A.B.Yehoshua è a Torino, dove si ricordano i dieci anni dalla morte di Giulio Einaudi, il suo editore italiano. per la STAMPA l'ha intervistato Mario Baudino, a pag.29, nell'edizione di oggi,05/04/2009, dal titolo " Il fuoco amico ci minaccia tutti"
Giulio Einaudi l’ha conosciuto, ma non così bene. Per la traduzione dei suoi romanzi, da L’amante a Un divorzio tardivo, da Il responsabile delle risorse umane a Ritorno dall’India, fino al recente Fuoco amico e ai saggi di Il labirinto delle identità, tutti usciti per lo Struzzo, i suoi interlocutori letterari sono stati Ernesto Franco e Andrea Canobbio. «Domani», il tema scelto ieri sera a conclusione della giornata einaudiana, rappresentava proprio ciò che più interessa il grande scrittore israeliano: e non solo il domani del suo tormentato Paese. Parlare del futuro è, in questi momenti, quasi un obbligo morale, ci dice Abraham Yehoshua nella hall del suo albergo torinese.
Anche per un narratore?
«Non penso che lei venga a intervistarmi perché ho scritto la storia di un amore; ma perché raccontandola mi sono preoccupato della realtà che gli sta intorno, dei pensieri e delle passioni della gente; della vita e del suo futuro».
Aggiungerei della morale, dei principi etici.
«Parlo per me, e forse per quanti condividono il mio punto di vista, scrittori e lettori. Qual è il nostro compito in un tempo in cui stiamo assistendo a una sorta di ubriacatura da libertà, se non provare a definire nuovi confini etici?».
Siamo minacciati dalla libertà?
«Attenzione: le istanze di libertà sono importantissime, per i diritti civili, la lotta contro l’arbitrio e le dittature. Quella che si è affermata negli anni recenti è una strana concezione della libertà, che riguarda il denaro, il sesso, la criminalità. Come se tutto fosse possibile, e persino lecito. Se questa conversazione fosse avvenuta alla fine del millennio, saremmo stati ottimisti: era caduto il muro di Berlino, l’Est si apriva alla democrazia, l’accordo di Camp David lasciava sperare per il Medio Oriente».
Era un’illusione?
«Nel volgere di pochi mesi, l’orizzonte è cambiato. Il terrorismo di Bin Laden, le Torri Gemelle, la stessa Intifada ci hanno costretti a riconsiderare ogni cosa. Si è preso coscienza del dramma del riscaldamento globale, e infine la crisi economica ci ha rivelato qualcosa di inatteso: i nostri sistemi di indagine e controllo della realtà non hanno funzionato. L’informazione, che tanto peso ha avuto nell’abbattere le dittature, questa volta ha fallito».
Come se fossimo tutti vittime, per citare il suo ultimo romanzo da cui Salvatore Amelio sta ricavando un film, di un «fuoco amico»?
«È una metafora che può valere in generale, nei rapporti fra le persone all’interno delle famiglie, ma anche tra i popoli e nella società. È evidente che la crisi non è stata “colpa” di Bin Laden o di Bush, né di religioni o ideologie contrapposte, ma di qualcos’altro che riguarda ciascuno di noi. Della cecità del sistema».
E domani?
«Per domani ho un sogno. Vorrei un super-giornale; una creazione di tutte le più grandi testate del mondo, con dentro la gente più seria e i migliori analisti, per leggere la realtà senza condizionamenti o pregiudizi».
Suona come un’utopia.
«Non è utopia pensare a un organo internazionale che vada a fondo nella realtà. Agli scrittori non competono le analisi, ma immaginarne i criteri, questo sì, è compito loro».
Sta invocando più onestà o più cultura?
«La cultura si nutre spesso di disagio. Ha avuto la sua più grande stagione in Europa fra le due guerre mondiali, quando la situazione era terribile. Potremmo dire che la grande popolarità della cultura israeliana all’estero non è neppure un buon segno per Israele. Non penso a produrre cultura, piuttosto all’etica, e ai metodi per capire la realtà. Oltre naturalmente alla cultura come linea-guida».
Lei ha detto che è un po’ stufo di essere intervistato su Israele. Che preferisce parlarne nei suoi saggi o negli articoli per La Stampa. Però una domanda è d’obbligo. Se ne parlava con David Grossman, l’altro giorno a Novara ospite del Festival «Scrittori e giovani»: voi scrittori, nel vostro Paese, siete molto ascoltati. Non sarà tuttavia una situazione particolare?
«Alle ultime elezioni ci siamo impegnati, ed è andata malissimo».
Pensa che il processo di pace abbia subito da queste elezioni una grave battuta d’arresto?
«Non bisogna prendere alla lettera quel che dice Avigdor Lieberman, il nuovo ministro degli Esteri. Il suo è un tipico tono aggressivo da destra europea. Un po’ come la vostra Lega: proclama la secessione, ma poi mica ci prova a farla davvero. Il governo dovrà essere sconfitto dalla realtà. Per questo non approvo l’ingresso dei laburisti di Barak, che gli offrono una possibilità di mediazione. Il premier Netanyahu non ha scelta: deve fare la pace con la Siria. Questo alleggerirà la pressione sugli altri fronti».
Anche a Gaza?
«Il problema con i palestinesi è Hamas».
Lei è stato a favore della guerra a Gaza. Non pensa che, al di là dell’aspetto militare, Israele abbia comunque perso la guerra della propaganda?
«Non lo so. Bisognava fermare il lancio dei razzi, e lo scopo è stato raggiunto. I risultati, come per il Libano, si vedranno in futuro. Mi pare decisivo che Abu Mazen, il presidente dei palestinesi, abbia detto chiaramente: “Hamas gioca con il sangue dei nostri bambini”. A me basta. Per il resto, tocca proprio agli europei spingerci verso la pace, ossia verso la creazione di due Stati in Medio Oriente. E fortunatamente mi sembra che ora stiano parlando con una voce più forte».
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