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Giorgia Greco
Libri & Recensioni
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Irène Némirovsky, I doni della vita - Leonid Mlecin, Perché Stalin creò Israele - Yehoshua Kenaz , Paesaggio con tre alberi 16/03/2009

I doni della vita  - Irène Némirovsky
Traduzione di Laura Frausin Guarino
Adelphi Euro 18

“Un ‘altra guerra. Non si dovrebbe vedere una cosa simile due volte”. In qualche caso, un romanzo può racchiudersi in una frase. Ne è una riprova questo di Irène Némirovsky, I doni della vita. Si svolge nella prima metà del secolo scorso, nella Francia sconvolta da una coppia di conflitti armati, quello del 1941-18 e quello – che alle sue vittime apparve quasi simultaneo – del 1939-45. La notorietà internazionale della Némirovsky non ha conosciuto soste da quando, cinque anni fa, uscì a Parigi (e poco dopo in Italia, presso Adelphi) Suite francese che resta la sua opera più ispirata e di più ampia risonanza. Di quel libro – dedicato in gran parte alla fuga in massa dalla capitale francese di fronte all’invasione nazista, e scritto dall’autrice, ebrea, nell’immediata vigilia della sua deportazione e morte ad Auschwitz – I doni della vita può essere considerato un’introduzione (o una replica). Analoghi il giro del tempo, i dati storici, i fatti nella loro concretezza brutale. Lo sfondo che l’autrice sceglie è la Francia settentrionale. In essa un piccolo centro, Saint-Elme, vicino al Pas de Calais e al confine con il Belgio. Qui “una scialba e solida famiglia di provincia”, gli Hardelot, esercita il suo dominio, sorretto da una fabbrica di prodotti cartacei. Sulla propria discendenza, come sull’intero villaggio, regna il patron dell’impresa, Julien Hardelot. Risoluto, coriaceo, intrattabile nella sua patriarcale intransigenza, è lui l’emblema di uno statu quo che le successive vicende si accingeranno a demolire. Nell’economia del racconto, la sciagura assume un duplice registro, domestico da un lato, nazionale dall’altro. Il nipote dell’industriale, Pierre, sposa una ragazza a lui non gradita, facendosi disconoscere e diseredare. La guerra del ’14, severa per la Francia benché infine vittoriosa, darà in particolare delle sue plaghe nordiche un deserto di macerie. A Saint-Elme, la fabbrica è distrutta. Si fatica a rimetterne in piedi le mura: è l’ultimo sforzo dell’anziano Julien. Al suo secondo approccio, la guerra persiste nell’incrudelire sulla scena del racconto. Guy Hardelot subisce i rigori del fronte come era capitato a suo padre due decenni prima. Lo stabilimento è di nuovo in macerie. Lo si ricostruisce ma intanto, nei conti dell’impresa, dopo la morte del fondatore, si registra una crisi che sottrae ogni potere ai suoi discendenti. Patetici Buddenbrook issati sul palcoscenico d’una Francia esanime, gli Hardelot vivono ancora una volta affannose vicende private. Una nemesi maligna li perseguita. Emerge qui – fra sussulti di un’ironia più rada e meno raffinata di quelli che contrassegnavano il capolavoro della stessa scrittrice – la nostalgia di un assetto borghese aggrappato agli “anciensparapets” di quell’Europa che non c’è ormai più e che nulla, forse potrà mai restaurare. Il “forse” è dato dal fatto che anche stavolta la Némirovsky scrive a ridosso dei fatti, senza poterli valutare appieno, poco prima che il suo personale destino si compia. Il che incute al lettore un senso struggente di premonizione.

Nello Ajello Almanacco dei libri – La Repubblica

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Perché Stalin creò Israele -  Leonid Mlecin
Traduzione di Svetlana Solomonova
Sandro Teti Euro 17

Il titolo è un po’ enfatico, però rende bene l’idea di ciò che allora avvenne e che oggi sembra quasi incredibile. Sto parlando di “perché Stalin creò Israele” di Leonid Mlecin, appena pubblicato dall’editore Sandro Teti, con una presentazione di Enrico Mentana. L’autore è un giornalista russo che ha potuto consultare documenti degli archivi sovietici da poco desecretati. Scrive con buon ritmo narrativo pur tenendosi accosto alla realtà storica di quella lontana stagione. Parliamo degli anni immediatamente successivi alla fine della guerra, quando il mondo stava lentamente scoprendo l’orrore di quanto era avvenuto a opera dei nazisti e la creazione di uno Stato ebraico s’impose all’attenzione generale. La questione, per la verità, era vecchia di alcuni decenni. Già nel 1917 il ministro degli Esteri Lord Balfour aveva garantito a Lord Rothschild, presidente della federazione sionista in Gran Bretagna che, dopo il crollo, ormai imminente, dell’impero ottomano, sarebbe stato creato un “focolare nazionale per il popolo ebraico” (A Jewish Homeland). Nell’autunno del 1947 l’Assemblea generale delle Nazioni Unite votò a maggioranza la creazione di quello Stato in Palestina. Come lo votò? Qui è il cuore del racconto che Luciano Canfora così sintetizza nella prefazione: “Si ebbero trentatré voti a favore, tredici contro, dieci astensioni. Con l’Urss votarono Ucraina, Bielorussia, Polonia e Cecoslovacchia. Se questi cinque voti fossero passati nel campo dei contrari o degli astenuti, ci sarebbe stato un risultato di parità: ventotto a ventotto”. Che cosa spinse l’Urss a votare a favore? Stalin era forse mosso da un senso di solidarietà per i patimenti degli ebrei? (Così ingenuamente credette Golda Meir). Il dittatore sovietico in realtà voleva solo favorire la nascita di uno Stato potenzialmente socialista che infastidisse la Gran Bretagna in quell’area. La freddezza degli Usa, che pure votarono a favore, e che poi sarebbero diventati alleati e protettori d’Israele, venne invece dal timore di mettere a repentaglio i rifornimenti di petrolio dai grandi paesi arabi. Ognuno insomma badò ai suoi interessi. Resta il fatto, nota l’autore, che se non ci fosse stata l’Urss di Stalin, lo Stato d’Israele non sarebbe mai nato. Così invece Ben Gurion potè annunciarne la fondazione il 14 maggio 1948.

Corrado Augias Il Venerdì di Repubblica

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Paesaggio con tre alberi -  Yehoshua Kenaz
Nottetempo Euro 13

La vita è questione di “convivenze”. Lo impara presto il piccolo protagonista dell’intenso, insolito racconto dell’israeliano Yehoshua Kenaz: ci sono i padroni di casa, gli Hazon, “quelli del Cairo”, ebrei che hanno vissuto a lungo in Egitto, e ora, qui a Haifa, parlano arabo e francese, e fumano il narghilè: “E’ colpa mia se non mi ascolti e vai sempre a sdraiarti sulle loro pellicce di pecora?”, lo rimprovera la madre, mentre gli toglie i pidocchi dai capelli. C’è poi lo strano soldato inglese che passa il tempo a dipingere: sarà proprio il quadro che il militare sta copiando, il Paesaggio con tre alberi di Rembrandt, a dare al bambino la chiave di lettura della realtà. Proprio come quel quadro, più ti avvicini, più dettagli e personaggi si rivelano: “I particolari sono come la nostra vita, no?”
Perché ha ambientato il racconto ad Haifa durante il mandato britannico?
“E’ stato un periodo molto importante nella mia vita. Avevo 5 anni, la mia famiglia si era trasferita dalla provincia rurale perché l’esportazione di arance era stata bloccata dalla guerra e mio padre trovò lavoro in un campo inglese vicino al mare, ad Haifa. Vivevamo in una stanza con cucinino, il bagno era in comune coi nostri padroni di casa. A poco a poco cominciarono ad arrivare le cattive notizie dall’Europa, e noi facevamo del nostro meglio per dimenticarle”.
I suoi romanzi sono spesso ambientati in condomini, come metafore di convivenza.
“Un giorno tra noi e i nostri vicini ci sarà la pace, ma non credo che io farò in tempo a vederla. La via d’uscita è una sola: che i fanatici religiosi e nazionalisti di entrambi i lati rinuncino a parte delle loro ambizioni. Nel frattempo il mio Paese sia sempre pronto a difendersi quando c’è un reale pericolo, ma si comporti sempre nel modo più generoso e umano coi nostri vicini”.

 Francesca Frediani La Repubblica delle donne


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