La casa di vetro Simon Mawer
Traduzione di Massimo Ortelio
Neri Pozza Euro 18
I Landauer sono giovani e belli, lei tedesca, lui ricco ebreo cecoslovacco.
E´ il 1929. I coniugi in viaggio di nozze conoscono un geniale architetto e gli
affidano il progetto per la loro villa in Cecoslovacchia, a Meso. Una casa di
vetro e acciaio. Puro spazio. In questa quinta straordinaria si muove una folla
di personaggi che seguono il sanguinoso evolversi del secolo. Il nazismo
metterà in fuga i Landauer e la casa verrà adibita dai tedeschi a laboratorio
per esperimenti genetici, con i sovietici diventerà palestra di un ospedale e
infine, con la caduta del Muro, un museo. Tra questa architettura razionale si
muovono terribili passioni, tradimenti, ossessioni. L´inglese Simon Mawer ha
una scrittura ipnotica e potente che fa sentire il profumo dei boschi su cui
affaccia la casa di vetro e il sinistro rimbombo degli stivali delle SS.
Lei si è ispirato a una casa dell´architetto tedesco Ludwig Mies van der
Rohe.
"Visitai e mi colpì molto la casa di Van der Rohe a Brno, nella repubblica
Ceca. Ma l´idea del romanzo è maturata dieci anni dopo".
Quanto la storia dei Landauer somiglia a quella dei proprietari della casa di
Brno?
"Poco. Erano entrambi ebrei, fuggirono in Svizzera e nel ´38 in Venezuela.
Dopo la guerra, la casa funzionò davvero come palestra dell´ospedale vicino".
La casa sopravvive agli orrori del secolo mentre il mondo dorato dei Landauer
va in pezzi. E´ una metafora sull´insensatezza delle cattedrali del lusso?
"Mentre scrivevo non ci ho pensato, ma a libro finito non posso negare che lo
sia".
"Dovremmo tutti vivere in case di vetro, non ci sarebbero più segreti né
inganni" dice Viktor Landauer: invece la casa diventa il contenitore dei
peggiori inganni.
"E´ vero il modernismo in architettura era un ideale di apertura e
trasparenza. Invece noi abbiamo sempre dei segreti, è questa l´ironia del
romanzo".
Lei descrive una casa razionale in cui irrompe l´irrazionale e scompiglia i
giochi.
"Evidentemente questa è la mia visione dell´essere umano: vorrebbe essere
idealista e democratico ma non ce la fa. Forse ho scritto un libro
pessimista".
Brunella Schisa
Il venerdì di repubblica
------------------------------------------------------------------------------------------
I vendicatori Danny Baz
Piemme Euro 17
Del dottor Aribert Heim, soprannominato dalle sue vittime nel campo di
concentramento di Mauthausen Doktor Tod, il Dottor Morte, circolano su Internet
alcune immagini. Sono fotografie dell´immediato dopoguerra, scatti in bianco e
nero d´un uomo elegante, dal viso severo, la bocca atteggiata in una sorta di
impercettibile sorriso. Tutti coloro che negli ultimi decenni lo hanno cercato
in giro per il mondo per assicurarlo alla giustizia hanno avuto come appiglio
sicuro solo questi vecchi ritratti. Il resto, una vera messe di segnalazioni e
avvistamenti sul medico di Mauthausen, l´"ultimo nazista" come hanno titolato i
giornali, ha reso la sua ricerca un gioco mediatico dei più paradossali,
arricchito ultimamente da nuove rivelazioni.
I pochi dati certi sull´ex SS Aribert Heim riguardano la prima parte della
sua vita. Nato nel 1914 a Radkerburg, in Austria, aderì al partito nazista
austriaco nel 1935. Per due mesi, tra l´ottobre e il novembre del 1941, lavorò
come medico del campo di Mauthausen. La sua specialità, testimoniarono i
sopravvissuti, era uccidere i prigionieri con iniezioni tossiche nel cuore. Si
dice tenesse sulla scrivania il teschio mummificato di un atleta ebreo
torturato fino alla morte. Alla fine del conflitto finì in un campo di lavoro
degli Alleati per un paio d´anni, senza subire alcun processo. Poi tornò in
Germania, sposò una ragazza d´ottima famiglia di nome Frieda ed esercitò come
ginecologo a Baden-Baden.
Abitava lì, nella villa dove ancora vive il figlio Rudiger; quando nel 1962
una telefonata lo avvertì che la polizia voleva arrestarlo e gli consentì di
far perdere le proprie tracce. Da allora, pur essendo un fuggiasco ricercato
dalla polizia tedesca e austriaca, Heim ha mantenuto un cospicuo conto in banca
in Germania e, prima della confisca nel 1979, ha percepito gli affitti di uno
stabile di Berlino. La sua presenza è stata segnalata, mai appurata, in Spagna,
Marocco, Cile, Stati Uniti, Egitto.
Se fosse vivo avrebbe quasi 95 anni. Ma Aribert Heim è vivo o morto? E, nel
caso sia morto, a quando risale la sua scomparsa? Efraim Zuroff, il direttore
dell´ufficio di Gerusalemme del centro Simon Wiesenthal, lo insegue fin dagli
anni Novanta; nel 2008 si è recato in Cile sostenendo di avere notizie della
presenza del Dottor Morte nel Paese latinoamericano e ha alzato la taglia sulla
sua testa fino a 495 mila dollari. Negli ultimi anni Zuroff si è scontrato con
Danny Baz, ex ufficiale dell´esercito israeliano, il quale sostiene che cercare
Heim è inutile: l´organizzazione segreta di cui Baz ha fatto parte, denominata
La Civetta, avrebbe sequestrato e ucciso Heim già nel 1982. Sulla vicenda Danny
Baz, che tra le sue credenziali mostra un attestato di stima del generale
israeliano Amos Gilad, ha scritto un libro, edito in Francia nel 2007 da
Grasset e ora tradotto in Italia con il titolo "I vendicatori" .
Con stile da romanzo di spionaggio, e sostituendo i nomi dei presunti
compagni e finanziatori con degli pseudonimi, l´ex militare racconta di essere
stato membro della Civetta, organizzazione segreta finanziata da sopravvissuti
all´Olocausto per scovare i criminali nazisti. La Civetta avrebbe individuato
due nascondigli di Heim, prima nei pressi di New York e poi in Quebec. Qui una
cellula avrebbe prelevato il Dottor Morte facendolo arrivare in California,
dove avrebbe subito il processo del direttivo dell´organizzazione e l´
esecuzione.
La schermaglia tra Baz e Zuroff, in mancanza di prove, è rimasta fino a
qualche settimana fa un gioco a somma zero. All´inizio di febbraio, però, il
caso Heim si è arricchito di un colpo di scena: la tv tedesca Zdf e il New York
Times hanno lanciato la notizia che Heim sarebbe morto di cancro al Cairo nel
1992. Una valigetta di documenti appartenuti ad Heim, ritrovata dai reporter
del Times nell´albergo cairota in cui avrebbe vissuto per anni, nonché la
testimonianza del figlio Rudiger sulle sue visite al padre, costituiscono le
prove regine di questa tesi.
Ma il mistero non è chiarito. Convertitosi all´islam con il nome di Tarek
Hussein Farid, Heim sarebbe stato sepolto con questo nome in una fossa comune.
Quindi c´è un certificato di morte, ma non i resti di un corpo. I documenti
della valigetta - fotografie, lettere, permessi di soggiorno in Egitto - sono
nelle mani della polizia tedesca affinché ne verifichi l´autenticità. Raggiunto
telefonicamente in Israele, Danny Baz (che non fa circolare sue fotografie "per
non diventare bersaglio di qualche gruppo neonazista") non sembra inquieto all´
idea che l´inchiesta del Times sconfessi "I vendicatori": "Stimo i giornalisti
del New York Times, ma penso che questa volta si siano fatti manipolare. Il
figlio di Heim ha sempre sostenuto di non sapere nulla del padre dal 1962. Ora
rivela di averlo assistito durante la malattia. O mentiva prima, o mente ora".
Anche Efraim Zuroff, dal canto suo, ha dichiarato alla stampa che la storia "è
troppo perfetta per essere vera", chiedendo alla polizia tedesca molto scrupolo
nell´analisi dei documenti.
Che Aribert heim sia o meno sepolto nella città egiziana, che davvero abbia
trascorso la sua vecchiaia nei caffè del Cairo facendosi chiamare dai bambini
zio Tarek non sarà forse mai appurato. Nella storia della fuga di Heim resta
una sola certezza: il Dottor Morte ha imbrogliato tutti, fino all´ultimo.
Lara Crinò
Il Venerdì di Repubblica
----------------------------------------------------------------------------------------
Canto del popolo yiddish messo a morte Itzak Katzenelson
A cura di Erri De Luca
Mondadori Euro 14,00
E´ solo letteratura, e per di più in una lingua ruvida, di solito strascicata
nel parlato quotidiano. Le metafore, benché decise, non sono molte, e turbinano
su se stesse con insistenza ossessiva. Per fare i conti con la storia, questo
libricino di poche decine di pagine sembra davvero insufficiente. Può davvero
un poeta, col suo povero armamentario di versi, render conto di eventi che
nemmeno gli storici più esperti riescono a spiegare?
Eppure, se c´è un classico del Novecento, è proprio il Canto del popolo
yiddish messo a morte di Itzak Katzenelson. Classico in quanto pietra di
paragone a cui tornare, nonostante lo scorrere degli anni, per misurare la
nostra avventura umana. Erri De Luca prova ancora una volta a portare in
italiano la poesia di Katzenelson,. Già apparsa più volte nella nostra lingua.
Va ricordato innanzitutto che esiste uno iato quasi incolmabile tra l´anima
petrarchesca del nostro volgare e questo yiddish tagliente. Forse proprio per
superare l´inadeguatezza stilistica, De Luca ha scelto una traduzione-calco,
che replica la povertà sintattica del giudeo-tedesco ed echeggia la crudezza
del lessico di Katzenelson. Quello che ne risulta è un libro estremo. Ma è
questa la miglior ricompensa per un traduttore-traghettatore, che come Caronte
ci trasporta sulla riva di un lugubre aldilà novecentesco.
Mentre scriveva il Canto, tra il 3 ottobre 1943 e il 18 gennaio 1944, Itzak
Katzenelson era sospeso tra il ghetto di Varsavia, da cui era riuscito a
scampare a stento, dopo aver perso la moglie e un figlio, e il campo di
Auschwitz, in cui sarebbe stato ucciso di lì a pochi mesi. Primo Levi definì
giustamente quest´opera come "il canto di un morituro..un lamento disperato e
talora grezzo".
Quando i nazisti invasero la Polonia, Katzenelson aveva già alle spalle un´
importante carriera letteraria. Aveva scritto per il teatro, tra l´altro per
quello d´avanguardia della "Habima" di Mosca, e poi opere per l´infanzia e
poesie. Discendeva da una famiglia di rabbini e si trovava a proprio agio tanto
tra le movenze ieratiche dell´ebraico quanto nel laico yiddish. Nel 1937
pubblicò la propria opera lirica in tre volumi, con una premessa preveggente e
tragica: "Davanti a noi è il medioevo, con i giorni dell´oltraggio e della
bestemmia. E´ tornato un medioevo d´affanno e tenebra, e già nereggia sulla
valle del pianto".
La stessa lucidità, ma ampliata a dismisura e tesa ai limiti della parola,
risuona nel Canto. Katzenelson sa già tutto: i vagoni che non si stancano d´
inghiottire gli ebrei mandati a morte, il collaborazionismo vigliacco di molti
notabili della comunità, la colpa collettiva e incancellabile del popolo
tedesco. I suoi versi non si scagliano contro i nazisti, sarebbe stato troppo
poco, ma maledicono "ottanta milioni di assassini".
Poiché conosce a menadito le invettive antiche dei profeti biblici,
Katzenelson sa anche che dal pozzo in cui la storia lo ha buttato non usciranno
né lui né i suoi compagni, e nemmeno i suoi lettori postumi. Del resto neanche
i profeti possono essere d´aiuto: "Ezechiele, lui no, Geremia nemmeno, non mi
serve...non li aspetterò per il mio ultimo canto, se ne stiano tra le loro
profezie, io me ne sto con il mio immenso affanno". Scritto di nascosto e
infilato in tre bottiglie sigillate, sepolte ai piedi di un albero del campo di
concentramento francese di Vittel, prima della partenza per Auschwitz, il Canto
di Katzenelson fu ritrovato nel 1945. Ma ogni volta che lo si rilegge è come se
lo si dovesse scavar fuori a fatica dalla sua fossa di tenebre.
Giulio Busi
Il Sole 24 ore