Se un giorno verrà aggiunta una nuova Era a quelle conosciute, la data d’inizio sarà fissata probabilmente proprio all’inizio del terzo millennio. Il suo spartiacque dall’Era precedente potremo collocarlo dentro tre date. Il 19 novembre 1989, l’11 settembre 2001 e l’ottobre del 2008, cioè tra il tracollo dell’Unione Sovietica (e del comunismo in ogni sua forma), il micidiale attentato del terrorismo islamico contro le Twin Towers di New York e la catastrofe economica che si è abbattuta sull’intero pianeta sul finire del 2008. Il 9 novembre è una data carica di significati da quel giorno del 1938 che è diventato sciaguratamente noto come la Kristallnacht, la Notte dei Cristalli, quando un pogrom nazista contro gli ebrei tedeschi anticipava, con i saccheggi, le violenze, le distruzioni e le uccisioni, lo sterminio che sarebbe stato perpetrato qualche anno dopo. Ma ora, 9 novembre 1989, il governo comunista della DDR, cioè la Repubblica Democratica Tedesca, messo alle corde dalla perestrojka di Gorbaciov, annuncia che il divieto di uscire dai confini della Germania dell’Est è caduto. E’ l’estremo tentativo di salvare il salvabile di un regime comunista che ha dominato il Paese con la dittatura gestita dalla Stasi, la feroce polizia politica che dalla Gestapo nazista aveva ereditato uomini e metodi. La popolazione della DDR è in festa e si accalca a quel Muro nato il 13 agosto del 1961 che circondava la Berlino Est per far cessare il continuo esodo che da Berlino portava da una Germania all’altra. Un muro sporco del sangue di chi, tentando di scavalcarlo per fuggire in Occidente, veniva raggiunto dai proiettili dei Vopos, i poliziotti confinari comunisti. La gente si accalca da una parte del muro e dall’altra parte altrettanta gente festeggia la fine di un incubo durato trentotto anni. Non si potrà mai sapere il nome di chi per primo mette mano al piccone, ma il fatto è che, fuggiti i Vopos, quell’uno diventa cento, mille. Il Muro si sgretola e in pochissimi giorni verrà totalmente abbattuto. Berlino è tornata unita e libera. I danni anche economici portati dal regime comunista alla Germania orientale si riveleranno enormi. Il governo di Bonn (che presto tornerà ad essere il governo di Berlino) affronterà enormi sacrifici per portare al suo livello economico e tecnologico l’altra parte della Germania. Prima della caduta del Muro di Berlino però altri scricchiolii si erano sentiti nelle altre parti dell’”impero”. Primi veri e propri conflitti interetnici in Jugoslavia – serbi contro croati, serbo-croati contro musulmani – insieme all’insorgere di movimenti indipendentisti nelle regioni ex-austriache e in Macedonia. In Polonia Solidarnosc non è più il nemico da abbattere per un regime comunista (peraltro già fortemente “diluito”), ma il prossimo partito di governo. Aria di ribellione nelle tre repubbliche baltiche, Lituania, Lettonia ed Estonia, che mirano a recuperare la loro sovranità e indipendenza. Cade la prima “cortina di ferro”, quella che divideva l’Austria dall’Ungheria, che diventa dopo l’apertura della sua frontiera la prima porta ufficiale per consentire a chi vuole lasciare uno dei paesi dell’”impero” di passare in Occidente. In Romania a novembre il Presidente Ceausescu fa sparare contro i dimostranti che a Timisoara protestano contro il regime comunista, ma la dimostrazione diventa una rivolta che conduce all’arresto dello stesso Ceausescu che viene sommariamente fucilato insieme alla moglie. In Cecoslovacchia il Parlamento elegge alla sua presidenza Alexander Dubcek, lo sfortunato protagonista della “primavera di Praga” che nel 1969 era stata brutalmente soffocata dai carri armati sovietici. Alla presidenza della Repubblica è invece eletto Vaclav Havel, lo scrittore drammaturgo leader del dissenso. In Iran muore l’ayatollah Khomeini, giunto al potere dopo che gli Stati Uniti avevano abbandonato lo Scià Reza Pahlavi alla sua sorte. Ma anche dopo la morte di Khomeini il regime resta fondamentalista, teocratico e reazionario. Le donne, che con lo Scià avevano raggiunto alcuni importanti traguardi, uscendo da uno stato di feudale servitù, ripiombano con la violenza in un ghetto medievale di non-persone. L’islamismo, almeno nella sua interpretazione introdotta da Khomeini, è al servizio di una dittatura che fa impallidire il ricordo della polizia dello Scià, contro la quale le anime belle dell’Occidente avevano inscenato manifestazioni di protesta. Ora il Medio Evo dei suoi giorni più bui è sceso sull’Iran e impone agli uomini il suo volere e alle donne le sue catene. Anche in Cina soffia vento di contestazione. A Pechino migliaia di studenti occupano Piazza Tienanmen e manifestano per la libertà. Dopo alcuni giorni interviene brutalmente l’esercito e disperde la folla sparando ad alzo zero. Non si saprà mai quanti morti sono rimasti sul terreno, ma il sacrificio non risulterà vano. Lentamente qualcosa incomincia a muoversi anche nel grande paese. E in Cile prime elezioni libere dopo i sedici anni di dittatura del generale Pinochet, responsabile di efferati delitti e di vere e proprie stragi di avversari, nemici e presunti tali. Il nuovo presidente della Repubblica è il democristiano Patricio Aylwin. Un altro dittatore, Manuel Noriega, padrone dello stato di Panama (tre milioni di abitanti per 75mila kmq) e trafficante internazionale di droga, cade per l’invasione statunitense del paese. Gli Stati Uniti lo arrestano, poi lo processeranno e lo condanneranno. Sembra sciogliersi a poco a poco, già nei primi mesi del 1989, il rapporto conflittuale tra Unione Sovietica e Israele. Il 20 febbraio il ministro degli Esteri Eduad Shevardnadze (un georgiano che più avanti diventerà il Presidente dello Stato sovrano di Georgia, staccata dall’impero sovietico) incontra al Cairo il suo omologo israeliano Moshé Arens e con lui s’intrattiene in un lungo e cordiale colloquio. Non è molto, ma è il segnale che il ghiaccio tra i due paesi (o meglio, tra l’URSS che lo aveva voluto e Israele che lo aveva subito) incomincia a mostrare le prime crepe. E’ curioso apprendere che in questo colloquio Shevardnadze avanza una proposta che già aveva prospettato Itzaak Rabin: la costituzione di una Confederazione che comprendesse Israele, la Giordania e il futuro Stato di Palestina stabilito in Cisgiordania e Gaza. Sui nostri media continua una sottile (e a volte nemmeno tanto sottile) campagna ostile a Issale. E se il 28 marzo del 1988 “La Stampa” pubblicava un foto di soldati israeliani che – diceva la didascalia – picchiavano donne palestinesi in un campo profughi. quasi un anno dopo, il 9 febbraio del 1989 “Il Corriere della Sera” ripubblicava la stessa foto trasformando il campo profughi in una strada dove si svolgeva una manifestazione di protesta. Le botte c’erano sempre. salvo poi scoprire più tardi, ma non da parte dei giornali, che le immagini erano frutto di un fotomontaggio. Esce negli Stati Uniti il libro di un medico americano ebreo di origine polacca: “The Education of a Polish Jew: A Phisician’s War Memoirs”. Il libro rievoca la tragica storia delle Fosse di Katyn, dove i tedeschi durante la loro avanzata-lampo nell’Unione Sovietica, aggredita il 20 giugno 1941, rinvenivano a Katyn una fossa comune dove riesumavano i cadaveri di 4443 ufficiali polacchi, uccisi, secondo Mosca, dagli stessi tedeschi, in realtà falcidiati dai sovietici quando nel 1939 si erano spartiti con Hitler la Polonia. Nella loro mania della precisione, i tedeschi avevano conservato e catalogato le piastrine dei militari uccisi. Un’alta percentuale di quegli ufficiali risultavano ebrei, e non so lo per i nomi (Levinson, Epstein, Zusman, Frenkel. Nierenberg, Rosen e altri), ma proprio per le piastrine di riconoscimento, che recavano la sigla MOJ, abbreviativo di Mojzeszkowj, cioè (di fede) “Mosaica”. Per i polacchi tutti quegli ufficiali erano semplicemente “polacchi”, proprio come per i sovietici i 50.000 assassinati a Babi Yar dai nazisti erano diventati sulla lapide “50.000 cittadini sovietici”. Per ristabilire la verità storica ci penserà prima il poeta Yevtushenko e poi Gorbaciov con la sostituzione della lapide con una indicante che tutti i 50.000 erano ebrei. Alla fine dell’anno, il 14 dicembre, moriva a Mosca Andrei Sakharov, fisico di fama internazionale, “padre” della bomba H sovietica, che per le sue coraggiose prese di posizione a favore dei dissidenti in generale e in particolare della dissidenza ebraica, fu esiliato a Gorki dal 1980 fino al 1985 e sottoposto a continue vessazioni.