Un ritratto della Libia di Gheddafi sul FOGLIO di oggi, 04/04/2009, a pag.3 dal titolo " Così la Libia studia per diventare la Dubai del Mediterraneo ". Sarà, ma noi continuiamo a preoccuparci, Gheddafi è sempre uno degli organizzatori di Durban II. E poi Dubai non ci pare un esempio da imitare. Ecco l'articolo:
Tripoli. “La Libia potrebbe essere la nuova Dubai”, giura il costruttore Paolo Ghirelli. Gli ingredienti ci sarebbero tutti: il petrolio, sebbene il prezzo faccia un po’ i capricci, e quindi i capitali, per cominciare. E poi una rete di infrastrutture tutta da inventare, un ceto medio da far nascere per stemperare le tensioni sociali e politiche, un ruolo di cerniera tra Africa ed Europa, reso certamente più complicato dai tragici viaggi degli immigrati, che nessun paese dell’area maghrebina è stato finora in grado di interpretare appieno. C’è, soprattutto, la volontà del regime di Muhammar Gheddafi di uscire dall’isolamento a partire dalla grande finanza. Lo dimostrano due mosse, entrambe rese note dalle autorità libiche nelle ultime settimane. “Abbiamo una liquidità altissima e disponibilità per 80 miliardi di dollari”, ha fatto sapere di recente Abdulhafid Zlitni, uomo chiave della finanza libica al punto da essere al tempo stesso ministro della Pianificazione e presidente della Libyan Investment Authority (Lia), il fondo sovrano di Tripoli. Quei soldi – ha spiegato il ministro libico – potrebbero in parte servire a “entrare in altre banche italiane”. Sulla carta, la somma destinata agli investimenti in Italia è pari a circa 8 miliardi di dollari, un decimo del totale, ma potrebbe salire. Gli obiettivi sono chiari, e li ha spiegati lo stesso Zlitni: “Siamo in Unicredit e c’è stato un piccolo aumento della nostra quota da quando siamo entrati, ma abbiamo dato la nostra disponibilità all’ingresso in altre banche. Molte di esse sono in sofferenza per i problemi che tutti conosciamo, perciò le studiamo con attenzione: può darsi che in questo quadro sia anche desiderio delle stesse banche italiane cercare la nostra collaborazione”. L’iniezione di capitali libici, per qualcuno, potrebbe quindi rappresentare una valida alternativa ai Tremonti bond. La prospettiva è concreta e a confermarlo sarebbe l’interesse del patron di Pirelli, Marco Tronchetti Provera pronto – come rivelato dall’agenzia Reuters – ad accettare la proposta del fondo sovrano ed entrare nell’advisory committee del Lia. La strategia finanziaria Il reclutamento dell’industriale italiano sarebbe soltanto l’ultimo atto di un disegno ormai scoperto. E’ stato il numero due del fondo libico, l’amministratore Mohamed Layas, a rivelare la strategia finanziaria di Tripoli: “Aumenteremo i nostri investimenti immobiliari, puntando soprattutto a edifici commerciali ad alta redditività in varie parti del mondo, dall’Europa agli Stati Uniti”. Lo shopping è già cominciato: qualche settimana fa gli uomini della Libyan Investment Authority, attraverso un mediatore, hanno acquistato un palazzo di uffici a Londra, che nonostante la crisi resta il centro finanziario più rilevante per tutti gli operatori mediorientali. E per diversificare le proprie attività, il fondo sovrano libico ha da poco varato due fondi sussidiari: uno, in accordo con il fondo d’investimento statale del Qatar, per aggredire i mercati occidentali; l’altro, autonomo, nato con l’obiettivo dichiarato di investire (e avere un ruolo di primo piano) in Africa grazie a grandi affari nel turismo, nelle comunicazioni, nello sviluppo agricolo e nel settore estrattivo in tutto il continente. Fin qui l’attivismo verso i mercati esteri, ma che l’interesse per la Libia venga anche da altri paesi – e non soltanto dall’Italia – è altrettanto palese. Pochi mesi fa, in una tenda riccamente adornata non lontano da Tripoli, sono stati avvistati due grandi nomi della finanza americana: sul finire del 2008, come ha raccontato di recente il Financial Times, il direttore del fondo Carlyle, David Rubenstein, e l’amministratore di Blackstone, Steven Schwarzman, sono stati ospiti a una festa di nozze. Non si trattava di un matrimonio qualunque, ma dello sposalizio di Mustafa Zarti, potente vicedirettore del fondo Lia. Rubenstein era lì per un pegno di riconoscenza: in un momento di crisi, il fondo libico aveva da poco scelto di confermare l’investimento da centinaia di milioni di dollari in Carlyle deciso prima dello scoppio della crisi finanziaria mondiale. Il numero uno di Blackstone – che a novembre aveva dato una cena nel suo attico newyorchese in onore del giovane Saif al Islam Gheddafi, figlio del colonnello – deve aver accettato l’invito sperando di potere, a sua volta, essere riconoscente nei confronti di Zarti. Come i manager di Goldman Sachs Asset Management, che di recente hanno ricevuto centinaia di milioni di dollari dal fondo libico per sviluppare un audace schema di finanziamenti in Kuwait. La grande novità è rappresentata soprattutto dalla prossima apertura del settore bancario ai capitali stranieri. Ad annunciarla è stato recentemente il governatore della Banca centrale libica, Farhat Bengdara, che ha fissato al 2010 il via al piano per la privatizzazione delle licenze bancarie del paese. “Abbiamo deciso l’apertura in base ai nostri studi sul mercato”, ha fatto sapere Bengdara, aggiungendo però che “sono ancora da stabilire i criteri di ingresso degli investitori stranieri”. Non si tratta peraltro del primo segnale di apertura. Due anni fa, i francesi di Bnp Paribas – che in Italia controllano la Banca nazionale del lavoro – sono entrati con una quota rilevante nel capitale di Sahara Bank, il cui azionariato è finora in maggioranza statale. La liberalizzazione delle licenze avrebbe, tra le conseguenze, la possibilità per i francesi di salire fino al 51 per cento delle quote. Anche i giordani di Arab Bank, l’anno scorso, si sono decisi a sbarcare in Libia acquistando il 19 per cento di un’altra banca a partecipazione statale, la Wahda Bank. Il governatore della Banca di Libia ha annunciato l’avvio della privatizzazione dell’ultimo istituto di credito ancora completamente in mano pubblica: la Gumhuriya Bank, della quale sarà ceduto entro aprile il 15 per cento. Ma l’obiettivo è arrivare a una cessione completa, per gradi, dell’istituto. In un paese ricchissimo di materie prime e all’inizio del processo di apertura ai mercati, la liberalizzazione bancaria potrebbe trasformarsi nel volano per l’arrivo di ingenti capitali stranieri in grado di mutare la fisionomia della Libia. A sostenere l’arrivo del capitalismo occidentale – in questa fase in affanno e alla costante ricerca di nuove occasioni di rilancio – potrebbe essere anche la decisione dell’agenzia Standard& Poor’s, che a marzo ha attribuito un rating molto elevato (A-) al paese, il migliore in Nordafrica e il secondo in tutto il continente, lo stesso che in Europa possono vantare Grecia e Polonia. I partner italiani In Italia sono tre gli attori che potrebbero approfittare, prima degli altri, del grande attivismo finanziario libico. C’è Unicredit, che ha ormai da tempo un rapporto consolidato con il fondo sovrano Lia, presente con una quota superiore al 4 per cento nel capitale della banca guidata da Alessandro Profumo. C’è Eni, presenza importante in tutti i paesi produttori di petrolio, ma che ha nel fondo libico anche uno dei suoi azionisti: “Vogliamo salire nel capitale di Eni – ha fatto sapere qualche giorno fa il presidente del fondo, Zlitni – La società italiana vuole investire in Libia 15 miliardi di dollari in petrolio, gas e infrastrutture, e vuole incrementare la capacità del gasdotto Greenstream. Intendiamo incrementare la nostra quota, di quanto dipenderà dai prezzi e dalle circostanze”. Le novità sono arrivate al termine di una due giorni libica in Italia, ospite d’onore in questi giorni della Fiera internazionale di Tripoli. I responsabili della finanza libica hanno posto le basi – sulla scorta dell’accordo bilaterale siglato nei mesi scorsi dal premier Silvio Berlusconi e dal leader libico Muhammar Gheddafi – per un partenariato privilegiato tra i due paesi, con una zona franca per le imprese italiane che vorranno insediarsi in Libia e una corsia di favore per gli appalti, come ha confermato il ministro dello Sviluppo, Claudio Scajola, in missione in Libia. Protagonista degli scambi economici tra Italia e Libia sarà Mediobanca, anche grazie al ruolo di mediatore che il socio e consigliere Tarak Ben Ammar si è ritagliato. La banca d’affari guidata da Cesare Geronzi sarà di fatto l’advisor di Tripoli, in grado di guidare gli investimenti nel nostro paese e di creare le sinergie adeguate anche grazie alla costituzione di un fondo comune di investimento che potrebbe anche superare i 300 milioni di euro. Tra le partite aperte, c’è quella dei lavori pubblici in Libia: l’appalto principale è quello per la costruzione dell’autostrada costiera del Nordafrica, che correrà dal Marocco all’Egitto. Scajola ha inoltre ipotizzato un co-finanziamento del valico ferroviario sulla Milano-Genova, visto che il porto ligure è la principale porta di accesso all’Europa per i business libici. Aziende italiane hanno già interessi nei tronconi degli altri paesi, come Algeria e Tunisia, ma in Libia l’Italia potrebbe avere un ruolo di prima fila. Anche perché quell’opera sarà finanziata con parte del fondo da 3,5 miliardi di euro che il nostro paese pagherà alla Libia come indennizzo per i danni di guerra e del periodo coloniale. L’arrivo di investitori stranieri, lo scambio di capitali e la nascita di un “capitalismo del popolo in grado di aumentare la ricchezza dei libici” (così l’ha definito il governatore Bengdara) potrebbe aprire la strada a nuove opere e a una nuova vocazione turistica per la Libia, dopo l’apertura di un paio di villaggi turistici a gestione italiana negli ultimi tre anni. Le premesse per realizzare la Dubai del Mediterraneo ci sono. Le motivazioni pure: più ricchezza e più lavoro sarebbero l’antidoto perfetto per devitalizzare le spinte, sempre più forti, del fondamentalismo islamico. Spinte che rischiano di mettere in crisi il sistema di potere consolidato negli anni dal clan Gheddafi.
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