Riportiamo da DONNA di REPUBBLICA n° 635, l'articolo dal titolo " Per noi l'Iran non è immobile " (pag. 100-103), Ecco l'articolo, preceduto dalla nostra critica.
L'articolo contiene testimonianze di giovani donne che minimizzano l'oppressione e la ferocia della dittatura. All'inizio si legge che: "E'’ vero per esempio che molti giornali sono stati chiusi, ma quelli che restano continuano a criticare duramente il governo."” Forse ci sarà pure una critica al governo, sicuramente non c'è critica verso i mullah e soprattutto verso il fondamentalismo sciita che essi rappresentano. Oppure, più avanti,: "“L'’altro Iran è quello delle donne, la maggior parte della popolazione universitaria, che fanno i medici, gli avvocati, le professoresse"”, dopo aver accennato alle “guardie della rivoluzione che presidiano ogni angolo e tengono le donne sotto tiro”, senza nemmeno citare gli arresti arbitrari, alle torture, alle lapidazioni alle impiccagioni delle malvelate, delle adultere, dei gay o di chi semplicemente osa parlare male del regime e che conclude: "“Ma se dici a una di loro: “il tuo è un cattivo governo”, molto probabilmente ti risponderà: “sì, lo so. Ma almeno un governo lo abbiamo. Abbiamo acqua potabile, strade, infrastrutture. Insomma, abbiamo una vita. Guarda cosa succede in Iraq o in Afghanistan”. Gli iraniani temono un intervento straniero nel loro Paese, non vogliono vedere i militari americani passeggiare per le loro strade. Sanno di avere dei problemi con chi li governa, ma vogliono risolverli da soli. Se gli Stati Uniti vogliono aiutarli a costruire un’opposizione forte e a far sì che i moderati vadano al potere, l'’unica strada che possono percorrere è il dialogo". Siamo sicuri che sia per tutti gli iraniani così? Allora perché molti chiedono aiuto all’occidente? Perché molti fuggono? Sharansky ci insegna che invece il dialogo con regimi feroci li avalla e li rinforza mentre bisogna sostenere i dissidenti perché è l’unico modo affinché le dittature, già deboli al loro interno, cadano lasciando il posto a sistemi più democratici. E ancora: “I giovani di Teheran oggi portano il pizzetto alla Brad Pitt e seguono la moda occidentale, hanno visto Milk e Revolutionary Road, film che ovviamente sono vietati nelle sale, ma che vengono comodamente consegnati da pony express a domicilio, in dvd, con o senza sottotitoli in persiano, come la pizza (o qualsiasi altra merce uno desideri acquistare).” Insomma, meglio forse dei brutti e cattivi Paesi democratici, dove i giovani si devono “scomodare” per andare al cinema, invece che ricevere “comodamente.. da pony express a domicilio”... Segue un elogio dell’Hijab, il velo che le iraniane sono costrette a portare. Non vogliamo entrare nel merito, è una questione religiosa personale che deve essere rispettata, ma non sarebbe opportuno che si intervistasse anche chi vorrebbe essere libera di non portarlo? E non sarebbe opportuno ricordare quante donne hanno sofferto perché non lo portavano in maniera appropriata? E’ giusto far vedere i diversi aspetti di un Paese, molto meno giusto avallare un regime brutale, sanguinario, filonazista che vuole distruggere mezzo mondo per imporre la sua visione millenarista. Ecco l'articolo:
Amore, amicizia, libertà sociale, la BMW, i soldi, l’università, la moda, il Golfo Persico, il derby che si giocherà nei prossimi giorni a Teheran tra le due squadre di calcio della capitale, Persepolis ed Esteghlal, la Coppa del Mondo. Queste, nell’ordine, le risposte a un piccolo sondaggio che ho fatto chiedendo per e-mail alle tante ragazze iraniane che ho conosciuto in anni di frequentazione dell’Iran quali siano i loro sogni e le loro icone. In Iran i giovani sotto i 30 anni sono il 70 per cento della popolazione e passano, soprattutto le ragazze, ore della loro giornata in rete: letteralmente ore, non solo perché come le loro coetanee occidentali amano chattare, ma perché le autorità iraniane, allo scopo di rallentare la diffusione di internet, proibiscono i collegamenti veloci. Le risposte confermano come i giovani in Iran non siano diversi dai loro coetanei occidentali, che i rapporti con l’altro sesso, i consumi e il calcio sono in cima ai loro pensieri, e quanto l’Iran - contrariamente alla percezione, largamente diffusa, di Paese fanatico, fiero dei propri codici di vestiario e di comportamento medievali - sia occidentalizzato. Solo il Golfo Persico, all’ottavo posto nelle preferenze, spicca come una sorpresa, se non si sa che il Golfo è uno dei pilastri su cui poggia l’orgoglio di provenire da un impero antico di millenni, che ha insegnato molto al resto del mondo, e che esige perciò di vedersi riconosciuto un ruolo nella regione. I giovani di Teheran oggi portano il pizzetto alla Brad Pitt e seguono la moda occidentale, hanno visto Milk e Revolutionary Road, film che ovviamente sono vietati nelle sale, ma che vengono comodamente consegnati da pony express a domicilio, in dvd, con o senza sottotitoli in persiano, come la pizza (o qualsiasi altra merce uno desideri acquistare). Naturalmente, si tratta di giovani della classe media. Ma la classe media si allarga sul piano culturale a macchiad’olio, perché i giovani sono scolarizzati. Comprese le ragazze, grazie - per quanto sembri paradossale - al chador e alla separazione dei sessi, che ha tolto argomenti ai padri padroni che prima della rivoluzione si rifiutavano di mandarle a scuola. Milioni di donne sono uscite dalle famiglie per riempire università e uffici dopo che Khomeini impose l’obbligo dell’hejab - cioè di coprirsi dal capo ai piedi -, stesso obbligo che divenne una prigione per le iraniane della borghesia laica abituate a vestire all’occidentale. Oggi, che le donne sono il 66% degli studenti universitari, in parlamento si fa strada una nuova minaccia: istituire “quote azzurre” per salvare i posti ai maschi. «La mia Teheran underground» Firouzeh Khosrovani, documentarista, 36 anni Non è un grosso sforzo uscire con un foulard sulla testa, ma quando pensi che quello è il simbolo di un’ideologia imposta, ti rendi conto che è intollerabile. Il velo lo abbiamo accettato come si accetta un’identità nuova, che ti è attribuita da qualcun altro: fatichi ad abituarti, ma alla fine ti ci adatti. In realtà, però, non è certo questa la maggiore limitazione a cui ci dobbiamo piegare. La cosa più grave, che interessa donne e uomini, è la totale assenza di un’informazione libera. Oggi, anche a causa della prossimità delle elezioni, abbiamo raggiunto il punto più basso: i media sono completamente controllati dal governo, i giornali riformisti sono imbavagliati. Moltissimi giornalisti hanno trovato rifugio sui blog: il pharsi è la quarta lingua più diffusa su internet, e questo è un riflesso naturale della mancata libertà di stampa. Per informarci e comunicare dobbiamo ricorrere alla rete, e, sebbene il controllo del Governo si estenda anche lì e molti siti vengano oscurati, ormai siamo diventati espertissimi nell’elaborare software in grado di superare le operazioni di filtraggio. Per il futuro, però, sono ottimista. L’Iran è attraversato da un irreversibile processo di presa di coscienza: molto è dovuto al lavoro di quelle donne, che, nonostante la durissima repressione, continuano a combattere per i loro diritti. Religiose o laiche che siano, sono più avanti rispetto alla legge, e sono loro il vero motore del cambiamento: la repubblica islamica lo sa e per questo si sente così minacciata. Un’altra componente decisiva è il fatto che l’Iran è un Paese giovane: il 70% della popolazione ha meno di 30 anni. È impossibile pensare che tutti questi ragazzi rinuncino a divertirsi, a vivere liberamente. Per questo Teheran ha una vita underground così movimentata. Nelle case, alle feste, il clima è molto dionisiaco: ci si cambia di vestito, ci si trucca, si balla, si ascolta musica e poi si parla di tutto, dalla moda ai sentimenti, alla politica. Per le prossime elezioni spero nel ritorno di Khatami. Nello scenario attuale, mi sembra l’unica cosa auspicabile. Dal nuovo governo vorrei, prima di tutto, un intervento nella sfera socio-culturale: un’apertura sulle libertà, un aiuto per ricostruire la società civile e per sostenere l’associazionismo. «Dalle 5 fotografe di 10 anni fa alle 100 di oggi» Newsha Tavakolian, fotografa, 29 anni Ogni giorno, noi iraniani dobbiamo fare i conti con moltissime restrizioni, ma abbiamo trovato il nostro modo per superarle. Siamo diventati più pronti, più elastici. E nonostante ci sia imposto il rispetto della tradizione, non siamo mai completamente limitati nel raggiungere i nostri obiettivi. La società, insomma, non è immobile: parlo della situazione dei mezzi di comunicazione, ma anche dei diritti delle donne, che seguono una loro evoluzione. È vero per esempio che molti giornali sono stati chiusi, ma quelli che restano continuano a criticare duramente il governo. Un caso significativo è quello riguardante l’ex ministro dell’Interno Ali Kordan: sono stati i giornali a rivelare che la sua laurea era falsa, ed è stato sottoposto all’impeachment dopo la denuncia della stampa. Quanto alle donne, come è accaduto già in moltissimi Paesi occidentali, le iraniane hanno progressivamente cambiato i loro orizzonti e le loro aspettative: non vogliono più solo stare a casa ad accudire i bambini, vogliono un buon lavoro, guadagnare i loro soldi, pensare con la loro testa. La società, a questo punto, deve adattarsi. E questo, anche se len lentamente, sta succedendo: quando ho cominciato a fotografare, 13 anni fa, erano solo 5 le donne fotografe che lavoravano in Iran, oggi ce ne sono centinaia. Per il futuro, non posso che sperare che venga eletto un governo che si impegni a risolvere i problemi economici e sociali. Credo che, prima di preoccuparsi di come potenziare l’immagine dell’Iran all’estero, debba essere questa la priorità di chi è al potere. «Britney Spears e l’opposizione» Marina Nemat, scrittrice, 43 anni Quando si parla di Iran, la prima immagine a cui pensano gli occidentali è quella del fondamentalismo islamico. Ma il vero Iran è un altro. È quello che un filmaker norvegese ha raccontato nel suo bellissimo documentario Forbidden Future, girato a Teheran tra il 2005 e il 2006. È un film sulla vita di tre iraniani: una giovane sciatrice appassionata di freestyle, che riesce a partecipare a un campionato internazionale e arriva terza; il cantante e chitarrista di un gruppo death metal, che viene arrestato a causa della sua musica, e un pittore condannato a morte per aver usato modelle nude nei suoi quadri. Ecco, questo è l’Iran di oggi, quello dei giovani, dei musicisti, dei pittori, dei poeti, che raccontano, attraverso l’arte, l’esperienza umana di un popolo abituato a essere invaso e a combattere contro gli invasori. Il Paese è diviso in due. C’è un Iran che vedi quando, da turista, arrivi nelle città. Teheran è una città bellissima, cosmopolita, piena di fiori e grattacieli, con una bella metropolitana, bus, macchine, e 12 milioni di abitanti. Ma è anche la città dove le guardie della rivoluzione presidiano ogni angolo e tengono le donne sotto tiro, dove, negli ultimi dieci anni, a causa di una urbanizzazione rapidissima e di un afflusso enorme di persone dai villaggi e dalle campagne, si è ampliato molto il divario tra ricchi e poveri. L’altro Iran è quello delle donne, la maggior parte della popolazione universitaria, che fanno i medici, gli avvocati, le professoresse. Nelle case della classe media scopri un altro mondo, quello degli iraniani che amano divertirsi, avere ospiti, interagire con gli europei, con gli americani, con gli asiatici. I loro appartamenti sono pieni di mega-schermi e di pile di dvd degli ultimi film di Hollywood. In tv si guardano i canali satellitari, alla radio si ascoltano le stazioni inglesi, americane, francesi. Nelle case della borghesia, le ragazze indossano gli abiti dei migliori stilisti italiani, ascoltano Britney Spears, bevono vino, criticano il governo. Ma se dici a una di loro: “il tuo è un cattivo governo”, molto probabilmente ti risponderà: “sì, lo so. Ma almeno un governo lo abbiamo. Abbiamo acqua potabile, strade, infrastrutture. Insomma, abbiamo una vita. Guarda cosa succede in Iraq o in Afghanistan”. Gli iraniani temono un intervento straniero nel loro Paese, non vogliono vedere i militari americani passeggiare per le loro strade. Sanno di avere dei problemi con chi li governa, ma vogliono risolverli da soli. Se gli Stati Uniti vogliono aiutarli a costruire un’opposizione forte e a far sì che i moderati vadano al potere, l’unica strada che possono percorrere è il dialogo.
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