Elezioni in Turchia : Erdogan ha vinto, ma la percentuale dei voti in suo favore dimostra che sta perdendo consenso. Ne parlano i quotidiani italiani di oggi, 30/03/2009. Riportiamo dal CORRIERE della SERA, a pag. 15 cronaca e analisi di Antonio Ferrari titolate " Erdogan, trionfo mancato Il partito di governo arretra " e " ' Il primo ministro odia le critiche Non riuscirà a tapparci la bocca' ". Ecco gli articoli :
" Erdogan, trionfo mancato Il partito di governo arretra "
ISTANBUL — In Turchia, terra di contraddizioni e paradossi, si può vincere perdendo e si può perdere vincendo. Il partito islamico moderato della Giustizia e dello sviluppo (Akp) vince le elezioni amministrative con un indubbio e robusto vantaggio. Vince il partito quindi, ma non convince — ed è la prima volta — il suo leader. Recep Tayyip Erdogan aveva caricato il voto di un'altissima valenza politica, spendendosi in prima persona in tutte le province, e trasformando la consultazione in una specie di referendum. Se questa era l'intenzione si può parlare di una sconfitta. Anche se in serata Erdogan si consola: «Non siamo soddisfatti, ma abbiamo più voti dei due partiti di opposizione messi assieme».
L'affermazione dell'Akp, che era scontata, ha uno sgradevole sapore amarognolo per il grintoso primo ministro, che pensava a un sostegno più ampio ed era quasi sicuro di un trionfo, come sussurravano compiaciuti i collaboratori. Erdogan voleva superare la soglia di quel 46,65 per cento che fu l'esaltante risultato delle ultime elezioni politiche, nel 2007. Invece, ha ottenuto meno voti addirittura rispetto alle elezioni amministrative di cinque anni fa, perdendo il controllo di alcune città.
Aver sottovalutato la portata della crisi economica globale («Non preoccupatevi — ripeteva nei comizi —. Ci sfiorerà soltanto»), non aver voluto ascoltare il grido di dolore della Confindustria, dei sindacati e del-l'esercito dei nuovi disoccupati, lo ha duramente penalizzato. Perché ora dovrà fare i conti con una realtà diversa da quella che il suo contagioso ottimismo aveva immaginato, salvo un tardivo ripensamento negli ultimi giorni, quando i morsi della crisi erano diventati dolorosi.
Per sua fortuna, non esiste un leader dell'opposizione forte, autorevole, e in grado di calamitare il dissenso. Il Partito repubblicano del popolo, la storica formazione fondata da Kemal Atatürk, tiene le posizioni. E la destra Mhp, che sperava di avanzare, cresce di poco. È pur vero che la pletora delle liste (21) ha favorito la dispersione. Però nel Sudest non è stato disperso il voto del Partito democratico curdo, nonostante gli sforzi del premier che aveva inviato 144.000 lettere sostenendo che solo l'Akp poteva risolvere i problemi della minoranza. La promessa ha ricevuto un sonoro ceffone.
Erdogan ha cercato di compensare, con il carisma, la mancanza di una solida strategia. E ha sbagliato i conti: per arroganza, ingenuità o forse una sorprendente carenza di sensibilità nel cogliere gli umori della gente. È stato freddo alle richieste di garanzie del Fondo monetario internazionale, disponibile a concedere nuovi prestiti. Ha continuato, infatti, a posporre la data della riunione decisiva. Forse sperava di ottenere sostegno finanziario dal mondo arabo. Senza rendersi conto che, nonostante le sparate durante e dopo la guerra di Gaza («Israele dovrebbe essere espulso dall'Onu»), la lite con Shimon Peres a Davos, le missioni nel Qatar, la presunzione di diventare il mediatore di tante crisi e di sedurre l'Arabia saudita, non c'era molto da raccogliere. Probabilmente aveva sottovalutato che la tenaglia della crisi stava prosciugando anche i proventi petroliferi del mondo arabo.
Un segnale della tensione che si respirava ieri in Turchia è venuto da una serie preoccupante di gravi incidenti. Non è stato un voto tranquillo: scontri, sparatorie, 6 morti e 100 feriti. Non accadeva da trent'anni, dai tempi dell'ultimo colpo di stato militare.
" Il primo ministro odia le critiche Non riuscirà a tapparci la bocca "
ISTANBUL — Che i giornalisti siano spesso indigesti al potere è noto e ovvio. Ma che un primo ministro in carica, nella sua guerra a un gruppo editoriale che non gli risparmia critiche, si spinga a invitare pubblicamente i suoi connazionali a boicottare i giornali che gli danno fastidio, con un tocco finale di pessimo gusto — «Condannateli alla povertà!» — durante un comizio elettorale, è francamente troppo. Il capo del governo turco Recep Tayyip Erdogan ha un pessimo carattere, anche se è dotato di indubbio carisma, tanto da saper vincere un'elezione dopo l'altra. Ma le sue crociate e le sue sparate stanno scuotendo il Paese e non solo. Visto che anche la Commissione europea e il Parlamento di Strasburgo hanno alzato la testa, turbati per le violazioni della libertà di stampa. Molti ora si chiedono se Ankara non stia deragliando pericolosamente dal binario che dovrebbe condurla nella Ue. Il nemico numero uno del premier è l'impero editoriale di Aydin Dogan, un industriale di successo che pubblica Hurriyet e Mil-liyet,
possiede la Cnn-Turk oltre ad altre decine di media, che ha allargato il business con la più grande compagnia petrolifera del Paese, con agenzie di viaggi, autosaloni e assicurazioni. Un magnate potente, ma troppo fiero e indipendente, soprattutto grazie alla disinvoltura dei suoi giornali. Che oggi sono sotto schiaffo.
Mehmet Ali Yalcindag, genero di Dogan (ha sposato sua figlia Arzuhan, presidentessa della confindustria turca), è amministratore delegato della holding che controlla i mass media del gruppo. È un giovane brillante, deciso e riflessivo, ed è pronto ad affrontare la «guerra» con la forza della ragione. «I lettori sono con noi. Da quando sono cominciati gli attacchi del premier, le vendite sono aumentate del 10 per cento», dice nel salotto dalla sua villa, nel quartiere asiatico di Istanbul.
Ma che cosa avete fatto di tanto grave a Erdogan, da trasformarlo in nemico incontenibile? «Vede, il nostro gruppo è laico ma a noi è sempre stata a cuore la stabilità della Turchia. Quando Erdogan è arrivato al potere, era un leader entusiasta. Apprezzavamo e sostenevamo quei cinque impegni fondamentali che aveva annunciato: lo spedito cammino verso la Ue, le riforme economiche, quelle democratiche, la lotta al terrorismo, la questione di Cipro. Però, da quando ha fatto il bis, trionfando nelle elezioni politiche di due anni fa, è profondamente cambiato. Si è indurito. Attacca sistematicamente chi si permette qualche critica, come quella di controllare il 50 per cento dei mass media del Paese. Suo genero è al vertice del secondo impero editoriale della Turchia. Non sopporta dagli altri alcun rilievo. Così è cominciata la persecuzione. Esplosa con la vendita del 25 per cento delle azioni della nostra holding televisiva al gruppo tedesco di Axel Springer».
Il racconto è meticoloso e insieme surreale: «Speravamo, anche per ragioni di bilancio, che la vendita avvenisse alla fine del 2006. Eravamo sotto Natale e il gruppo Springer, che doveva trasferire nelle nostre casse 375 milioni di euro, ci chiese di poter "chiudere" all'inizio del 2007. Così è stato. Abbiamo concluso e pagato le tasse. A quel punto è cominciata la guerra della burocrazia. L'accusa è frode. In attesa della sentenza ci hanno congelato azioni e conti. Cosa si vuole? Portarci alla bancarotta?».
C'è insomma aria di una velenosa vendetta politica. «Anche perché, nel 2008, i nostri giornali hanno pubblicato le notizie giudiziarie che arrivavano dalla Germania, e che riguardavano l'inchiesta sui fondi raccolti da un'organizzazione umanitaria. Fondi che in parte sono finiti in canali diversi da quelli per cui erano stati raccolti. Non è difficile immaginare dove. Il primo ministro, a quel punto, ha alzato il tiro e la guerra si è intensificata». Senza esclusione di colpi. «Noi — dice Yalcindag — rivendichiamo il diritto alla nostra libertà. Di criticare chi guardava a Ovest mentre oggi guarda a Est; chi sembra allontanarsi dall'impegno europeo; chi pronuncia accuse assai gravi e sconvenienti contro Israele con l'obiettivo di sedurre gli oltranzisti. Così la Turchia rischia davvero di tornare indietro».
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