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Giorgia Greco
Libri & Recensioni
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Claude Lanzmann - La lièvre de Patagonie 11/03/2009

La lièvre de Patagonie     Claude Lanzmann
Ed. Gallimard

Questo libro è un capolavoro. I miei lettori mi daranno atto che raramente mi espongo così. Ma, stavolta, è un fatto. È un'evidenza per chi faccia lo sforzo di entrare nella trama di un testo al tempo stesso picaresco e grave, divertente e tragico, attraversato dalla commedia del secolo non meno che dalla sua parte di infamia.
È il motivo per cui la pubblicazione di questa opera colossale, Le Lièvre de Patagonie (Gallimard), la sua irruzione nel paesaggio di un'epoca che, da molto tempo, non aveva trovato uno specchio simile è, dal punto di vista della letteratura e di quello che una vita può strappare e far dire a una lingua, un evento notevole.
È possibile rivelarsi scrittore così tardi, al tramonto di un'esistenza dedicata a girare un film immenso ( Shoah),
a girare altri film ( Perché Israele?
o Tsahal), a dirigere una rivista ( Les Temps Modernes), a scrivere articoli interessanti (per France Dimanche,
non meno che per Elle o per L'Express)
e a condurre a briglia sciolta una vita d'eccezione (d'eccezione perché all'incrocio esatto della piccola e della grande storia, di ciò che è intimo e di ciò che è aperto agli altri)? Evidentemente sì.
Eccone la prova con Claude Lanzmann. Attraverso i suoi ritratti, sempre in movimento, di Sartre e di Simone de Beauvoir; di Jean Cau, amico dai tempi del liceo, o di Chris Marker, compagno di viaggio in Cina e in Corea. Attraverso una lingua dal bel timbro, sempre intonata, che fa venire le lacrime agli occhi quando riferisce del suicidio di una sorella amata e strappa altre lacrime, ma per il troppo ridere, quando, su un tono che ricorda il Romain Gary de La promessa dell'alba
(1960), racconta di una madre sublime e collerica, affettuosa ed eccessiva, appassionatamente amata, talvolta tradita. Attraverso la scena, lampante di verità, dove l'anticolonialista Frantz Fanon giace su un pagliericcio in una periferia di Tunisi e, tremante di febbre e di dolore, trova ancora l'energia, fra due rantoli e con gli occhi lucidi di una fede non intaccata dall'agonia, di rifilare al suo visitatore la versione terzomondista della favola sul filosofo-re secondo Platone: il guerrigliero africano, pelle nera e maschera bianca, un fucile in una mano e la Critica della ragione dialettica di Sartre nell'altra.
Infine, attraverso l'omaggio reso — all'inizio di un passaggio che tenta di spiegare al lettore di oggi come, nel mondo di ieri, malgrado tutto quel che già si sapeva della sua ignominia, il Partito comunista potesse essere un «cielo» sulla testa di tanti intellettuali — ai rivoltosi dei cantieri di Saint-Nazaire, vittime, a metà degli anni Cinquanta, di una repressione quasi totalmente occultata e che, in poche righe, riemerge dalle sue tenebre.
Sorvolo su tante pagine, naturalmente. È il libro intero che bisognerebbe citare. Scene, abbozzi, esercizi di risurrezione, riflessioni sul tempo e sulla sua disponibilità, emozioni, colpi di fulmine, momenti di solitudine e di fraternità, racconti di viaggio negli abissi del male assoluto, aneddoti: tutto sembra essere travolto da uno stesso vortice.
Ma il vero eroe di Lanzmann, evidentemente, è Lanzmann. Battagliero e allegro. Litigioso e brillante. Certamente pessimista (come non esserlo quando si sono attraversati tante volte i gironi dell'inferno?), ma nello stesso tempo gioioso (ne testimonia, come una nota tenuta, la vena amorosa, erotica, del racconto). Se pur appassionato solo di libri (e di scrittori), trascorre la vita (tra furori, risse, prestazioni fisiche d'ogni genere, malattie inverosimili, annegamenti evitati per un filo, agguati sentimentali, avventure metafisiche) mettendo alla prova il corpo con un rigore, una violenza, che solo l'intelletto conosce nella ricerca della verità.
Il gusto del sapere e quello dell'azione. L'amore della saggezza e quello della voluttà. La volontà di far valere le cause giuste a cui si è dedicato e la sfacciataggine di rivelare che non avrebbe neanche cominciato un certo suo film se non avesse avuto il bisogno di ritrovare, a Tel Aviv, una donna ardentemente desiderata.
Sognatore e lucido. Generoso e inclemente. Amico incondizionato di Israele e anticolonialista intrattabile. Scaltro, segretamente feroce nei momenti in cui, come durante la realizzazione del film Shoah, è l'essenziale ad essere in gioco. Magnifico, di una nobiltà senza limiti, quando gira attorno, per poterle meglio dare un nome, a quell'insensatezza, refrattaria a qualsiasi rappresentazione, che è la realtà dello sterminio.
Partigiano a 17 anni. Apprendista pilota da caccia a 60. Giovane, più giovane che mai, più ardente e più vivo di tanti cosiddetti vivi, a più di 80 anni. Infine, libero. Prodigiosamente libero. Di una libertà della quale, nei decenni di piombo di cui ci offre, strada facendo, la sua lettura sovrana, non si scorgono tanti altri casi.
Di quest'uomo, di questo libro, di questa vita esemplare ed esemplarmente rievocata, sono commosso e fiero di sapermi contemporaneo.

Bernard - Henri Levy

Corriere della Sera


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