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Giorgia Greco
Libri & Recensioni
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Tadeusz Borowski-Da questa parte per il gas 04/03/2009

Da questa parte per il gas                           Tadeusz Borowski

 

Traduzione di Giovanna Tomassucci

 

L’ancora del mediterraneo                     Euro 17,50

 

 

 

Lo scrittore polacco Tadeusz Borowski (1922-1951), nella sua breve esistenza, fu in continuo contatto con gli orrori dei totalitarismi e fu tra i pochi scrittori europei che riuscirono a toccare il cuore della tenebra ed essere capaci di descriverlo. “Tagliente e quasi crudele” lo definisce Pier Vincenzo Mengaldo, nell’importante studio “La vendetta e il racconto” (Bollati Boringhieri, 2007). Nato a Zitomir (in Ucraina), nel 1926 vide il padre arrestato e deportato e, nel 1930, fu il turno della madre, deportata in Siberia. Nel 1932 il padre fu scambiato con alcuni prigionieri comunisti ed emigrò con i figli a Varsavia. Il giovane Borowski, dopo lo scoppio della guerra continuò gli studi nella clandestinità e pubblicò le sue prime poesie. Il 24 febbraio del 1943 fu arrestato e trasferito ad Auschwitz dove fu marchiato con il numero 119198 e assegnato alla mansione di infermiere.

Nel 1944, per raggiungere la sua fidanzata, riuscì a farsi trasferire in un campo di concentramento in Germania. Borowski, non essendo ebreo, ebbe la possibilità di salvarsi, e avere qualche privilegio, collaborando con la macchina dello sterminio. Lo fece per istinto di sopravvivenza, ma dovette ingigantire il suo cinismo e soffocare ogni sentimento di umanità. Nei suoi racconti (una piccola scelta dei quali era già uscita in Italia, a cura di R. Pulce: Paesaggio dopo la battaglia, Il Quadrante Edizioni, Torino 1988) ci sono terribili descrizioni di bellissimi tramonti rigati dai fumi dei camini dei forni crematori e conversazioni sulle atrocità della giornata, tra i membri del Sonderkommando, che sembrano chiacchierate amene tra amici in birreria. Tutto sembra così terribilmente normale, banale, che al lettore manca il respiro di fronte a questo “distacco”. Eppure, o forse proprio per questo, il quadro che Borowski ci restituisce non ha eguali nella “letteratura dello sterminio”: nessuno è riuscito, come lui, a raccontare cosa fu Auschwitz, ne era convinto anche Primo Levi, che lo aveva letto in tedesco, e, poco prima di morire, mi aveva contattato per tradurli.

 

Dopo la liberazione, Borowski rimase un anno “in decompressione” a Monaco. Poi decise di rientrare in Polonia. Per lui tornare fu una necessità, l’unica ancora di salvezza. Con il mondo occidentale non riusciva a trovare nessuna intesa perché quel mondo non era in grado di comprendere le sue ossessioni. In Europa occidentale Borowski non vedeva nessuna possibilità di salvezza, di liberazione dalla cupezza della sua esistenza. Divenne così uno dei più zelanti servitori dell’ideologia stalinista arrivando a rinnegare tutta la sua precedente attività letteraria, definendola “una obiettiva alleanza con l’ideologia fascista”. Il poeta Czeslaw Milosz, che a Borowski ha dedicato, chiamandolo “Beta” un saggio di grande acume ne “La mente prigioniera” (1953; trad. it. Adelphi, Milano 1981, pagg. 141-166), ha sostenuto che all’origine della sua “conversione” ci sarebbe stato un amore deluso per l’uomo e il mondo, rovesciatosi in odio e repulsione per l’uomo in quanto essere fisiologico determinato dalle leggi della natura e della società, odio che sarebbe stato infine convogliato dal Partito nella direzione desiderata: “Borowski, che aveva visto nei campi di concentramento i filosofi venire alle mani per qualche avanzo trovato tra i rifiuti, riteneva che il pensiero umano non aveva significato (…).

 

Ciò che contava davvero era il movimento della materia”. La sua esistenza si avvitò in un gorgo di fanatismo, risentimento e cupe ossessioni che lo portarono a togliersi la vita, pochi giorni dopo la nascita di sua figlia.

 

 

 

Francesco M. Cataluccio

 

Il Sole 24 ore

 


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