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Una pace perfetta, Amos Oz Non avrebbe guastato, per quello che si annuncia come un “nuovo” romanzo di Amos Oz, che comparisse almeno nel risvolto di copertina il fatto che “Una pace perfetta” sia stato concepito nel 1970, redatto fra il ’76 e l’81 e pubblicato in patria nel 1982, come si legge nelle date in calce all’ultima pagina. Si tratta di un’opera che risale alla prima maturità dell’autore e dunque agli anni immediatamente successivi alla guerra dei Sei Giorni: la scrisse un kibbutzim poco più che trentenne a nome Amos Klausner, in arte Oz, militante laburista in fuga da una cupa vicenda familiare che i lettori scopriranno solo vent’anni dopo nel celebratissimo “Una storia di amore e di tenebra”. Ma “Una pace perfetta”, che ne anticipa la materia autobiografica, appare se possibile un libro ancora più compiuto, nel senso della compattezza e di una intensità di ispirazione che non scende dal suo apice nonostante la struttura preveda continui cambi della prospettiva e sbalzi nel trattamento linguistico-stilistico. Protagonisti non sono singoli individui ma un’intera comunità, il kibbutz, la cui dinamica procede nei modi di un romanzo di formazione collettivo, mentre il contrasto fra ideale e reale, tipico della forma-romanzo, si traduce nel dissidio via via più evidente fra la generazione dei pionieri (la stessa di Ben Gurion e Golda Meir) e quella dei figli inquieti e perplessi, o, in altri termini, fra anziani ebrei immigrati nella Palestina del Mandato inglese e i giovani cittadini israeliani. Il clima da catastrofe imminente, un inverno così freddo e piovoso da sembrare fatale, stringono il perimetro del kibbutz alla sua necessità originaria, l’ideale laico, pauperista e socialista, dell’uguaglianza nel lavoro: qui, dove sorgono radure strappate al deserto, vivono giovani operai e contadini, si utilizzano macchine rudimentali, non mancano una piccola biblioteca e un quintetto musicale, ma non c’è una sinagoga né un rabbino, nonostante tutti sappiano citare la Bibbia. Le figure che emergono dal coro testimoniano di una nuda, elementare, umanità, non ancora di un credo identitario: la stessa memoria della Shoah è una nera ipoteca che rimane per costoro sullo sfondo, è il finale apocalittico di un’antica e dolorosa vicenda, non l’evento fondativo di una storia trionfale quale invece sarà per la generazione successiva alla guerra dei Sei Giorni, come rilevano peraltro i nuovi storici israeliani, da Idith Zertal a Tom Segev, l’autore di “Il settimo milione”. Oz ne accompagna il decorso nei modi di una struggente, mai nostalgica, elegia dove si affacciano gli anonimi eroi di quel sogno comunitario: Yolek il pioniere sionista, sua moglie Hava l’irascibile, suo figlio Yoni variante postdatata dell’ebreo errante, ma anche, aggettanti nel coro, la dolcissima Rimona, femmina reclusa nel suo istinto materno, Shrulik lo scrittore, e Azariah, spiritello messianico, il lettore di Spinoza e il tenero giullare di dio. Oz li guarda e dà loro volta a volta la parola quasi con sgomento, ne scandisce le fisionomie come da un tempo irrimediabilmente postumo: diversamente dai suoi dirimpettai (David Grossman e Avraham Yehoshua, che spesso ricorrono al mito e ai tempi lunghi della storia), egli si appaga della loro integrità al presente, dell’utopia egualitaria che li vuole dei semplici esseri umani, presi nel ciclo di vivere, lavorare e imparare in qualche modo a morire. Elena Loewenthal, che firma la splendida versione, fedele alla ricchezza polifonica del testo originale, aveva già notato a proposito di Amos Oz, in “Scrivere di sé. Identità ebraiche allo specchio (Einaudi, 2007), “un incrocio inestricabile di esperienza personale e collettiva” o meglio una “immedesimazione fra i destini individuali e destino collettivo che tracciò in quegli anni la nascita della coscienza nazionale”. Inutile ricordare che una simile epopea è attualmente rimossa, in Israele: i rabbini e i generali cui ora è delegata la manutenzione dell’identità spirituale del Paese ritengono ovviamente l’epica del kibbutz il prodotto di un’epoca sepolta, anzi un anacronismo imbarazzante e persino temerario. Massimo Raffaeli ----------------------------------------------------- Le origini della rabbia musulmana, Bernard Lewis Bernard Lewis (Londra, 1916) è uno dei massimi esperti del Medio Oriente. Le origini della rabbia musulmana (ottima traduzione di Maria Cristina Bitti) riunisce alcuni saggi, articoli, testi di conferenze sul tema. Il titolo italiano è un po’ forzato, più composto l’originale: From Babel to Dragomans. Proprio i dragomanni sono, infatti, uno dei fili conduttori della narrazione; figure di intellettuali che dall’originario ruolo di traduttori finirono per diventare veri e propri mediatori tra le due civiltà. L’autore scandisce il materiale in tre parti: Storia del passato, Storia del presente, e Storia in sé, dove “si riflette sui compiti e i doveri dello storico, in particolare sui problemi da affrontare per la storia del Medio Oriente”. Affascina, come sempre nei libri di Lewis, la chiarezza dell’esposizione, la competenza, l’oggettività – nella misura maggiore possibile – come, per esempio, nella ricostruzione del movimento sionista prima e durante il periodo del Mandato Britannico sulla Palestina. Ma dove l’analisi dell’autore va più in profondità è nella ricostruzione del rapporto, spesso così drammatico, tra Islam e Occidente: “La lotta tra i due sistemi rivali dura da quattordici secoli: iniziò con l’avvento dell’Islam nel VII secolo ed è proseguita in pratica fino a oggi”. Per mille anni l’Islam ha continuato ad avanzare, mentre la cristianità si ritirava davanti alla sua minaccia. Negli ultimi trecento anni però, dopo il fallimento del secondo assedio turco a Vienna (1683), l’Islam si è trovato sempre sulla difensiva. Da quell’ottimo storico che è, Lewis si chiede le ragioni del forte risentimento islamico nei confronti dell’Occidente, ma potremmo anche dire odio, più volte sfociato in atti di estrema violenza. Scartate le più diffuse interpretazioni di comodo (imperialismo, razzismo, appoggio Usa ad Israele), l’ipotesi dell’autore è che l’iniziale senso di ammirazione ed emulazione del mondo arabo verso l’Occidente ha progressivamente lasciato il posto all’ostilità e al rifiuto, conseguenza certa di un senso di umiliazione, vale a dire: “La consapevolezza degli eredi di una civiltà antica, orgogliosa e a lungo dominante, di essere stati sottomessi e schiacciati da coloro che consideravano inferiori”. Corrado Augias ---------------------------------------------------------- Novellara Dajjenu, Pietro Mariani Cerati Il nome è di quelli altisonanti e lui lo porta con spavalderia. Giovan Pietro è un Gonzaga di ramo minore, poco più di un signorotto di campagna, impaziente e dall’eloquio non proprio forbito. Il borgo è solo un gruppo di case di campagna e il castello un relitto del medioevo, scomodo e pieno di spifferi. La materia prima dei suoi possedimenti è soprattutto la nebbia, ma a lui piace, e se fosse possibile la imbottiglierebbe, per venderla come “nebbia di Novellara”. A movimentare la scena ci sono, per fortuna, i cugini di Bagnolo, che passano il tempo a imbastire complotti. Ma il vero elemento esotico, sicuro antidoto alla noia novellarese, sono gli ebrei, croce e delizia del buon Gonzaga: innanzitutto Mosè, il prestatore che va e viene dalla Rocca come uno di famiglia, e poi Amos, un medico appena giunto dalla Spagna col suo seguito di servitori musulmani, e il suo bagaglio di libri indecifrabili. A Novellara è arrivato però anche un ospite scomodo, il predicatore Bernardino da Feltre, che accende gli animi contro i banchi ebraici e vuole convincere Giovan Pietro a fondare un Monte di Pietà. Pietro Mariani Cerati è qui alla sua prima opera narrativa, ma s’immerge spericolatamente in un racconto che rievoca, nel tono popolaresco e scanzonato, le sacre rappresentazioni di un paese al tempo stesso crasso e lunatico, materico e sognatore. Il romanzo si nutre di un ostentato anacronismo, il Gonzaga di Novellara è pieno oltremisura di sentimenti filosemiti, mentre gli ebrei che lo circondano, cerimoniosi e beneducati, sono troppo buoni per essere veri. Eppure il paradosso è vestito di tanta naturalezza da scivolare via leggero e l’ebraismo serve a meraviglia da schermo su cui proiettare la storia, come avrebbe potuto essere se il Rinascimento avesse assecondato il proprio genio migliore, fatto di tolleranza e curiosità. Questa macchina del tempo padana, per una volta tarata sulla difesa degli oppressi, funziona bruciando illusioni. Che sono pur sempre un buon carburante letterario. Giulio Busi |
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