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Il Foglio Rassegna Stampa
28.03.2009 Islam e libertà di fede. Possibile ?
l'articolo di Maurizio Stefanini

Testata: Il Foglio
Data: 28 marzo 2009
Pagina: 2
Autore: Maurizio Stefanini
Titolo: «Punto per punto, ecco i paesi islamici dove non esiste alcuna libertà di fede»

"Scontro di civiltà " sarà anche una espressione forte, ma rende bene l'idea. E' possibile la libertà di fede nell'islam ? Ecco i risultati di un convegno, nell'articolo di Maurizio Stefanini sul FOGLIO di oggi, 28/03/2009, a pag.2, dal titolo " Punto per punto, ecco i paesi islamici dove non esiste alcuna libertà di fede ":

Roma. Per capire perché c’è chi dice che è arrivato il momento per la chiesa di preparare un documento che ponga i necessari paletti al dialogo con l’Islam è sufficiente dare uno sguardo ad alcuni casi di scarsa libertà di fede nel mondo islamico denunciati in questi giorni a Roma al convegno “Libertà religiosa e reciprocità”. C’è il caso del vescovo di Rabat, capitale di quel Marocco che è certamente uno dei paesi più aperti e tolleranti del mondo islamico, che non può leggere neanche in chiesa le parole “andate in tutti il mondo, predicate il Vangelo a ogni creatura”, perché così facendo violerebbe le leggi che vietano il proselitismo non islamico. C’è la storia della Swissair, cui nel 1978 l’Arabia Saudita ordinò di atterrare di notte e con le luci abbassate per non far vedere troppo quella croce bianca in campo rosso che è simbolo nazionale elvetico, ma anche emblema di cristianità di cui la monarchia wahabita non tollera l’ostentazione. Ci sono i cristiani della Malaysia, cui è vietato usare il nome malese di Dio. C’è la Turchia, che mentre cerca di entrare in Europa mantiene la legge dei tempi di Maometto II secondo cui sulla pubblica via non possono aprirsi luoghi di culto che non siano moschee… Questi non sono che alcuni dei casi di non libertà di fede nel mondo islamico denunciati al convegno “Libertà religiosa e reciprocità”, che si è tenuto giovedì e venerdì presso la Pontificia Università della Santa Croce a Roma, con l’autorevole apertura dello stesso Presidente del Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso Cardinale Jean- Louis Tauran. Più che le persecuzioni feroci, a colpire è la bizzarria di queste vessazioni da parte di governi normalmente considerati come laici, moderati o comunque filooccidentali. In particolare, come ha ricordato nella sua relazione sulle libertà religiose nei paesi musulmani il docente al Pontificio Istituto di Studi Arabi e d’Islamistica Padre Maurice Borrmans, sono proprio quei cinque paesi dell’Africa del nord da cui viene uno dei più grossi contingenti di immigrati in Europa, là dove “i cristiani non sono a casa propria”. Spontanea la domanda: perché dobbiamo noi riconoscere diritti agli islam islamici in casa nostra, se prima loro non cominciano a riconoscerli ai cristiani in casa loro? Come ha spiegato Monsignor Tauran, con la “Pacem in terris” di Giovanni XXIII e soprattutto con l’“Ecclesiam Suam” di Paolo VI, “la Chiesa propone il dialogo con l’umanità”. Ma “è un’offerta la cui condizione di possibilità si fonda sul reciproco e leale rispetto”: “Il Papa lascia chiaramente intendere che la chiesa può anche non offrire il dialogo là dove le condizioni non sono espressamente manifeste”. Tra i molti interventi successivi c’è stato quello con cui a Casablanca il 19 agosto 1985 Giovanni Paolo II spiegò alla gioventù musulmana che “il rispetto e il dialogo richiedono dunque la reciprocità in tutti i campi soprattutto in ciò che concerne le libertà fondamentali e più particolarmente la libertà religiosa”. E quello del 20 agosto 2005 di Benedetto XVI ai musulmani di Colonia: “L’unica via che può condurre alla pace e alla fraternità è quella del rispetto delle convinzioni e delle pratiche religiose altrui, affinché, in maniera reciproca, in tutta la società sia realmente assicurato per ciascuno l’esercizio della religione liberamente scelta”. Come riconosce però Tauran, “è vero che Papa Benedetto XVI ha parlato di ‘principio di reciprocità’ ed è senz’altro un progresso, ma a tutt’oggi non dispone né di una illustrazione approfondita di tale principio, né di indicazioni concrete per una sua applicabilità”. “Sembrerebbe quindi opportuno che la chiesa precisi l’autentico senso che essa ascrive alla reazione di reciprocità nell’ambito dell’interreligioso e indichi norme chiare che sanciscano con precisione ambiti di applicabilità di tale principio, i limiti invalicabili da salvaguardare nei paesi di tradizione musulmana, nonché le strade da percorrere là dove i cattolici soffrano ingiustificate situazioni di difficoltà”. Naturalmente, non è solo un problema di Islam. Borrmans e il vaticanista Marco Tosatti hanno ricordato come i cristiani abbiano spesso problemi anche in terre indù e buddhiste. E il primate d’Ungheria Cardinale Péter Erdö ha spiegato il paradosso per cui funzionano meglio gli accordi di reciprocità tra cattolici, calvinisti e luterani in Ungheria, per permettere agli studenti di una scuola confessionale appartenenti ad altre fedi di fare l’ora di religione con i proprio sacerdoti; che non quelli sui matrimoni misti tra vari riti della stessa chiesa cattolica, con quello latino che permette a entrambi i coniugi di passare al sui iuris dell’altro, e quelli orientali lo consentono solo alla moglie. Come ha sottolineato nel suo intervento il docente alla stessa Università della Santa Croce Padre José Martín de Agar, reciprocità non può significare il negare diritti ai musulmani residenti in Occidente per rappresaglia. Francesco D’Agostino, professore a Tor Vergata, ha però pure ricordato che “il mutuum date, nihil inde sperantes del Vangelo (Lc, 6.35) non è un invito a dilapidare in prestiti insensati il proprio patrimonio, ma un’indicazione preziosa”. E altri due professori, quello di Roma Tre Carlo Cardia e quello della Pontificia Università Lateranense Vincenzo Buonuomo, hanno osservato come fra tante dichiarazioni universali di diritti manchi quella sulla libertà religiosa: il progetto del 1967 fu infatti bloccato dalla resistenza per opposti motivi di paesi comunisti e islamici, e sostituito nel 1981 da un altro documento che interpreta il problema in termini di non discriminazione. Dunque, inserendolo in un particolare ambito di diritto alla tutela della propria identità culturale, che da un lato si presta all’interpretazione islamica secondo cui non contemplerebbe il diritto al proselitismo e a cambiare religione; dall’altro giustifica la richiesta di applicare la Sharia in occidente, nello spirito fatto proprio perfino dall’Arcivescovo anglicano di Canterbury. Altro che negare dunque diritti ai musulmani per rappresaglia: qui li si nega alle donne musulmane cittadine di uno stato di diritto europeo, in nome di un malinteso senso del rispetto per le culture altrui!

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