Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 13/03/2009, a pag. 15, l'articolo di Paolo Valentino dal titolo " Freeman accusa: costretto a lasciare dalla lobby filoebraica " sulla decisione di Charles Freeman di rinunciare alla carica di capo del National Intelligence Council, organismo che coordina la stesura dei rapporti delle sedici agenzie dei servizi americani.
Freeman accusa la "lobby ebraica" di aver fatto pressioni per le sue dimissioni. E' una bugia, da come lui la presentea, non complotta ma agisce a viso aperto (a tal proposito invitiamo alla lettura dell'articolo di Elena Loewenthal del 9/03/2007 dal titolo " La verità sulla 'lobby ebraica' "contenuto nell'archivio di IC) . Ecco l'articolo:
WASHINGTON — Questa volta, a far saltare una nomina del presidente Obama non sono state le tasse. Charles Freeman, scelto per guidare il National Intelligence Council, l'organismo che coordina la stesura dei rapporti delle sedici agenzie dei servizi americani, si è chiamato fuori, travolto dallo sbarramento preventivo di critiche e attacchi, che sin dall'inizio ne ha accompagnato sulla blogosfera la designazione.
Ex ambasciatore in Arabia Saudita, esperto di Medio Oriente e Cina, Freeman era entrato nel mirino di bloggers e gruppi di opinione per diverse ragioni: le ripetute critiche a Israele, che ha accusato di «occupazione violenta delle terre palestinesi»; i rapporti con Pechino, che lo hanno visto membro del board di una compagnia petrolifera cinese; l'eccessiva vicinanza alla monarchia saudita, che finanzia il centro di ricerca sul Medio Oriente di cui è fondatore.
Ma la sua uscita di scena è diventata un caso controverso, dopo che Freeman ha sparato ad alzo zero contro la «lobby pro Israele », da lui indicata come unica e vera responsabile del naufragio della sua nomina.
«Obiettivo di questa potente lobby — ha scritto in una lunga email inviata a tutti i media — è di controllare il processo politico, attraverso l'esercizio di un diritto di veto sulla nomina di persone che contestano la saggezza delle sue posizioni».
Il risultato, secondo Freeman, è «l'impossibilità per l'opinione pubblica americana di discutere, o per il governo di considerare qualsiasi opzione politica per il Medio Oriente, che non sia condivisa dalla fazione al potere in Israele ».
I fatti dicono però che solo alcune organizzazioni ebraiche siano uscite pubblicamente contro la nomina di Freeman. Un esempio: come ha spiegato il portavoce Josh Block, l'American Israel Public Affairs Committee, considerato il più influente gruppo pro-israeliano di Washington, «non ha preso posizione e non ha fatto pressioni sul Congresso ». Block ha comunque ammesso di aver risposto alle domande di giornalisti e fornito loro materiale sulle passate dichiarazioni anti israeliane di Freeman.
La discussione si è fatta aspra e polemica. Il Washington Post
ieri ha criticato Freeman, accusandolo di teorizzare una cospirazione inesistente e ricordando che uno dei suoi critici più feroci fosse proprio la Speaker della Camera, Nancy Pelosi, che gli rimprovera posizioni molto indulgenti sulle violazioni dei diritti umani in Cina.
Ma altri gli hanno dato ragione. Come Joe Klein, editorialista di Time, il quale però ha accusato non la lobby pro Israele, ma una «banda di neo conservatori ebraici che hanno reso Washington un posto poco accogliente per chi ha il coraggio di sfidare il loro punti di vista».
Nell'amministrazione, Freeman è stato difeso solo dall'Ammiraglio Dennis Blair, capo dell'apparato d'intelligence e suo grande protettore. Ma la Casa Bianca ha taciuto, sia prima, al momento delle critiche, che dopo, davanti alla sua reazione. Ed è stato questo assordante silenzio, che deve averlo convinto a ritirarsi.
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