Anche il 1990 è carico di avvenimenti, quasi sempre connessi a vicende belliche. Si scontrano in Jugoslavia truppe di Belgrado e nazionalisti del Kosovo che si vogliono staccare dalla Serbia. Venti di rivolta anche nelle tre repubbliche del Baltico, Lituania, Estonia e Lettonia. che mirano a riconquistare la loro sovranità e indipendenza, mentre in URSS finisce il ruolo di guida del partito comunista quando viene varato un regime presidenziale e legittimata la pluralità dei partiti. Per la prima volta dopo settanta anni, alla guida del paese è chiamato un non comunista, Boris Eltsin. Intanto in Sudafrica è liberato dopo 27 anni di prigione il leader nero Nelson Mandela, leader dell’ANC, l’African National Congress. Il regime razzista si sgretola. Dopo gli anni in cui gli arrivi in Israele dall’Unione Sovietica assomigliavano all’irrigazione goccia a goccia, ecco un torrente sempre più impetuoso riversarsi nel 1990 sull’aeroporto Ben Gurion. Sono gli ebrei dell’Unione Sovietica, il cui esodo, sorprendente per tutti, va assumendo un aspetto biblico. Questi ebrei che sbarcano in Israele a decine di migliaia al mese (alla conta finale saranno un milione) non assomigliano a quelli miracolosamente usciti dall’URSS di Breznev tra il 1970 e il 1980. Quelli erano attivisti, idealisti che si erano battuti, spesso pagando con il Gulag o il carcere la difesa delle loro aspirazioni e dei loro diritti che Mosca negava. Avevano pagato per il loro essere ebrei sfidando un antisemitismo di Stato che soltanto la potenza propagandistica delle sinistre occidentali e la voglia di quieto vivere di molti facevano chiudere gli occhi sulla realtà sovietica. Questi che si riversano ora in Israele godono del frutto di tante battaglie e paradossalmente quella voce sui loro documenti, “nazionalità ebraica”, che da marchio infamante si è trasformata in un fortunato e insperato mezzo per lasciare l’ingrato paese. Israele ha rappresentato forse solo l’unico loro possibile approdo dopo la fuga. L’unico perché, ironia della sorte, gli Stati Uniti non li avrebbe più accolti fuori dalle “quote” stabilite: dopo la perestrojka infatti non avrebbero potuto continuare a godere dello status di “rifugiato politico”. Fosse esistito negli anni Trenta questo “unico approdo” non ci sarebbe stata la Shoà. La dura contestazione ebraica in URSS era cominciata giusto venti anni prima, dopo il famoso e famigerato processo a dicembre 1970 contro un gruppo di ebrei a Leningrado accusati di “intenzione di reato”. Ricordiamo qualche nome: la famiglia Zalmanson, i Kuznezov, i Mendelevich, i Begun, Anatolij Sharanskij, Ida Nudel. E il grande fisico Andrej Sacharov, che si è sempre battuto – lui non ebreo - per i diritti degli ebrei dell’URSS. La fine delle dittature comuniste dell’Est produce grandi sconvolgimenti. Dall’Albania fuggono a decine di migliaia e si rifugiano soprattutto in Italia. E’ il “via” ad una serie di fughe da altri paesi europei, ma poi principalmente africani. La grande crisi mondiale ha una data precisa. Il 2 agosto 1990 truppe irachene invadono il Kuwait, di cui Saddam Hussein proclama l’annessione. Il Consiglio di Sicurezza dell’ONU, dopo varie e inutili intimazioni, decide di proclamare un embargo totale contro l’Iraq. Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, poi via via altri paesi inviano forze navali di dissuasione nel Golfo Persico. Nello schieramento anti-Saddam si contano anche alcuni paesi arabi, segnatamente l’Egitto e l’Arabia Saudita, che sentono il fiato di Saddam sul collo. E l’Italia? In un primo momento manda due fregate, ma dove? Non nel centro della crisi, cioè il Golfo Persico, ma nel Mediterraneo orientale, dove non si sa bene che cosa ci stiano a fare. Poi nel corso del dibattito parlamentare su questa crisi il governo Andreotti cerca di mettere sullo stesso piano l’invasione del Kuwait e la questione israelo-palestinese, con un certo penchant verso i palestinesi. Gli americani non nascondono le loro perplessità sull’atteggiamento italiano, così un po’ alla volta il nostro governo tende a raddrizzare il tiro, e ai primi di settembre le due fregate arrivano nel Golfo Persico, mettendo così fine alle vacanze nel Mediterraneo. Mentre Yasser Arafat (e l’OLP entusiasticamente dietro di lui) si schiera senza riserve con Saddam, la grande maggioranza dei paesi membri delle Nazioni Unite non può approvare l’Anschluss di Saddam nei confronti del Kuwait. Anche l’Italia ne prende atto e rientra nel quadro delle sue alleanze naturali, cioè assieme al resto d’Europa e agli USA. Le popolazioni dei vari paesi arabi, anche quelli moderati, sono per Saddam. In un cartello in inglese che appare durante una manifestazione pro-Saddam in Giordania, si legge “Dividerò il mio latte, dividerò le mie medicine con il fratello iracheno”. Il nostro ministro degli Esteri di questo 1990, Gianni De Michelis, offre la sua ricetta per risolvere la crisi irachena. “Occorrerà attivare tutti gli strumenti politici e diplomatici – dice – in grado di trattare tutti i problemi della regione”, ma poi precisa “e non solo la questione palestinese”. Ma come, l’Iraq invade il suo vicino e lui dice non solo la questione palestinese? E continua: “Penso che sia ormai necessario isolare Israele. L’isolamento, lo si vede con l’Iraq, può produrre buoni risultati”. Ma di quali risultati va parlando De Michelis? Buoni risultati in Iraq? Forse prevedeva che da lì a poco gli anglo-americani, dopo scaduto l’ultimatum a Saddam perché si ritirasse dal Kuwait, avrebbero cominciato a bombardare l’Iraq? O sarà la risposta di Saddam di lanciare missili contro Israele ad essere considerata un buon risultato? O forse l’isolamento internazionale d’Israele lo proteggerebbe meglio dai missili iracheni? |