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Il Foglio Rassegna Stampa
26.03.2009 Sulla politica estera di Obama
Le analisi di Carlo Panella e Giorgio Israel, un editoriale dal Foglio

Testata: Il Foglio
Data: 26 marzo 2009
Pagina: 2
Autore: Carlo Panella - Giorgio Israel
Titolo: «In gioco Israele - La politica americana dell’adulazione del nemico rischia di rafforzare gli antisemitismi europei - La guerra al terrorismo è finita»

Dal FOGLIO di oggi, 26/03/2009, a pag. 2, riportiamo l'analisi di Carlo Panella dal titolo " In gioco Israele "  a pag. II, l'analisi di Giorgio Israel dal titolo " La politica americana dell’adulazione del nemico rischia di rafforzare gli antisemitismi europei " sulla politica estera statunitense, a pag. 3 l'editoriale dal titolo " La guerra al terrorismo è finita ". Ecco gli articoli :

Carlo Panella : " In gioco Israele "

Roma. La stupefacente improntitudine con cui media politically correct hanno sostenuto che – nonostante le apparenze – l’ayatollah iraniano Khamenei ha sostanzialmente accettato la proposta di trattativa lanciata da Barack Obama, è superata da una ancora più stupefacente attitudine che hanno lasciato trapelare nei confronti di Israele. Sarebbe peraltro bastata una rapida consultazione agli archivi per scoprire che Khamenei non si è mosso di un millimetro dalla linea oltranzista dell’Iran. Il 28 luglio 2008, infatti, mentre a Ginevra i 5 più 1 presentavano all’Iran le proposte sul nucleare, Mahmoud Ahmadinejad ha fatto una mossa (poi copiata da Obama) e in un’intervista a Brian Williams della Nbc ha comunicato agli americani che apprezzava il “comportamento nuovo della Casa Bianca che può portare a risposte positive dell’Iran. La domanda adesso è se questa sia una continuazione del vecchio approccio, o un approccio del tutto nuovo. Se è la continuazione di quello vecchio, il popolo iraniano deve difendere i propri diritti e i propri interessi. Ma se l’approccio cambia, la risposta da parte del popolo iraniano sarà positiva”. Come si vede, George W. Bush ha già tentato un’apertura seria (e non televisiva) nei confronti di Teheran e la risposta di Khemenei di oggi ha la stessa, identica, struttura logica, quasi le stesse parole di quella di dodici mesi fa di Ahmadinejad. Nel frattempo però la “disponibilità iraniana” è stata tale che ormai è l’Aiea, in passato sempre attenta a mostrarsi neutrale e imparziale, a lanciare continui allarmi circa la pericolosità del programma nucleare iraniano. Detto questo, desta impressione in tanti commenti di politici e consulenti dell’amministrazione Obama l’attitudine ad “aprire il tavolo” discutendo nel merito i dossier proposti da Khamenei. E’ infatti escluso che Obama possa accettare di discutere dei traffici d’armi di Teheran che – dopo l’episodio della Karine A del 2002 – sono tornati d’attualità, con la nave irano-cipriota zeppa d’armi e missili per Hezbollah. Tantomeno è pensabile che Obama a fronte della decisione – reiterata da Khamenei – di continuare il programma atomico, possa sospendere le sanzioni dell’Onu. Forse Obama potrebbe scongelare i fondi sequestrati all’Iran nel 1979, ma sarebbe soltanto un minuscolo atto. Resta un ultimo punto, strategico, chiesto da Khamenei: la fine dell’appoggio americano “al regime sionista”. Su questo, abbiamo assistito in queste ore a un’incredibile apertura di disponibilità, non certo da parte dell’Amministrazione Obama – va detto – ma di molti analisti americani e di molti media e di alcuni politici europei. Gli ayatollah non sono così ingenui da progettare una atomica per lanciarla appena pronta su Israele. La loro strategia è più articolata: l’atomica deve fungere da deterrente per due scopi. Il primo è l’espansione della rivoluzione islamica, del proselitismo sciita non soltanto in Libano e Palestina ma anche e soprattutto nel Golfo (è di questi giorni la affermazione del braccio destro di Khamenei che il Bahrein è “una provincia iraniana”, replica delle pretese sul Kuwait di Saddam Hussein nel 1990). La deterrenza atomica a favore dell’espansione della rivoluzione è concetto strategico innovativo, che ha dimostrato di funzionare egregiamente da anni, grazie al solo effetto annuncio. Il secondo risultato è la “distruzione di Israele”, ma – in prima battuta – per via diplomatica, non replicando la Shoà. Basta leggere l’intervista ultima di Khaleed Meshal – fedele alleato di Khamenei – per comprendere come il fronte Iran-Siria-Hamas-Hezbollah intenda procedere: pace in Palestina soltanto con l’applicazione integrale degli accordi di Riad tra Hamas e al Fatah, a partire dal rientro dei profughi. Questo è il baricentro su cui l’Iran farà giocare la leva della sua atomica. L’atomica copre un altro piano Più di un centinaio di paesi Onu (inclusi Venezuela, Bolivia, Sudafrica e Cuba) sono d’accordo nell’eliminare Israele quale stato ebraico, immettendovi 4-5 milioni di profughi palestinesi. Lo stesso Abu Mazen rifiuta tuttora di cedere su questo punto. Khamenei non è né Nasser, né Saddam, perché il suo gruppo dirigente rivoluzionario è duttile e articolato, ma dimostra di sapere riprendere lo scettro dell’obiettivo strategico dei due raìs, in forma non più di jihad becero, ma di strategia globale (e atomica), lacerando al massimo ogni accordo tra Israele e Anp sul punto dei profughi, godendo di un ampissimo fronte mondiale di appoggio. Il disastro è che si è constatato che una parte non piccola dei media e degli analisti occidentali considerano percorribile una trattativa su questo punto.

Giorgio Israel : " La politica americana dell’adulazione del nemico rischia di rafforzare gli antisemitismi europei "

Il ministro Frattini ha sostenuto che della pace e dei diritti umani si discute nelle sessioni politiche, non sui campi da gioco o nelle piscine. Non si capisce allora perché il boicottaggio nei confronti di Israele, che ne comporterà l’esclusione ai Giochi del Mediterraneo, debba essere risolto promuovendo un incontro ufficiale durante la cerimonia inaugurale in cui i presidenti dei Comitati olimpici israeliano e palestinesi si dichiarino pronti a partecipare ai prossimi giochi. Israele è uno stato riconosciuto dall’Onu e questo riconoscimento non è in alcun modo subordinato alla creazione di uno stato palestinese. Pertanto, Israele dovrebbe partecipare e basta, e il resto venire dopo. D’altra parte, Frattini ha ragione a dire che impuntarsi non servirebbe a cambiare le idee degli stati che hanno votato contro la partecipazione di Israele. Ma anche il ritiro dalla conferenza di Ginevra sul razzismo (Durban II) non è detto che serva a convincere la Libia e gli stati che hanno redatto l’efferato proclama antisemita a cancellarlo. Non trovo tuttavia che sia facile criticare Frattini e il governo italiano. Nessun paese si è comportato meglio dell’Italia per quanto concerne la difesa dei diritti di Israele e contro i rischi del nuovo antisemitismo. E, d’altra parte, che mai si può pretendere di fronte agli indirizzi sconcertanti che sta prendendo l’amministrazione Obama? Cosa può fare l’Italia da sola di fronte a un così vistoso disarmo morale? Si diceva del nuovo presidente che avrebbe portato uno slancio umanistico verso la comprensione tra i popoli e verso la pace, che avrebbe indotto anche i più recalcitranti a imboccare la via della trattativa. E invece su questo terreno Obama è stato una deludente sorpresa. Ci si attendeva un’esplosione di pacifismo messianico e ci troviamo di fronte a piatti documenti di Realpolitik la cui unica preoccupazione sembra essere quella di adulare il nemico. Non importa che il Marocco abbia rotto le relazioni diplomatiche con l’Iran per una “intollerabile ingerenza negli affari interni del regno”. Obama si volta dall’altra parte e legittima la Repubblica Islamica dell’Iran dando a intendere che a lui della democrazia non importa nulla: opprimano le minoranze, torturino, neghino la libertà di stampa, quel che conta è intendersi. Obama ha aperto la mano all’Iran senza chiedere nulla, neppure di smettere di parlare di distruzione di Israele, e ha ricevuto in cambio una sventola in faccia. Gli hanno risposto: parleremo con voi se vi pentirete dei vostri errori, in primis il sostegno a Israele. E Obama lungi dal rispondere su questo punto ha teso di nuovo la mano per prendersi una sventola sull’altra guancia. La diplomazia americana rimette in circuito cariatidi della Realpolitik come Kissinger, Schulz, Baker, Brzezinski. Dice il columnist del New York Times, Roger Cohen, che la politica precedente ha portato a due guerre in tre anni e ha visto America e Israele criticati in tutto il mondo. Ma l’epoca delle cariatidi ha visto l’Onu condannare il sionismo come una forma di razzismo ed è culminata con Durban I e con l’attentato alle Torri Gemelle. Il neocinismo “realistico” parla di dolorosa ridefinizione dei rapporti degli Stati Uniti con Israele e di una società iraniana “vibrante, curiosa, giovane e ansiosa di aprirsi al mondo”. Ma di questo chi se ne importa: Obama, conferma Cohen, ha “riconosciuto trent’anni dopo la rivoluzione khomeinista” e la retorica di Ahmadinejad è “odiosa e inaccettabile” ma non bisogna certo fermarsi su questi dettagli: “gli ayatollah non sono pazzi, sono pragmatici”. Ne sa qualcosa chi ha avuto a che fare con Hamas e Hezbollah. Di fronte a questo autentico disarmo morale che cosa può fare l’Italia da sola? E cosa farà un’Europa che già arde dal desiderio di liberarsi del problema di Israele? Farà quello che ha fatto ieri il Consiglio di stato belga di fronte alla decisione di un comune di vietare uno spettacolo dell’umorista francese Dieudonné M’bala M’bala. Va ricordato che Dieudonné è quel signore che si esibisce soltanto in spettacoli antisemiti e che ha dichiarato che “le celebrazioni della Shoah sono pornografia della memoria”. Ora Dieudonné si candida a parlamentare europeo “antisionista”. Certo, lui dice che l’antisionismo non è antisemitismo: peccato che abbia anche dichiarato che per cacciare la cancrena sionista dalla Francia occorre espellerne la Crif, ovvero il Consiglio rappresentativo delle Istituzioni ebraiche di Francia… Ebbene, il Consiglio di stato belga ha cassato la decisione di quel comune sentenziando sarcasticamente che esso “non ha per missione di vegliare preventivamente alla correttezza politica morale o penale degli spettacoli e ancor meno a quella, supposta, degli artisti che vi intervengono”. Qui non siamo di fronte a fatti istituzionali. Domani potremo avere il primo parlamentare europeo eletto su un programma antisionista/ antisemita. Bisognerebbe cominciare a preoccuparsi, e molto. In fin dei conti, occorre ringraziare il governo italiano per resistere come può in uno sfacelo in cui sta venendo meno l’unico ostacolo alla definitiva deriva dell’Europa: una politica estera statunitense attenta al valore della difesa della democrazia, dei diritti dell’uomo, delle conquiste che speravamo divenissero un modello e che invece rischiamo di perdere.

" La guerra al terrorismo è finita "

La guerra al terrorismo è finita. Lo ha deciso Barack Obama con una circolare diffusa da Dave Reidel, dell’Office of Security Review, nella quale si precisa che questa Amministrazione preferisce evitare l’uso dei termini “lunga guerra” o “guerra globale al terrorismo” per indicare i conflitti in Iraq, Afghanistan e negli altri fronti minori. I funzionari civili e militari dovranno utilizzare l’espressione “Overseas Contingency Operation”, cioè operazioni di emergenza oltremare, un termine che non specifica la natura delle missioni (belliche) e non definisce il nemico (i terroristi). Dopo aver vietato ogni riferimento alla natura islamista del terrorismo e l’uso dell’espressione “nemici combattenti” per i jihadisti rinchiusi a Guantanamo, Obama vuole imporre il suo soft power sul fronte della comunicazione: come ha anticipato Janet Napolitano, alla testa della Homeland Security, che ha già rimpiazzato il termine “terrorismo” con “disastri causati dall’uomo” (man-caused disasters) Definizione ridicola nella sostanza e culmine paradossale del pensiero e linguaggio politically correct. Alternative a “guerra globale al terrorismo” erano state proposte anche in passato ma avevano incontrato l’opposizione di George W. Bush, contrario ad artifici lessicali più consoni agli europei, che definiscono “operazione di pace” il conflitto afghano. L’iniziativa di Obama sarà sicuramente di conforto alle famiglie degli 80 soldati americani morti in Afghanistan e Iraq dall’inizio dell’anno i quali, a differenza dei circa 4.800 soldati uccisi tra il 2001 e il 2008, non sono caduti nella Guerra contro il terrorismo ma semplicemente nelle “operazioni di emergenza oltremare”. Dopo essere stato irriso dai nemici degli Stati Uniti con cui cerca il negoziato, dai “talebani moderati” – esistono? – all’Iran – che risponde con parole durissime – Barack Obama punta ora a imporre il linguaggio politically correct alla guerra: alimentando così il sospetto che il suo power più che soft sia flaccido.

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