.
Ma ciò che scrive nell'articolo dimostra il contrario: richiede ai Paesi occidentali di non vendere armi a Israele in modo che non possa più combattere (niente armi, niente guerre...peccato che i Paesi arabi non vengano menzionati in questo boicottaggio), critica il suo governo per aver combattuto contro Hamas invece di dialogare ( è possibile un dialogo con chi ti bombarda quotidianamente e si rifiuta di riconoscerti?), nega che la guerra a Gaza avesse degli obiettivi militari specifici. Chiama la guerra di indipendenza del '48 "catastrofe" (come fanno i Paesi arabi), scrivendo anche che gli israeliani hanno cacciato i palestinesi dalle loro case rendendoli profughi (in realtà sono stati i Paesi arabi a richiamare i palestinesi, terrorizzandoli con lo spauracchio di una morte certa per mano degli ebrei se fossero rimasti là, salvo, poi, non concedere loro la cittadinanza e tenerli nei campi profughi, pronti per essere usati come terroristi).
Daphna Golan richiede anche il boicottaggio di cantanti e sportivi israeliani (ne deduciamo che si sia rallegrata per l'episodio della tennista Pe'er e dell'esclusione del suo Paese dai Giochi del Mediterraneo). Insomma, un condensato di antisemitismo degno del migliore negazionista, contrabbandato dal MANIFESTO come oro colato (cosa c'è di meglio di un'ebrea israeliana che odia il suo Paese?).
Per quanto riguarda l'articolo di Cocco, innamorato delle iniziative di boicottaggio di prodotti israeliani, gli ricordiamo che in Italia sono miseramente falliti. Ecco gli articoli:
Daphna Golan : " Un lungo cammino verso la pace "
In lingua ebraica «va’ a Gaza» è un modo di dire comune, sinonimo di «va’ all’inferno ». Quasi nessun israeliano ha mai vissuto nella Striscia, mentre molti palestinesi di Gaza vivono in campi profughi e Israele lì controlla ancora la vita di 1,5 milioni di arabi anche in seguito al «disimpegno», dopo che nell’estate 2005 i coloni furono costretti a lasciare i loro insediamenti. La maggior parte degli israeliani è stata a favore della guerra contro Gaza anche se non è mai stato chiaro quali fossero gli obiettivi della guerra - nonostante i media ripetevano che c’era «una quantità d’obiettivi» – quale il suo scopo finale e perché non fossero state intraprese strade alternative ai bombardamenti. La maggior parte degli israeliani semplicemente sosteneva: «Non possiamo continuare a non fare nulla mentre Hamas tira razzi nel sud d’Israele». Anch’io ero d’accordo che bisognasse fare qualcosa per fermare il lancio di Qassam contro Sderot e Beersheva. Ma perché, invece di dialogare con la gente di Gaza – inclusa la leadership di Hamas – abbiamo sparato e bombardato? Nelle giornate di protesta contro l’attacco più devastante a cui abbia mai assistito ho continuato a chiedermi: come è possibile? Come è possibile che la maggior parte degli israeliani appoggi questa guerra dannosa e stupida? Come possiamo vivere quest’incubo senza immaginare come fermarlo? Perché i figli dei miei amici stanno partecipando a questa guerra malvagia? Come possiamo continuare normalmente la nostra vita quotidiana in mezzo a tutto questo? Penso che all’origine di tutto ciò ci sia una combinazione – condivisa dalla maggioranza degli israeliani - di paura, pregiudizio e mancanza di speranze e futuro. A Gerusalemme abbiamo continuato a insegnare, come sempre. Al sicuro, a poche decine di chilometri dall’area di guerra. Insegno diritti umani e i miei studenti sono sia arabi sia ebrei. Israeliani e palestinesi, religiosi e laici, erano tutti depressi, spaventati e arrabbiati. Ma abbiamo continuato a lavorare, come sempre. Ormai siamo così abituati alle guerre che non ci siamo fermati nemmeno in questo caso. Ma ora io vi prego di fermarci. Nella prima settimana del conflitto avevo pubblicato un intervento sul quotidiano Ha’aretz proponendo uno sciopero dei campus finché la guerra non fosse finita. Ho ricevuto lettere da università della California e della Gran Bretagna che ci proponevano scioperi di solidarietà, ma qui a Gerusalemme soltanto quattro membri dell’Università hanno aderito allo sciopero di un’ora che stavamo organizzando e, alla fine, nemmeno questa protesta ha avuto luogo. Sono un’ebrea israeliana, nata e cresciuta in Israele. Avevo dieci anni quando scoppiò la Guerra dei sei giorni, 16 quando iniziò il conflitto dello Yom Kippur. Durante la prima guerra del Libano ero una studentessa e ho conosciuto l’uomo che sarebbe diventato mio marito. Mia figlia è nata pochi mesi prima che, nel 1987, scoppiasse la prima Intifada e, nel 1991, ogni volta che l’allarme suonava ci rifugiavamocon lei e il suo fratellino in una tenda di plastica a prova di armi chimiche. Imiei figli sono cresciuti a Gerusalemme negli anni degli attentati suicidi e delle esplosioni sugli autobus. Accompagnarli a scuola rappresentava ogni giorno un viaggio spaventoso. Abbiamo continuato la vita di sempre durante la seconda guerra del Libano nel 2006 – mentre decine di operazioni militari causavano enormi distruzioni – perché durante tutti questi anni ci hanno raccontato che non abbiamo scelta, che Israele vuole la pace ma non ha un partner con cui siglarla e che quindi dovevamo andare avanti, tenendo alto il morale. Ma ora dico che dobbiamo essere fermati, che non possiamo andare più avanti così. Nessun’arma deve più essere data a Israele per iniziare altre guerre. E se i cantanti israeliani vogliono gareggiare in Eurovisione, gli sportivi giocare nelle leghe europee e i turisti spostarsi da un paese all’altro dell’Unione europea senza bisogno di visto, devono rispettare i diritti di tutti, porre fine all’occupazione militare nei confronti dei palestinesi che va avanti da 42 anni, smettere di fare la guerra e trovare nuovi modi di negoziare il nostro futuro assieme ai palestinesi. Perché nei colloqui di pace – tutti falliti finora – si è sempre discusso di dove tracciare i confini, come separare i popoli, mai di come ebrei e arabi vivranno assieme. La Commissione per la verità e la riconciliazione sudafricana dovrebbe essere assunta come modello per permettere a ebrei e arabi, a palestinesi e israeliani di smettere di sparare e onorare la memoria dei propri cari morti nel conflitto. Piangere i caduti, curare le ferite, ammettere le sofferenze inflitte a un popolo innocente, discutere del passato e sognare assieme un futuro condiviso. Le guerre contro Gaza non saranno fermate finché non sarà riconosciuto che la Striscia di Gaza è stata creata da Israele. Durante il conflitto del 1948, che i palestinesi chiamano Nakba (catastrofe) e gli israeliani Guerra d’indipendenza, centinaia di migliaia di palestinesi furono deportati o scapparono dalle loro case e non fu più permesso loro di farvi rientro. Le loro terre furono confiscate e la maggior parte dei loro villaggi distrutti e ripopolati da ebrei nel momento della nascita dello Stato d’Israele. Molti dei rifugiati scapparono proprio a Gaza e alcuni di loro hanno abitato in campi profughi negli ultimi 60 anni. Per i primi 19 hanno vissuto sotto occupazione egiziana e, da quel momento in poi, per oltre 40 anni, sotto occupazione militare israeliana. I profughi palestinesi, che rappresentano la maggioranza della popolazione di Gaza, sognano di tornare ai loro villaggi e alle loro terre in Israele,ma Israele non vuole nemmeno ascoltare i loro desideri, perché Israele rifiuta qualsiasi discussione sul passato. Un cessate il fuoco è necessario, ma lo è, allo stesso modo, un percorso di discussione sul nostro passato e sul nostro futuro. E questa trattativa dovrebbe aver luogo tra il maggior numero di parti possibile tra quelle che hanno dato vita a questo conflitto. Dovremmo discutere della fine dell’occupazione militare a Gaza e in Cisgiordania, del futuro dei profughi e della condivisione di Gerusalemme. Dovremmo discutere di come vivere assieme secondo giustizia, ebrei e arabi, in Medio Oriente. Spero che non sia ormai troppo tardi. Forse ci vorranno molti anni prima che le ferite si rimarginino ma, col vostro aiuto, col vostro rifiuto di appoggiare la guerra, possiamotrovare la via della riconciliazione. Spero di poter continuare a insegnare a studenti ebrei e arabi che quella dei diritti umani non è una lingua straniera, estranea alla nostra realtà e che il loro sarà un futuro di pace e non più di guerre. Per favore, aiutateci a fermare la guerra e costruire la strada per un futuro di giustizia.
Michelangelo Cocco : " Le aziende di Tel Aviv colpite E la Fiom si schiera "
Il 4 febbraio scorso i lavoratori del porto di Durban iscritti al Cosatu – la principale confederazione sindacale nazionale – si sono rifiutati di scaricare le merci trasportate nello scalo sudafricano da una nave israeliana. Pochi giorni dopo l’Hampshire college del Massachusetts lanciava la sua campagna di boicottaggio contro 200 aziende (tra cui Caterpillar, Motorola, General electric, Terex) accusate di forniremateriali e servizi all’esercito di Tel Aviv che da 42 anni occupa la Cisgiordania. Nel 1977 l’Hampshire fu la prima istituzione culturale statunitense a disinvestire dal Sudafrica segregazionista, mentre i portuali di Durban hanno espresso la loro solidarietà ai palestinesi rispolverando la forma di protesta introdotta dai loro compagni scandinavi nel 1963 – quattro anni dopo la nascita del Movimento anti-apartheid – quando incrociarono le braccia per bloccare i carichi provenienti dal regime segregazionista di Pretoria. A questi due casi fortemente simbolici, nelle ultime settimane se ne sono aggiunti decine di altri che hanno dato nuova linfa al movimento di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni (Bds) contro Israele. Lanciata nel 2005 sotto forma di appello da parte di 170 organizzazioni della società civile palestinese, la campagna Bds si propone di «esercitare una pressione non violenta per portare lo Stato d’Israele a cessare le sue violazioni del diritto internazionale». Non c’è dubbio che a far guadagnare alla causa l’appoggio di istituzioni che vanno dai sindacati norvegesi ai docenti e impiegati universitari del Quebec, a decine di ong in Gran Bretagna e negli Stati Uniti sia stata la recente offensiva israeliana contro Gaza, col suo lascito di oltre 1.300 palestinesi uccisi in tre settimane di bombardamenti. E a dare sanzione ufficiale ai successi del movimento Bds ci ha pensato, il 30 marzo scorso, la Confindustria israeliana. «Oltre ai problemi e alle difficoltà derivanti dalla crisi economica globale, il 21% degli esportatori locali lamenta che sta avendo problemi a vendere prodotti israeliani a causa di un boicottaggio anti-israeliano, specialmente da parte della Gran Bretagna e dei paesi scandinavi» ha dichiarato al Jerusalem post Yair Rotloi, il presidente dell’associazione. OmarBarghouti, promotore della campagna per il boicottaggio accademico e culturale d’Israele (Pacbi), sottolinea il carattere «strutturato e istituzionalizzato raggiunto dal movimento». «Dopo i massacri di Gaza – spiega Barghouti – abbiamo chiesto un cambiamento di mentalità: ognuno lo faccia nelle forme e con imezzi più idonei alle diverse realtà nazionali,maaiutateci col boicottaggio, che è l’unico strumento per aiutarci a liberarci dall’oppressione». SecondoBarghouti «Israele è più vulnerabile di quanto non fosse il Sudafrica segregazionista, perchélasuaeconomiadipendeinteramente da agricoltura, servizi e produzione bellica». Proprio alla collaborazione dell’Italia con l’industria degli armamenti di Tel Aviv ha rivolto la sua attenzione la Fiom, il primo sindacato italiano a prendere in considerazione il boicottaggio. Altre organizzazioni da sempre attive nel sostegno alla causa palestinese come ForumPalestina e International solidaritymovement Italia e, più recentemente, la stessa rete Action for peace - di cui la Fiom fa parte - hanno indicato la via maestra del boicottaggio delle merci israeliane (quelle il cui codice a barre inizia con i numeri 729). Venerdì scorso, dopo che la stampa israeliana aveva riportato l’intenzione di Finmeccanica di stipulare accordi di collaborazione con le principali aziende militari israeliane, rappresentanti dei metalmeccanici della Cgil hanno volantinato fuori alla sede romana di Finmeccanica. «Abbiamo anche incontrato l’azienda e chiesto chiarimenti sui tipi di produzioni, eventuali cooperazioni con aziende israeliane e tecnologie a cui si coopera poi vedremo i delegati e i lavoratori per discutere eventuali iniziative» racconta Alessandra Mecozzi, che di Fiom è la responsabile internazionale. Nell’attesa di eventuali iniziative da organizzare coi lavoratori, Fiom chiede l’immediata sospensione dell’accordo di cooperazione militare tra Italia e Israele entrato in vigore nel 2005.
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