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Libero Rassegna Stampa
10.03.2009 Il brusco risveglio nella Parigi conquistata dai musulmani
Raccontato nel romanzo di Juan Goytisolo

Testata: Libero
Data: 10 marzo 2009
Pagina: 38
Autore: Juan Goytisolo
Titolo: «Il brusco risveglio nella Parigi conquistata dai musulmani»

Riportiamo da LIBERO di oggi, 10/03/2009, a pag. 38, l'anticipazione dal libro di  Juan Goytisolo " Il brusco risveglio nella Parigi conquistata dai musulmani". Il pezzo contiene stralci del suo libro " Paesaggi dopo la battaglia " ,  nel quale immagina che in Francia i musulmani abbiano preso il sopravvento, islamizzandola. Ecco l'articolo:

Fino a quel momento, il male (...) si era insinuato poco a poco, passo dopo passo, in maniera occulta e a prima vista innocua, forse con il deliberato proposito di non allarmare i vicini, che la stessa tessitura eteroclita del quartiere aveva reso sensibili alla perdita del suo originario carattere familiare, quasi intimo a causa dell’azione disgregatrice e funesta di individui di tutti i generi venuti da fuori, la cui vistosa e alla fine irritante presenza si andava trasformando, non c’era ombra di dubbio, in un’invasione in piena regola.

Nulla, al principio, o quasi nulla: qualche scritta con il gesso, tracciata da mani caute e furtive, probabilmente opera di ragazzini irrequieti in cerca di emozioni desiderosi di farsi notare. Unico tratto distintivo: l’inintelligibilità. Erano redatte in un alfabeto strano, e i vecchi abitanti del quartiere ci passavano accanto senza neanche farci caso, come se fossero sgorbi privi di senso.

Quei ghirigori assurdi si ripetevano lungo tutti i muri scrostati e, non appena venivano cancellati dalla pioggia, dalle portinaie dei decrepiti palazzi o dai proprietari dei negozi adiacenti - in genere grossisti di pelli, jersey e articoli di maglieria - tornavano a comparire, ogni volta più appariscenti e beffardi: vere e proprie equazioni algebriche, che si rinnovavano casa dopo casa, con ossessiva caparbietà. L’ipotesi della banda di mocciosi determinati ad attirare l’attenzione su di sé che si scambiavano messaggi in linguaggio cifrato godette per qualche tempo di un certo consenso (...). Poi qualcuno, in una pausa di insonnia, si era affacciato alla finestra alle prime ore del mattino per prendere il fresco e aveva intravisto una sagoma china sulla parte bassa del muro dell’immobile a fianco: un tipo con i capelli neri e crespi, di cui non era riuscito a distinguere il viso ma che, di questo era sicuro e poteva giurarlo, di certo non era uno dei nostri.

Aveva tracciato certi segni misteriosi e, una volta finito, aveva ripetuto l’operazione qualche passo più in là. Così l’aveva raccontato agli amici, il giorno dopo, davanti a un bicchiere di calvados. Gli scarabocchi erano opera degli immigrati che, sempre più numerosi, si infiltravano negli edifici fatiscenti abbandonati dai vecchi occupanti e offrivano la forza delle proprie braccia ai facoltosi commercianti del Sentier. Veramente, aveva precisato uno, non sono né disegni né aste, ma lettere di quelle che usano loro per scrivere, tutte al contrario, che non le capisce neanche il Padreterno: le aveva viste laggiù, nelle loro terre, e anche se non ne ricordava con certezza la forma elusiva, era sicuro che fossero le stesse. I bevitori di calvados approvavano con il capo: sì, sono quelli, prima le usavano solo al paese loro, adesso invece vengono qui a curiosare e a ficcare il naso, a sporcare dappertutto e a insozzare i muri come se la città fosse loro, un flagello, signori miei, dovrebbero vergognarsi!

Invece no, quelli non avevano amor proprio, né rispetto né niente: li conosceva bene, ottusi e impermeabili a tutto, cercare di educarli era come lavar la testa all’asino. Bisognava assolutamente scoprire cosa significavano quei caratteri, chissà che non stessero architettando qualcosa e loro, i residenti, non se ne accorgevano neppure: magari ci stanno provocando, ci insultano e ci minacciano nella loro lingua, se non fosse così, andiamo, non miricorrerebbero a quel trucco, questo è quello che dico io.

Le scritte sui muri

Commenti, teorie, supposizioni reiterate giorno dopo giorno e intanto le scritte, dipinte con una spessa vernice a spruzzo, coprivano i muri delle stradine adiacenti al boulevard, oltrepassavano scopertamente anche quello, facevano un’insolente e provocatoria apparizione perfino sul muro del commissariato di polizia. Si è mai vista una cosa del genere, fra un po’ gli stranieri saremo noi e loro, quell’apocalittica marea di negri e meticci, tutti quei Bongo e quegli Alì, saranno loro a essere a casa propria: è la fine, proprio così, signori! Insomma, piagnistei sterili, lugubri profezie che, a forza di sentirle, nessuno prendeva sul serio. La fisionomia del quartiere stava cambiando, questo era certo, ma non si era ancora giunti a tanto: a lamentarsi e a drammatizzare le cose non ci si guadagnava nulla. In fin dei conti sono problemi loro, aveva obiettato un altro dei bevitori, ciascuno ha le sue usanze, se vogliono comunicare con quel linguaggio, affari loro, fin tanto che ci lasciano il nostro cosa ce ne importa?

L’argomentazione, ragionevole, era risultata convincente: i bevitori di calvados, gomito a gomito sul ripiano di zinco del carbonaio, avevano assentito con malinconica rassegnazione. Ognun per sé e Dio per tutti, ecco come la pensava lui (...). Proprio per questo, qualche giorno più tardi, fu ancor più sbigottito e irritato quando uscì in strada mezzo addormentato, diretto al suo calvados mattutino e, alzando gli occhi dal marciapiede, dove era solito tenerli ben fissi mentre camminava, per via delle cacche di cane, scoprì che l’insegna del bar era stata sostituita con un’altra, composta in un alfabeto straniero: Jian Idhian.

Incredulo, chiuse gli occhi e poi tornò ad aprirli: l’incomprensibile scritta in caratteri luminosi era ancora lì. Si chiese allora se il locale non avesse cambiato proprietario e prese la ferma decisione di disertarlo: non ci avrebbe più messo piede. Sarebbe andato al bar all’angolo che, sebbene meno intimo e un po’ pretenzioso, vendeva gli alcolici allo stesso prezzo: il Café du Gymnase. Assorto nella digestione di quella seccante novità, attraversò il boulevard senza notare nient’altro di sospetto o di anormale (...).

Poi lo sguardo gli scivolò sulla porta a vetri e si arrestò sulla scritta in diagonale che la attraversava: Sandwish. Ma come, è mai possibile?, si disse. Istintivamente alzò gli occhi all’insegna che raggiava sopra la tenda della veranda: Maqha jimnas.

No! Anche quello era passato al nemico! Smarrito, non riuscendo a credere a ciò che vedeva, si girò verso la familiare mole del gigantesco cinema all’angolo: il Rex era scomparso! Beh, non esattamente, la sua massa imponente era ancora lì, come al solito, con le réclame di una megaproduzione nordamericana e la torre cilindrica, che di notte riversava cascate di luce, sfavillante come una torcia; ma le lettere dell’insegna, alte parecchi metri, erano state rimpiazzate da altri segni di uguale dimensione, minacciosi e indecifrabili. I manifesti murali riportavano anche il titolo del film e i nomi degli attori negli stessi esecrabili caratteri.

Le nuove insegne

Incredibile, ma era proprio così: tutte le insegne, senza alcuna eccezione, erano mutate, quella del Madeleine-Bastille, quella del circolo del ballo, quella del McDonald’s da poco inaugurato! Gli balenò di colpo in mente la pazza idea che un qualche emirato petrolifero si fosse comprato senza preavviso l’intero quartiere. Questo sì che era il colmo, colonizzati da quella gentucola! Roba da tornare alla Resistenza, come al tempo dei tedeschi.

Notò allora che perfino la targa stradale della rue du Faubourg Poissonnière sfoggiava uno di quegli odiosi scarabocchi: ma allora anche il Comune, sì, anche il Comune era caduto in mano loro! Chi poteva aver preso una decisione tanto stupida e criminale? Pensavano di potersi far beffe del popolo che democraticamente li aveva eletti? Non vivevano forse in un paese sovrano? Come un naufrago sul punto di affogare, si volse verso la sede del quotidiano del Partito: il glorioso Partito della classe operaia, al quale dava regolarmente il suo voto e il suo sostegno, e del cui Messaggio si alimentava ogni giorno. Quello almeno doveva essere ancora al suo posto, sulla breccia, impegnato nelle sue quotidiane battaglie, per portare speranza e conforto alla povera gente in quei tempi difficili, disseminati di trappole. No, “L’Humanité” non lo avrebbe tradito, non poteva fargli questo! Ma l’insegna rossa, orientata al boulevard, lo riempì di costernazione: ora si chiamava Al-Insaniya.

Il militante bevitore di calvados provò un desiderio quasi irresistibile di mettersi a piangere: il suo giornale, il suo amato giornale, lo aveva venduto. Si appoggiò a un albero, incapace di reggersi in piedi: all’angolo, altri residenti del quartiere, annichiliti come lui, discutevano dell’accaduto e davano voce, in modo assai fiorito, al loro sgomento di fronte a quella catastrofe. Quale mano occulta aveva ordito l’orribile cospirazione? Perché nessuno li aveva avvertiti? A chi giovava quello sconquasso infernale? Numerosi automobilisti che venivano dalla provincia sporgevano la testa dal finestrino e cercavano di interpretare il significato di un cartello stradale con varie frecce direzionali: fosse stato almeno bilingue! Che cazzo voleva dire Markaz - Boumabidu -Wabsra - Concord?

Il caos totale

Fra lo strepitio assordante dei clacson, alcuni smontavano e andavano con la coda fra- le gambe a chiedere lumi all’allegro crocchio di persone che stazionava sulla veranda del caffè: arabi, afghani o pachistani, che con naturalezza, quasi con disinvoltura, rispondevano alle domande di quegli analfabeti e indicavano con degnazione la direzione da prendere. Ma il collasso del traffico sembrava inevitabile: dalla République all’Opéra, il boulevard era tutto un bailamme di voci, strombazzate, insulti, proteste, urla. I vigili urbani erano completamente sopraffatti e consultavano invano la mappa con i nuovi nomi delle strade: non ci capivano un’acca. Ambulanze e autopattuglie ululavano inutilmente. Elicotteri sorvolavano quella ecatombe di metallo e ferraglia. Un ragazzino moro con i capelli ricci e la bocca ridente offriva orgogliosamente all’asta i suoi servigi di guida all’ansia o alla fretta del miglior offerente.

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