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The Reader, un film ambiguo 18/03/2009
Cari Amici,

alcuni giorni fa ho assistito alla proiezione del film The Reader -tratto da un romanzo del tedesco Bernhard Schlink, Der Vorleser-: una tragica storia d’amore che inizia con l’incontro, nella Germania del 1958, tra un sedicenne tedesco, Michael, e una ancor giovane bigliettaia di tram, Hanna, che lo soccorre nell’atrio della propria casa, febbricitante a causa della scarlattina. Lo svolgersi della vicenda è noto e non importa riassumerlo. Pellicola di indubbio impatto emotivo, che si avvale, in primo luogo, della forte interpretazione di Kate Winslet, nel ruolo di Hanna, e della rivelazione David Kross, Michael da giovane, ha nella parte dedicata alla relazione sessuale tra i due l’aspetto, a mio sentire, più intenso e meglio riuscito perché sa dar voce alle pulsioni, ai sentimenti forti e contraddittori di un adolescente alle prese con la scoperta del proprio essere uomo, che sarà segnato a vita dal rapporto con una donna più matura, ma così significativa per lui; ben lontana dalla sua conformista famiglia di origine.  La lettura a voce alta, da parte di Michael a Hanna,di pagine dei maggiori capolavori della letteratura mondiale, durante i loro incontri amorosi, questo contrasto, per così dire, tra Sacro e Profano, è di profonda suggestione.

Più problematico individuare il messaggio che la vicenda intende trasmetterci.

Siamo di fronte ad una Germania che, da un lato sta cercando di capire come sia stato possibile l’orrore del nazismo; ma, dall’altro, c’è chi (ad es. i giudici del processo, intentato anni dopo contro Hanna e altre sorveglianti SS, per aver lasciato morire in un incendio 300 detenute ebree) va alla ricerca di colpevoli ben definiti, così da eliminare le proprie diffuse responsabilità. Si riesce quasi a cogliere una silenziosa complicità tra le compagne di Hanna e i magistrati, tra queste donne arroganti e distratte (una colta dall’obiettivo intenta a sferruzzare!) e i guardiani della legge alla ricerca di un capro espiatorio. D’altronde non è chiaro se la protagonista si renda conto o meno del crimine commesso. Ella sembra esclusivamente preoccupata a proteggere quel suo segreto, la cui rivelazione tuttavia avrebbe potuto attenuare, sia pure in parte, le sue responsabilità. Anni dopo, nel momento dell’uscita dal carcere, la donna si uccide: per il rimorso, dovuto ad una tardiva presa di coscienza, o invece per il terrore di affrontare il mondo esterno, ostile ora più che mai? Il dubbio resta.
L’enormità della Shoah non è colta nella sua interezza; e questo limite  forse è percepito con maggiore sensibilità da parte di chi, come la scrivente, ha passato, solo una decina di giorni fa, alcune ore allo Yad Vashem di Gerusalemme.
Ma ciò che davvero rovina tutto il quadro è il momento finale: l’incontro tra l’adulto Michael e la piccola sopravvissuta al rogo, ora una matura cittadina newyorkese. Il conformismo di presentare costei come un’algida, elegante signora ebrea, chiusa nelle sue sicurezze, che ritiene di ristabilire un’approssimativa equità  accaparrandosi il barattolo  di latta dove Hanna aveva raccolto i suoi risparmi, a lei destinati come parziale risarcimento, suscita disagio, rabbia e non contribuisce di sicuro a rendere più pregiata l’opera dal punto di vista artistico. Chi ha vissuto certe esperienze non pensa alle scatolette di latta, né ha una simile freddezza negli occhi e nel cuore. Ma, d'altra parte, con chi credete che si identifichi lo spettatore medio, per lo più disorientato: con la ricca esponente della “lobby ebraica” che lucra profitti dalla “Shoah business”, a cominciare dai proventi del libro da cui trae origine il processo, o non piuttosto con la donna povera, vecchia e abbandonata da tutti, magari disperata al punto di togliersi la vita -e il suicidio individuale suscita rispetto,  se nasce in un contesto di dolore-?
Esigenze di…cassetta per adeguarsi ad un modaiolo antisemitismo?

Confesso che, all’uscita dal cinema, ero di pessimo umore.

            Mara Marantonio Bernardini (Bologna)


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