Le ossa di Berdicev.
La vita e il destino di Vasilij Grossman John e Carol Garrand
Traduzione di R. Franzini e Marta Cai
Marietti 1820 Euro 25,00
Il 14 febbraio 1961 tre uomini del Kgb, un colonnello e due maggiori, bussarono alla porta di Vasilij Grossman, scrittore conosciuto dal grande pubblico russo per un libro patriottico, “Il popolo è immortale”, pubblicato nel 1943, e per le corrispondenze di guerra apparse su “Stella Rossa”, il quotidiano dell’Armata Rossa.
La missione affidata ai tre ufficiali, nella Mosca del disgelo chrusceviano, non è di mettere le manette a Grossman ma di arrestare un romanzo, Vita e destino. Vale a dire l’opera narrativa alla quale aveva lavorato con assoluta concentrazione per un decennio lo scrittore nato nel 1905 a Berdicev, città ucraina che sino ai primi decenni del secolo contava una popolazione ebraica pari all’ottanta per cento degli abitanti.
Negli anni del “disgelo”, conseguenti alla destalinizzazione, al burocrate Cernoucan, membro del Comitato centrale incaricato di seguire la faccenda per conto del partito, era parsa geniale l’idea di “prendere in custodia” tutte le copie manoscritte e dattiloscritte del romanzo appena ultimato – nonché i nastri delle macchine da scrivere usate e la carta carbone impiegata per le duplicazioni – lasciando tuttavia incolume, anzi addirittura in libertà, l’autore di pagine ritenute assolutamente scomode per il regime. In un certo senso – come spiegano John e Carol Garrand nella massiccia e articolatissima biografia dello scrittore “Le ossa di Berdicev. La vita e il destino di Vasilij Grossman, uscita negli Usa nel 1996 e ora pubblicata da Marietti 1820 -, Cernoucan “si sentiva davvero orgoglioso del suo buon cuore”.
Non la pensava ovviamente così Grossman che, inizialmente annichilito dalla sottrazione dell’opera e dall’affermazione dell’ideologo del Pcus Suslov secondo il quale dovevano passare 250 anni prima che potesse essere pubblicata, per qualche tempo ha difficoltà a percepire pienamente la definitiva brutalità di quell’ostracismo. Poi però, come vanno a ricostruire i suoi due biografi, l’accaduto obbliga Grossman a fare i conti con tutta la sua parabola di uomo e di scrittore.
Figlio di un’importante e facoltosa famiglia ebraica aveva infatti rimosso nei suoi primi passi di scrittore non solo le sue radici ma, in cambio dei benefits erogati agli intellettuali servizievoli, aveva cercato di non vedere neppure i cruenti marosi delle purghe staliniane che pure lo avevano colpito da vicino. Ad esempio quando la polizia di Stalin aveva arrestato Nadja, la combattiva cugina che lo aveva ospitato a Mosca e lo aveva introdotto negli ambienti letterari della capitale. Pavido – ma era di pochissimi il coraggio davanti agli sgherri del Nkvd – Grossman in quegli anni firma appelli di sostegno alle purghe ma si comporta con dignità e coraggio quando a finire in carcere è la seconda moglie di cui, esponendosi non poco, riesce a ottenere il rilascio.
Sono gli anni di sangue che dilaniano l’Urss e il Pcus. Basti pensare che dei 1966 delegati del congresso di partito del ’34 ben 1108 finiscono fucilati nel corso del quinquennio successivo. Paradossalmente è l’invasione tedesca che colpisce la Russia a far spirare, pur nell’immane tragedia che si apre, refoli di libertà e di dignità. Tutto quanto comporrà l’immenso, magistrale e terribile affresco affidato a “Vita e destino” – pubblicato prima a Losanna e poi in Italia nel 1983, da Jaca Book, e nel 2008 da Adelphi – viene vissuto da Grossman in prima persona.
Lo scrittore si arruola volontario nell’Armata Rossa. Come corrispondente militare segue con straordinario coraggio l’epico scontro che a Stalingrado oppone i russi ai tedeschi. Sono pagine di una guerra senza limiti nel corso della quale Grossman scorge sempre più chiaramente, accanto all’eroismo dei tanti soldati Ivan che consentiranno la vittoria, la cinica brutalità, spesso l’idiozia strategica e l’arroganza, con cui Stalin e molti dei suoi tirapiedi guidano il paese. Nella natia ucraina ha modo di constatare non solo la devastante applicazione della soluzione finale che stermina buona parte della popolazione ebraica, compresa sua madre rimasta nella natale Berdicev, ma, anche, come la strategia di annientamento voluta dai nazisti si saldi ai sentimenti antisemiti assai diffusi nella popolazione ucraina. Sono umori che già nei decenni precedenti, anche sotto il nuovo regime, avevano dato origine a devastanti pogrom e che durante la Shoah forniscono esecutori zelanti e numerosi ai mandanti dell’annientamento.
Grossman in “Vita e destino” ripercorre di fatto le pagine indicibili della storia sovietica: le carestie che riducono l’Ucraina “granaio dell’impero” a luogo dove si registrano, per fame, casi di cannibalismo; l’antisemitismo della popolazione e il ruolo che la Shoah gioca in terra sovietica; la siderale lontananza dei satrapi del Cremino dalla gente comune. Sono proprio le cose di cui non si può parlare, neppure nell’Urss del disgelo.
E invano Grossman – che muore nel 1964 in un penoso isolamento – chiederà a Chrušcev di “liberare il suo romanzo” poiché, gli scrive, “non vi è alcun senso, alcuna verità nella situazione in cui io sono fisicamente libero mentre il mio libro rimane imprigionato”.
“Vita e destino” verrà pubblicato in Russia 25 anni, non 250, dopo il sequestro.
Giorgio Boatti
Tuttolibri – La Stampa