Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 09/04/2009, a pag. 41, l'articolo di Christopher Hitchens dal titolo "Obama dica no al ricatto turco". Un'esortazione, perchè Obama con Erdogan si è ben guardato dal chiedergli conto del genocidia armeno. L'aveva promesso in campagna elettorale, tutto dimenticato. Ecco l'articolo:
Questa settimana, ancor prima della sua partenza per la visita in Turchia, si sono levate le solite voci per ammonire il presidente Obama sull'opportunità di annacquare la posizione di principio finora adottata sul genocidio armeno. In aprile la diaspora armena commemora l'inizio sanguinoso della campagna militare dell'Impero Ottomano, nel 1915, che mirava ad annientare la popolazione armena. La ricorrenza assume due forme: da una parte il Giorno della Memoria armena (24 aprile), dall'altra il rinnovato tentativo di persuadere il Congresso americano ad abbandonare i giri di parole e a chiamare ufficialmente quel lontano avvenimento con il nome che gli compete, quello appena menzionato. Nel 1915 il termine genocidio non era stato ancora coniato, ma l'ambasciatore americano a Costantinopoli, Henry Morgenthau, fece ricorso a un'espressione assai più cruda. Nel suo rapporto urgente inviato al ministero degli Esteri, con allegati i dispacci appena giunti dai suoi funzionari, specie quelli dislocati nelle province di Van e Harput, Morgenthau descriveva l'assassinio sistematico degli armeni come «sterminio razziale». La sua denuncia è suffragata da un vasto archivio di documenti. Ogni anno, però, ecco che si rimettono al lavoro le lobby industrial-militari, che grazie a smentite ed eufemismi fanno pendere l'ago della bilancia a favore del cliente turco. (Di recente, l'alleanza militare tra Turchia e Israele, palesemente opportunistica, ha raccolto non pochi consensi vergognosi anche tra i deputati ebrei).
Il presidente Obama, però, affronta il problema in modo insolitamente chiaro e inequivocabile. Nel 2006, per esempio, l'ambasciatore americano in Armenia, John Evans, venne richiamato per aver utilizzato la parola genocidio. L'allora senatore Obama reclamò per iscritto presso l'allora segretario di Stato Condoleezza Rice, tacciando di vigliaccheria il ministero degli Esteri e affermando senza mezzi termini che il genocidio armeno del 1915 «non è un'insinuazione, un'opinione personale, né un punto di vista, bensì un avvenimento largamente documentato e comprovato da testimonianze storiche inoppugnabili ». Nel corso della campagna elettorale, l'anno scorso, Obama ha chiarito la sua posizione affermando che «l' America si aspetta un presidente che sia capace di dire la verità sul genocidio armeno e sappia reagire con forza contro tutti i genocidi. E io sarò quel presidente ».
A chiunque possa nutrire ancora qualche dubbio in proposito, raccomando due recenti opere di eccezionale erudizione, in grado entrambe di approfondire e spiegare il dramma armeno. La prima è Il calvario armeno: memorie del genocidio armeno, di Grigoris Balakian, e la seconda Terra ribelle: viaggio tra i popoli dimenticati della Turchia, un diario contemporaneo di Christopher de Bellaigue. Inoltre, abbiamo appena appreso l'esistenza di documenti inconfutabili provenienti dagli archivi di Stato turchi. Il politico ottomano che ordinò la campagna di deportazione e sterminio degli armeni, Talat Pascià, ci ha lasciato una documentazione dettagliatissima. La sua famiglia ha consegnato le carte a uno scrittore turco di nome Murat Bardakci, che ha pubblicato un libro dal titolo alquanto scarno di Le ultime carte di Talat Pascià.
Una di queste «ultime carte» è la fredda stima che durante gli anni 1915 e 1916 soltanto, ben 972.000 armeni sparirono dall'anagrafe della popolazione (vedi l'articolo di Sabrina Tavernise nel New York Times dell'8 marzo 2009).
C'è chi afferma che la tragedia armena fu la spiacevole conseguenza del turbine innescato dalla Prima guerra mondiale e dalla rovina dell'Impero, e questo potrebbe essere anche vero dei numerosissimi armeni massacrati al termine del conflitto e durante il collasso del governo ottomano. Ma stiamo parlando di un archivio conservato dal governo dell'epoca e dal principale politico nemico degli armeni, e qui si afferma che agli inizi della Prima guerra mondiale la popolazione armena passò da 1.256.000 cittadini a 284.157. E' molto raro che un regime, nella sua corrispondenza privata, confermi con tanta esattezza quanto denunciato dalle sue vittime.
Che cosa diranno adesso coloro che negano il genocidio? Il solito iter è quello di insinuare che se il Congresso voterà a favore della verità storica, allora la Turchia, per rappresaglia contro la Nato, seminerà il caos lungo il confine iracheno, vieterà l'uso delle basi turche all' aviazione americana o prenderà altri provvedimenti. Al vertice della Nato, il weekend scorso, si è avuto sentore di questa stessa arroganza, quando il governo di Ankara ha cercato di ostacolare la nomina di un bravo politico danese, Anders Rasmussen, a capo dell'Alleanza, tirando in ballo la scusa che, in veste di primo ministro, Rasmussen si era rifiutato di censurare i giornali danesi per placare i musulmani! Oggi si sussurra che se il presidente Obama o il Congresso firmerà la risoluzione riguardante il genocidio, la Turchia negherà la sua collaborazione in molti settori strategici, tra cui la normalizzazione della frontiera tra la Turchia e l'Armenia e il passaggio dei gasdotti e oleodotti attraverso il Caucaso.
Quando la questione viene posta in modo tanto provocatorio, però, si finisce col suggerire subdolamente all'Armenia che è nel suo interesse chinare la testa e stendere un velo pietoso sulla sua storia. Ma come potrebbe uno Stato, o un popolo, acconsentire ad annullare in questo modo il suo orgoglio e la sua dignità? La vicenda non riguarda solo gli armeni, minacciati economicamente dalla chiusura turca del confine comune. Tocca allora ai turchi, che vantano uomini di cultura e scrittori coraggiosi pronti ad affrontare rischi ben reali per rompere il tabù sulla discussione della questione armena. E spetta anche agli americani i quali, avendo eletto un nuovo presidente coraggioso, oggi si sentono dire che sia lui che il Congresso devono colludere in una gigantesca menzogna storica. Una menzogna, per di più, svelata sul nascere da coraggiosi diplomatici americani. La falsificazione della storia dura ormai da troppo tempo, con il pretesto delle ragioni di Stato. Ma è precisamente «per ragioni di Stato», in altre parole per la dichiarazione chiara e irrinunciabile che non siamo disposti a subire ricatti né intimidazioni, che il 24 aprile 2009 sarà ricordato come la data in cui avremo saputo affermare la verità e accettato tutte le conseguenze.
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