Tre articoli sul governo Netanyahu Le analisi di Carlo Panella, Giulio Meotti, l'intervista a Benny Morris di Francesco Battistini
Testata: Il Foglio Data: 03 aprile 2009 Pagina: 3 Autore: Carlo Panella - Giulio Meotti - Francesco Battistini Titolo: «Who is Bibi? Un premier instabile sotto pressione esterna / 1 - Who is Bibi? Il realista che ha ceduto Hebron “la santa” / 2 - I politici israeliani diffidano di Avigdor ma la pancia del Paese la pensa come lui»
Sul governo Netanyahu riportiamo dal FOGLIO, a pag. 3, l'articolo di Carlo Panella dal titolo "Who is Bibi? Un premier instabile sotto pressione esterna / 1 " e quello di Giulio Meotti dal titolo " Who is Bibi? Il realista che ha ceduto Hebron “la santa” / 2 " e, dal CORRIERE della SERA, a pag. 18, l'intervista di Francesco Battistini a Benny Morris dal titolo " I politici israeliani diffidano di Avigdor ma la pancia del Paese la pensa come lui "
Il FOGLIO - Carlo Panella : " Who is Bibi? Un premier instabile sotto pressione esterna / 1 "
Roma. Il fascino della democrazia israeliana è tutto in un elemento cruciale su cui raramente si riflette: Israele è l’unico paese in guerra del mondo – ed è permanentemente in guerra – che privilegi in maniera quasi ossessiva il criterio di rappresentanza politica degli elettori, a danno e discapito di qualsiasi esigenza di governabilità. I premier israeliani devono letteralmente lottare contro un sistema elettorale proporzionale puro, purissimo, che permette l’elezione in Parlamento di rappresentanti di settori marginalissimi dell’elettorato. Bibi Netanyahu, col suo nuovo esecutivo, è oggi la rappresentazione plastica delle conseguenze di questa opzione: una coalizione di ben sei partiti costretta a gonfiarsi sino a 39 ministri. Un governo caratterizzato da un’instabilità interna dirompente e per di più segnato da una convivenza tra un ministro degli Esteri come Avigdor Lieberman e un ministro della Difesa come Ehud Barak dalle strategie letteralmente divergenti. Questa caratteristica è fondamentale – ben più delle confuse linee di politica estera di Lieberman – per ipotizzare un nulla di fatto, nel medio periodo, sul fronte delle trattative con i palestinesi. Come ben scoprì Barak sulla sua pelle nel 2000 a Camp David, un accordo decente con i palestinesi comporta rinunce dolorosissime da parte di Israele, le più difficili, perché toccano la carne delle mura millenarie di Gerusalemme (che nel 2000 Barak promise in tutta la sua parte araba, fatto salvo il solo quartiere armeno e – naturalmente – quello ebraico, ad Arafat). Ma queste rinunce possono essere chieste solo da un esecutivo forte. E qui entra in campo il secondo fattore di instabilità, che possiamo chiamare “omerico”. Solo il grande guerriero, che del combattimento ha conosciuto la polvere e il fetore di morte, non solo la gloria, può dare garanzia al popolo d’Israele (o al popolo arabo) che le rinunce devono essere fatte, solo chi ha versato sangue e dissanguato il nemico, può voltare pagina. Questa è stata la vicenda umana – e la morte – di Anwar al Sadat, di Menahem Begin, dello stesso MoshE Dayan in vecchiaia, di Ariel Sharon. Ma nessun eroe omerico controlla questo esecutivo israeliano e l’unico che ha una caratura che vi si avvicina, Ehud Barak, sconta un clamoroso errore e una sfortunata sconfitta. L’errore fu il modo – non la scelta in sé – con cui ritirò Israele dal sud del Libano regalandolo a Hezbollah e la sfortuna fu l’esito della trattativa con Arafat del 2000. Su questo terreno instabile, Nethanyau, più ancora di Lieberman, ha aggiunto ulteriore confusione. Nel suo discorso sulla fiducia – e poi, ma in seconda battuta, nella sconfessione di Annapolis da parte di Lieberman – è risaltata infatti una svolta, ben più grave della mancata citazione dello stato di Palestina. Per la prima volta da decenni un premier israeliano dimostra di non avere nessun interesse a rafforzare la leadership nazionalista incarnata da Abu Mazen a discapito di quella apocalittica e messianica di Hamas. Questa è stata la logica degli accordi di Camp David siglati da Begin nel 1979, poi di Ytzak Rabin, di Simon Peres, di Ariel Sharon, di Ehud Olmert. Oggi, invece, la coppia Nethanyau-Lieberman pare intenzionata a fare di tutto – cosciente o incosciente che sia la scelta – per togliere consenso sotto i piedi ad Abu Mazen, dando forza a Hamas e alla sua stessa opposizione interna capeggiata dal pluriergastolano Marwan Barghouti. Il tutto indebolendo le già scarse attitudini alla mediazione del Cairo e di Riad. Ovviamente, può trattarsi solo di una spinta inerziale della campagna elettorale, ma se i prossimi passi del governo continueranno in questa direzione, se verrà abbandonata ogni tattica nei confronti degli arabi, nel nome di una confusa strategia, è facile pronosticare che l’instabilità interna sarà moltiplicata da un’insopportabile pressione esterna e si vedrà se Livni ha fatto una scelta miope o no a non entrare nel gioco.
Il FOGLIO - Giulio Meotti :" Who is Bibi? Il realista che ha ceduto Hebron “la santa” / 2"
Roma. “Viviamo in un’era in cui dobbiamo riconoscere che non possiamo sempre realizzare i nostri sogni”. Così parlava Bibi Netanyahu quando nel 1998 fu incaricato di formare il governo d’Israele. Anche stavolta, al secondo mandato, Netanyahu si impone come un falco pragmatico. Ha le credenziali militari per guidare il paese, in quanto ex corpo speciale della Sayeret Matkal, la più prestigiosa unità dell’esercito allora comandata da Ehud Barak, oggi ministro della Difesa. A differenza dei padri fondatori d’Israele, Netanyahu è il mito “made in America”. La sua istruzione è tutta americana, è stato ambasciatore di Israele all’Onu, suo padre insegnava a Philadelphia, è stato commentatore della Cnn e tiene in gran conto l’opinione diWashington. Perfino il New York Times pochi giorni fa ha titolato sul “falco tentato dal pragmatismo”. E anche Daniel Pipes, islamologo conservatore, teme il realismo di Netanyahu. Ieri però un bambino israeliano di sette anni di Bat Aiyn è stato ucciso a colpi d’ascia da un palestinese, difficile prevedere le conseguenze. “C’è un divario fra quello che Netanyahu dice e quello che fa”, spiega Vittorio Dan Segre, a lungo diplomatico israeliano. “Bisogna attendere i fatti. Come diceva Ariel Sharon, le cose si vedono diversamente quando si è all’opposizione e al governo. Netanyahu è abile, ma non ancora un uomo di stato”. Quando fu eletto la prima volta, i coloni dichiararono morto il processo di pace. Poco dopo fu lo stesso Netanyahu a stringere la mano ad Arafat e a firmare l’accordo che consegnava l’80 per cento di Hebron “la santa” ai palestinesi, la città dove sono sepolti i patriarchi ebrei. Netanyahu fu bollato come “boged”, traditore. A garanzia del pragmatismo c’è l’esclusione dal governo dei nazionalisti di National Union e la volontà di formare un esecutivo di unità nazionale. Cresciuto all’ombra della memoria del fratello “Yoni”, la fama di duro di Netanyahu è legata agli “sciusciuisti”, quelli che fanno “sh”, per invitare al silenzio, l’unità Sayeret Matkal, ma soprattutto al motto “se daranno riceveranno”. Che sia un realista ne è convinto anche l’ex ambasciatore all’Onu Dore Gold. “Il Likud è passato dall’essere rigidamente impegnato a mantenere la terra di Israele a conservare pragmaticamente i suoi confini in un medio oriente instabile”. Il 20 maggio 1998, Thomas Friedman scrisse un articolo dal titolo “Who is Bibi?”. Vi spiegava che Netanyahu voleva fare come Nixon in Cina ma restare anche membro della John Birch Society, il bastione dell’anticomunismo. Friedman sosteneva che Bibi aveva tre opzioni, di cui le prime due impossibili: non trattare con i palestinesi ma non deteriorare le relazioni con gli americani; trovare un accordo magico che soddisfasse i palestinesi e la destra della coalizione e un accordo con i palestinesi che lo conducesse a uno scontro con i nazionalisti o a formare un governo di unità nazionale. Non è cambiato nulla da allora. Netanyahu è un politico di gomma e l’erede perfetto di quell’altro straordinario portavoce di Israele che fu il laburista Abba Eban. Di Netanyahu si può dire quello che fu detto di Eban, “a master weaver of words”, maestro tessitore di parole. Ripete che non vuole dominare un singolo palestinese e la questione degli insediamenti la affronta come tutti gli altri premier. E poi gli insediamenti nascono a sinistra e hanno sempre avuto in laburisti come Levi Eshkol e Shimon Peres i propri beniamini. Il padre del Likud, Vladimir Jabotinski, e i suoi eredi non hanno costruito una sola colonia. Il Jerusalem Post scrive che sono state edificate più colonie sotto Barak che durante Sharon, Olmert e Netanyahu. Netanyahu si è impegnato a rispettare gli accordi presi dai governi precedenti e cercherà di guadagnare tempo, come è sempre stata tradizione della destra. Fu la grande teoria di Yitzhak Shamir: lasciare che gli arabi si fregassero da soli.
CORRIERE della SERA - Francesco Battistini : " I politici israeliani diffidano di Avigdor ma la pancia del Paese la pensa come lui ", intervista a Benny Morris.
GERUSALEMME —Professor Morris, quanto può durare un governo che comincia così? «Dipende dalla polizia, più che dalla politica. Stanno uscendo prove dall’inchiesta contro Lieberman. Se sarà rinviato a giudizio, dovrà dimettersi, perché questa non è giustizia a orologeria: da noi è una cosa seria e colpisce Lieberman, Olmert, Katsav, senza distinzioni. Il governo Netanyahu non cadrà. Ma certo cambierà». L’effetto Lieberman si sente soprattutto nelle parole di Benny Morris, lo storico israeliano. Anticamente (molto anticamente) in rotta col Likud, poi passato a posizioni vicine alla destra, ora è quasi un apologeta della figura di Bibi Netanyahu, specie se comparata al suo ministro degli Esteri: «Non ho paura di quando Bibi parlerà con Obama o con l’Europa. Ho paura di Lieberman. Perché è lui a non avere paura di dire sciocchezze. È il suo problema: un capo della diplomazia che si compiace di non essere diplomatico. Prevedo imbarazzi e sconforto generali». Anche lei sta con quella parte di Paese che ha taciuto su Gaza, ma ora si dissocia? «Non sono d’accordo su questa lettura. Su Gaza, la maggioranza era d’accordo e lo è ancora, perché Hamas vuole distruggere Israele. Le intemperanze di Lieberman sono un’altra cosa. Ha 13 deputati, il 10 per cento. Questo significa che lui non rappresenta la politica israeliana. Però rappresenta il pensiero di molti». Non è una contraddizione? «No. Quando dice che non ci si può fidare degli arabi, sarà brutale, ma dice quel che ben più del 10 per cento pensa. Per questo il suo peso è maggiore dei consensi che riceve nell’urna ». Da Peres alla Livni, comincia l’opposizione. «Peres non può dire più di tanto, perché è il presidente. La Livni ha taciuto finché stava trattando per il governo. Ora che è fuori, parla più chiaro». Tzipi spera d’incassare a breve? «Fa male i suoi conti. Ha gravemente sbagliato a non entrare nel governo, era nell’interesse nazionale avere il Kadima con Netanyahu: c’era bisogno di lei e del suo buon rapporto con gli Usa. Un governo di centrodestra è più apprezzato, all’estero, d’un governo di destra-destra. Molti si sentono traditi, perché solo lei poteva risparmiarci Lieberman. Pagherà caro questa sua scelta, in termini di voti». E i laburisti di Barak? «Non possono che tacere. Stanno al governo, gli egiziani li hanno indicati come i soli presentabili. Ma non so se Netanyahu accetterà di lasciare a Barak questo ruolo d’interlocutore con gli arabi».
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