Sulla strategia mediatica del terrorismo, il CORRIERE della SERA di oggi, 05/04/2009, a pag. 19, pubblica una interessante analisi di Guido Olimpio, alla quale facciamo seguire la cronaca di Ennio Caretto.
Guido Olimpio- " Il leader che rivendica tutto per sentirsi Osama"
WASHINGTON — Baitullah Mehsud è un uomo che non va sottovalutato. È sospettato per l’attentato alla Bhutto, sulla sua testa c’è una taglia di 5 milioni di dollari, gli aerei senza pilota americani lo braccano senza sosta.
Da pochi mesi è diventato il leader della nuova santa alleanza talebana. Una coalizione di estremisti pachistani, afghani, qaedisti. Dunque davvero un personaggio temibile che, malgrado diversi problemi di salute, è in grado di orchestrare le azioni kamikaze. O, ancora, di usare militanti, magari con passaporto europeo, per colpire in Occidente. I segnali ci sono. E forse il presidente Obama pensava a lui quando, in un recente discorso, ha avvertito: «Stanno preparando in Pakistan attacchi contro Usa e Europa».
Per Mehsud si è trattato di un’ulteriore consacrazione del suo ruolo di cattivo. In questi giorni il suo nome oscura il fantasma Bin Laden. Anche su un campo dove Osama ha sempre primeggiato: quello della propaganda. Pochi giorni fa Baitullah ha minacciato imminenti azioni sul territorio americano: colpiremo anche la Casa Bianca. Nel 2007, davanti alle telecamere di Al Jazeera, aveva annunciato «i miracoli della Jihad», ossia attentati a New York, Washington e Londra. Ieri lo ha fatto di nuovo assumendosi la responsabilità della strage a Binghamton sostenendo che sono stati i suoi «uomini» a sparare. Un’uscita che gli ha guadagnato titoli e news dall’Asia all’Europa.
La fanfaronata conferma che Mehsud, non contento di essere nella lista dei Most Wanted, vuole più copertura mediatica. Il sangue che sparge tra Afghanistan e Pakistan, evidentemente, non è sufficiente. E dunque imita Osama e Ayman Al Zawahiri, diventa un professionista della rivendicazione, mette cappello su quello che è avvenuto o su quello che verrà. È successo tante volte nel post-11 settembre. Le bombe di Londra, il famoso blackout di New York, i devastanti incendi in Australia sono divenute occasioni buone per dire «siamo stati noi».
Per anni i talebani hanno visto i mass media, la tv e le radio come qualcosa di demoniaco. Poi hanno capito che per farsi sentire le bombe non bastano, specie se scoppiano in zone dove la violenza è endemica. Serve la parola, la propaganda, il messaggio portato dai Tg, tutte le sere, nelle case dei nemici. E la tecnologia — dai telefoni satellitari a Internet — permettono anche ad un latitante di rubare la scena.
Bin Laden lo aveva compreso da un pezzo. Il suo «ufficio stampa» lavorava già a pieno ritmo con computer e telecamere nel 1996. E il leader rilasciava interviste, tracciava scenari, annunciava guerre. Pochi gli davano retta.
C’è voluto l’attacco alle Torri Gemelle per far cambiare idea a chi lo guardava con sufficienza. Poi è seguito un diluvio di discorsi di Bin Laden, di apparizioni in video, di messaggi registrati. Ma si sa che la troppa esposizione ti brucia. E Osama parlando tanto e facendo poco — in termini di attacchi — è divenuto meno credibile. «Persino irrilevante» affermano alcuni esperti. Mehsud aspira a WASHINGTON — Ha fatto irruzione nella sede dell’American civic association di Binghamton come un terrorista, con due pistole in pugno, il giubbotto antiproiettile addosso, e ha aperto il fuoco all’impazzata, senza pronunciare parola.
Ma Jiverly Wong, il vietnamita naturalizzato americano che ha assassinato 13 persone nel centro d’accoglienza immigrati della pacifica cittadina dello Stato di New York, e si è poi suicidato, non era collegato ai tabebani, come invece rivendicato da un loro leader in Pakistan, Baitullah Mehsud. «Era un folle e un codardo — ha dichiarato il capo della polizia Joseph Zikusky —:aveva preparato la strage, ma quando ha sentito le sirene, si è tolto la vita. Smentisco che sia stato terrorismo».
Che cosa abbia spinto all’eccidio Wong, 41 anni, da 14 in America, non è ancora chiaro. Forse il crollo del suo «American dream», dovuto alla scarsa conoscenza dell’inglese, al suo crescente isolamento, alla perdita negli ultimi anni di tre posti di lavoro, il primo all’Ibm (ma non è certo), il secondo come camionista in California, il terzo al SopVac, una ditta di elettrodomestici, alla ossessione che gli americani gli mancassero di rispetto.
Due ex colleghi, Kevin Green e Donald Ackley, hanno detto al Daily News che «era un solitario che ce l’aveva con il nostro Paese, che parlava solo di armi e ogni sabato andava al tiro a segno, e che una volta minacciò di uccidere il presidente ». «Ci chiedevamo — hanno aggiunto — se sarebbe stato capace di compiere un massacro ». Zikuski non ha fatto ipotesi sui motivi della furia omicida di Wong, che riscuoteva 200 dollari settimanali di disoccupazione e viveva con il padre e la sorella, ma ha spiegato che l’Fbi ne sta tracciando il ritratto psicologico. Ha confermato che possedeva le due pistole da una dozzina di anni, e che fino a marzo aveva frequentato l’American civic association.
Potrebbe essere stata un’atroce vendetta la sua, tanto più assurda in quanto perpetrata contro i suoi pari, che avrebbe fatto molte più vittime se una volontaria del centro, l’italo-americana Shirley DeLucia, ferita al ventre, non avesse simulato la morte e chiamato la polizia. La donna e altri tre feriti gravi ora sono fuori pericolo.
Il centro non chiuderà i battenti. Per l’America e per il mondo degli immigrati — i morti provenivano da 9 Paesi diversi — il trauma è intollerabile. Il mese scorso, in analoghe stragi erano morte 44 persone, 11 in Alabama. A Oakland in California, il 21 marzo, erano già caduti in uno scontro a fuoco con un criminale 4 agenti. Bagni di sangue che stanno costringendo l’America del tempo della crisi finanziaria a interrogarsi sulla sua latente ed esplosiva violenza, e la libertà di circolare armati.
seguire le orme del Maestro, ma per farlo ha bisogno del suo 11 settembre. Intanto uccide nel suo «cortile di casa» e pratica la Jihad della parola.
Ennio Caretto- " Nostra la strage negli Usa, ma l'Fbi non crede ai talebani"
WASHINGTON — Ha fatto irruzione nella sede dell’American civic association di Binghamton come un terrorista, con due pistole in pugno, il giubbotto antiproiettile addosso, e ha aperto il fuoco all’impazzata, senza pronunciare parola.
Ma Jiverly Wong, il vietnamita naturalizzato americano che ha assassinato 13 persone nel centro d’accoglienza immigrati della pacifica cittadina dello Stato di New York, e si è poi suicidato, non era collegato ai tabebani, come invece rivendicato da un loro leader in Pakistan, Baitullah Mehsud. «Era un folle e un codardo — ha dichiarato il capo della polizia Joseph Zikusky —:aveva preparato la strage, ma quando ha sentito le sirene, si è tolto la vita. Smentisco che sia stato terrorismo».
Che cosa abbia spinto all’eccidio Wong, 41 anni, da 14 in America, non è ancora chiaro. Forse il crollo del suo «American dream», dovuto alla scarsa conoscenza dell’inglese, al suo crescente isolamento, alla perdita negli ultimi anni di tre posti di lavoro, il primo all’Ibm (ma non è certo), il secondo come camionista in California, il terzo al SopVac, una ditta di elettrodomestici, alla ossessione che gli americani gli mancassero di rispetto.
Due ex colleghi, Kevin Green e Donald Ackley, hanno detto al Daily News che «era un solitario che ce l’aveva con il nostro Paese, che parlava solo di armi e ogni sabato andava al tiro a segno, e che una volta minacciò di uccidere il presidente ». «Ci chiedevamo — hanno aggiunto — se sarebbe stato capace di compiere un massacro ». Zikuski non ha fatto ipotesi sui motivi della furia omicida di Wong, che riscuoteva 200 dollari settimanali di disoccupazione e viveva con il padre e la sorella, ma ha spiegato che l’Fbi ne sta tracciando il ritratto psicologico. Ha confermato che possedeva le due pistole da una dozzina di anni, e che fino a marzo aveva frequentato l’American civic association.
Potrebbe essere stata un’atroce vendetta la sua, tanto più assurda in quanto perpetrata contro i suoi pari, che avrebbe fatto molte più vittime se una volontaria del centro, l’italo-americana Shirley DeLucia, ferita al ventre, non avesse simulato la morte e chiamato la polizia. La donna e altri tre feriti gravi ora sono fuori pericolo.
Il centro non chiuderà i battenti. Per l’America e per il mondo degli immigrati — i morti provenivano da 9 Paesi diversi — il trauma è intollerabile. Il mese scorso, in analoghe stragi erano morte 44 persone, 11 in Alabama. A Oakland in California, il 21 marzo, erano già caduti in uno scontro a fuoco con un criminale 4 agenti. Bagni di sangue che stanno costringendo l’America del tempo della crisi finanziaria a interrogarsi sulla sua latente ed esplosiva violenza, e la libertà di circolare armati.
Per inviare al Corriere della Sera la propria opinione, cliccare sulla e-mail sottostante.