Un altro segnale del cambiamento della politica estera americana, l'Afghanistan. Sul CORRIERE della SERA di oggi, 08/03/2009, a pag.10-11 l'analisi di Guido Olimpio e l'intervista di Ennio caretto al politologo Benjamin Barber:
Guido Olimpio: " E' la strategia di Petraeus, ma l'Afghanistan è diverso "
La dottrina del generale Petraeus in Iraq ha funzionato perché ha sfoderato il pragmatismo, migliorato l'intelligence e sfruttato gli errori qaedisti.
Correggendo la strategia del post-invasione, il Pentagono ha stretto un patto con una parte della resistenza sunnita spingendola a puntare i fucili sugli estremisti.Quindi ha cementato l'alleanza pagando, di fatto, le milizie create dai clan tribali. Lo sheikh da guida patriarcale si è trasformato in capo militare e garante dell'accordo. Infine gli Usa hanno inserito un cuneo tra i «nazionalisti» — una formazione composita di ex baathisti, jihadisti locali, ribelli — e gli apostoli del terrore. Un'operazione agevolata dallo stragismo indiscriminato inaugurato da Abu Musab Al Zarqawi.
Oggi il presidente Obama, d'accordo con Petraeus e lavorando su un canovaccio elaborato sotto la precedente amministrazione, dichiara di voler adattare la dottrina al teatro afghano.
L'obiettivo è separare i talebani moderati dai duri e da Bin Laden. Washington ci aveva provato nel 1998, quindi alla vigilia dell'11 settembre con la mediazione saudita. Una teoria, tra l'altro, ha ipotizzato che Osama abbia usato l'attacco all'America anche per impedire l'accordo sulla sua testa. Quando poi gli americani sono intervenuti per cacciare i talebani (2001-2002), è toccato alla Cia comprarsi l'appoggio o quantomeno la «neutralità » di molti signori della guerra afghani. Un progetto riattivato, con l'aiuto questa volta dei pachistani, nel 2002 e nel 2003, ma dagli esiti sconfortanti.
Molti analisti, che pure sono d'accordo con l'idea di Petraeus, avvertono che sarà difficile replicarla in fotocopia in Afghanistan.
Intanto c'è l'avversione storica degli afghani verso lo straniero e il peso dei ribelli pashtun, fortissimi nel sud e ad est.Quindi il terreno. In Iraq il centro di gravità di una milizia è situato in una città o comunque in un'area dove il clan ha una presenza visibile. In Afghanistan il teatro è molto più variegato, meno popolato e selvaggio.
E a questa mancanza di omogeneità si aggiungono le divisioni del movimento talebano. Probabilmente non basta stringere la mano con un mullah — dopo averlo coperto d'oro — per essere sicuri che la vallata sarà pacificata. E quale sarà la sua rappresentatività? Per alcuni osservatori, però, è più facile arrivare ad un'intesa partendo dal basso — esempio: intesa con un sotto-clan — che cercare il patto con il leader vero. Magari chiudendo gli occhi sui traffici di droga dei signori della guerra, come ipotizzano fonti diplomatiche occidentali.
Ma la più grande differenza rispetto all'Iraq è rappresentata dal vulcano chiamato Pakistan, usato sia come base per colpire in Afghanistan che come campo di battaglia. Parte dei suoi 007 operano contro il terrore ma altri fanno da spalla a chi organizza attentati. A Kabul, a Mumbai o a Lahore.
Le ultime notizie dalla regione dicono che tre grandi formazioni talebane pachistane, mettendo da parte vecchie rivalità, hanno costituito un'alleanza per rispondere all'invio delle nuove truppe Usa. E il mullah Omar li ha esortati a colpire.
Ennio Caretto: " Una finestra d'oppoprtunità di soli sei mesi "
WASHINGTON — Benjamin Barber, autore di
Macworld contro Jihad, dichiara che in Medio Oriente si sta aprendo «una finestra di opportunità » di sei mesi — un anno al massimo — in cui i protagonisti «potranno ridefinire se stessi» e se ci riusciranno promuovere stabilità e pace nella regione. L'ingresso di Hamas in un governo di unità nazionale in Palestina sarebbe uno dei momenti chiave di tale processo. Il filosofo politico liberal e fondatore del Movimento per la società civile, reduce da Damasco dove ha tenuto vari incontri con alti funzionari, ritiene che anche Hamas abbia forze moderate, e l'Occidente debba prendere atto che senza di esso la crisi palestinese non sarà risolta.
Per l'Occidente Hamas non è un gruppo terroristico?
«Lo è, perciò l'Occidente rifiuta di trattare. Ma anche l'Olp di Arafat fu ritenuto un gruppo terroristico eppure fu sdoganato. Per definizione un governo di unità nazionale non contiene estremisti. Se i palestinesi lo formassero, ci salverebbero la faccia e potremmo dialogare. Se non lo facessimo, perderemmo un'occasione storica».
Lei crede che Israele parteciperebbe al dialogo?
«Netanyahu ha lanciato segnali contradditori, dice che leverà dei posti di blocco ma non accetterà mai due Stati. Ma potrebbe sfruttare le sue credenziali conservatrici: come Nixon aprì l'America alla Cina, potrebbe aprire Israele alla Palestina».
Non è troppo ottimista?
«So che la maggioranza d'Israele e di Hamas è contraria al dialogo. Ma i leader mediorientali sanno che oggi c'è un'occasione unica per trattare su più fronti. In Siria, persino in Iran e nell' Hezbollah credo ci sia un minimo di disponibilità. L'America deve indurli a intervenire su Hamas, e intervenire su Israele».
La guerra di Gaza non ha reso la crisi insolubile?
«L'ha molto aggravata, ma non al punto da causare altre guerre. Paradossalmente, ha imposto una pausa di riflessione. Due esempi. Hezbollah non ha combattuto al fianco di Hamas a Gaza. E la mediazione turca tra Siria e Israele continua ».
Tuttavia non si può escludere un fiasco.
«Purtroppo no. Per questo sostengo che se non si registreranno progressi sostanziali con Hamas entro sei mesi-un anno la situazione precipiterà daccapo. Ma sono ottimista, Obama si è mosso bene su tutti i fronti».
Lei non concede troppo credito all'Iran?
«L'Iran è un'incognita, ma ha un interesse comune con l'America: la stabilità e la pace in Pakistan e Afghanistan, che però dipendono da quelle del Medio Oriente, in particolare della Palestina».
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