Ieri si è tenuta a Sharm el Sheikh la conferenza per la ricostruzione di Gaza. La somma raccolta dai 71 Stati partecipanti è di circa quattro miliardi e mezzo di dollari. Di seguito riportiamo la cronaca " Summit per Gaza: 4,5 miliardi di aiuti " di Francesco Battistini a pag. 8 del CORRIERE della SERA, il commento di R. A. Segre " " a pag. 3 del GIORNALE, il commento di Antonio Ferrari " Quei miliardi per Gaza " a pag. 38 del CORRIERE della SERA e due brevi da MANIFESTO e SOLE 24 ORE. Ecco gli articoli:
CORRIERE della SERA - Francesco Battistini : " Summit per Gaza: 4,5 miliardi di aiuti "
SHARM EL SHEIKH (Egitto) — Le lettere che Hamas manda alla Casa Bianca? Non pervenute. Le profferte di Damasco e di Teheran? Idem. Al suo esordio mediorientale, Hillary Clinton dimostra che tutto è cambiato perché nulla cambi. Almeno per ora. Di primo mattino, severa come il suo vestito nero, dura come il brillante che ha spillato sulla spalla, la nuova segretaria di Stato chiarisce subito che i soldi per Gaza sono di meno: gli Stati Uniti daranno 900 milioni di dollari ai palestinesi, sì, ma 600 staranno lontani dalla Striscia di Hamas («non vogliamo finiscano nelle mani sbagliate») e andranno nella Cisgiordania del Fatah, per pagare gli stipendi e coprire i buchi di Abu Mazen.
Poi, se qualcuno sperava di vederla sui divanetti a scongelare i rapporti col ministro degli Esteri siriano, aspetti un'altra volta: la Clinton incrocia Walid Moallem al buffet, in un salone del Centro congressi di Sharm el Sheikh, lui già seduto e lei che gli passa dietro, e l'occasione è solo una cordiale stretta di mano, molto meno di quel che a settembre concedeva Condoleezza Rice.
Il pomeriggio, infine, di fronte un ministro emiratino perplesso per le aperture di Obama, l'inviata americana tranquillizza sull'Iran. La mano verso Ahmadinejad sarà aperta come dice il suo presidente, certo, ma lo saranno pure gli occhi: «Non sono così ingenua e non mi faccio illusioni. Anzi, sono scettica e ho dei dubbi che l'Iran risponderà a queste aperture».
Clinton un, due, tre. I terroristi restano tali. Gli Stati-canaglia, pure. E per dirla con Silvio Berlusconi, «chi pensava che la politica estera americana fosse cambiata, si sbagliava». La Conferenza per la ricostruzione di Gaza — 71 Paesi donatori, un telethon dei governi che puntava a raccogliere almeno tre miliardi di dollari e invece sfonda la cifra di quattro miliardi e mezzo, con le superdonazioni di arabi ed Europa, dell'Italia che promette 100 milioni (cifra «spalmata» su quattro anni, fino al 2011), ma anche di Paesi lontani come l'Australia e la Corea del Sud — serve a studiare soprattutto lei. E a dimostrare che Hillarycare, come la chiamavano i perfidi ai tempi in cui andava allo sbaraglio e si faceva bocciare la sua health care, i piani sanità, ha imparato ad andarci cauta.
I piani per il Medio Oriente, dopo l'annuncio del lento ritiro dall'Iraq, non mostrano al momento novità: «L'unica soluzione al conflitto arabo-israeliano è quella dei due Stati» (andrà fatta digerire al premier incaricato Netanyahu), «e comunque Obama intende proseguire sulla via già segnata dall'amministrazione Bush» (brivido in sala dei delegati arabi).
La sua linea è blandamente condivisa, almeno su questo: «I nostri partner sono Abu Mazen e il governo Fayyad», dice, «a Gaza serve una tregua duratura », e Israele deve aprire un po' di più i valichi. Perché lo pensa anche Ban Ki-Moon, il segretario dell'Onu: «La situazione ai confini della Striscia è intollerabile » e i camion con gli aiuti devono entrare, anche se il governo israeliano avverte che il cemento, l'acciaio e tutti quei materiali servono a costruire, oltre che case, pure i razzi. Se «il 2009 dev'essere l'anno della pace », come invoca Nicolas Sarkozy, e dopo «questa guerra inutile» la soluzione per i palestinesi (ma anche in Israele, sostiene l'Europa) è un governo d'unità nazionale, la cura di Hillary comincia oggi. Sulla via di Gerusalemme e di Ramallah. «La prima mossa è nella direzione sbagliata», dice già Hamas. Che non manca di festeggiare la conferenza col lancio di sei Qassam. E in fondo, di sentirsi un po' delusa.
Il GIORNALE - R. A. Segre : " Ma i fondi non vadano ad Hamas "
Le 80 delegazioni riunite a Sharm el Sheikh sul Mar Rosso su invito dei presidenti dell’Egitto e della Francia per discutere degli aiuti internazionali alla ricostruzione di Gaza dopo l’operazione israeliana contro Hamas debbono affrontare un triplo tentativo di quadratura del cerchio. C’è anzitutto il problema dei fondi. I vari governi avevano promesso di fornire 1,7 miliardi di dollari e i palestinesi, rappresentati dal presidente Abu Mazen (responsabile per quelli della Cisgiordania occupata da Israele), ne domandavano altri 2 in virtù di una ritrovata unità palestinese che non c’è, dal momento che Gaza è sotto controllo di Hamas che di Abu Mazen e dalla sua amministrazione non ne vuol sapere. In altre parole – prima quadratura del cerchio - come realizzare l’accordo fra i fratelli nemici palestinesi. Secondo problema: come creare dei canali per il trasferimento dei fondi ai palestinesi che garantiscano che non cadano nelle mani di Hamas (ancora ieri dichiarata organizzazione terrorista dal «quartetto» delle grandi potenze responsabile per la pace nel Medio Oriente) che non intende rinunciare al suo impegno di distruggere Israele. Seconda quadratura del cerchio... Terzo problema: come si può parlare di aiuti economici alla ricostruzione di Gaza – dice Natanyahu, premier incaricato di formare il prossimo governo di Gerusalemme - quando da Gaza continuano a piovere su Israele razzi e tiri di mortai? Impossibile chiedere a Israele di levare il blocco a Gaza – indispensabile per la fornitura degli aiuti – se Hamas continua a colpire centri civili israeliani e intende continuare ad armarsi. Israele non può cooperare a una «ricostruzione» di Gaza ai propri danni. Altra quadratura del cerchio. Come se questo poi non bastasse, dietro l’ordine del giorno ufficiale della conferenza vi sono almeno due temi che il nuovo segretario di Stato americano Hillary Clinton dovrà affrontare. Il primo tema concerne la politica americana da seguire nei confronti della spaccatura del mondo islamico fra sunniti e sciiti. Essa oppone lo schieramento guidato dall’Arabia Saudita, dall’Egitto, dalla Giordania e dai Paesi del Golfo (con l’eccezione del Qatar) a quello guidato dall’Iran assieme alla Siria, gli Hezbollah libanesi e Hamas a Gaza. Questo contrasto politico e religioso, che concerne fra l’altro la legittimità del controllo dei luoghi santi dell’Islam, influenza direttamente e indirettamente quello palestinese. Il secondo tema è rappresentato dalla incognita governativa israeliana. Un governo di destra guidato da Netanyahu appare pericoloso per tutti coloro che credono che la soluzione del conflitto medio-orientale risieda nella coesistenza in Palestina di uno Stato palestinese e di uno Stato israeliano. Un governo del genere fondato sulla coalizione di sette partiti e partitini legati a interessi religiosi, politici ed economici inconciliabili, è una formula sicura di instabilità in politica interna e di immobilismo in politica estera. Netanyahu ne è cosciente. Il suo tentativo di attirare nella coalizione l’attuale ministro della difesa Barak con almeno una parte del Partito laburista uscito malconcio dalle ultime elezioni, è un chiaro tentativo di isolare la signora Livni nel rifiuto di far partecipare il suo partito Kadima in un governo di unione nazionale. Si tratta di una brillante mossa che l’opinione pubblica israeliana apprezzerebbe di più se non fosse condotta in una situazione di crisi interna e internazionale che richiede rapide decisioni piuttosto che mercanteggiamento di interessi personali e partitici.
CORRIERE della SERA - Antonio Ferrari : " Quei miliardi per Gaza "
Può un'impetuosa cascata di dollari risolvere i problemi palestinesi, permettere la ricostruzione di Gaza devastata dalla guerra, rafforzare le istituzioni dell'Anp, convincere Hamas a riconoscere Israele e il futuro governo di Netanyahu ad accettare la soluzione dei due Stati?
La risposta è controversa. Si potrebbe essere affermativi soltanto a tre condizioni: che il denaro venga davvero utilizzato per migliorare la vita dei palestinesi, che non finisca in «mani sbagliate», e che il generoso aiuto dei Paesi donatori sia vincolato ad uno sforzo comune per avviare un complessivo processo di pace.
Le dichiarazioni ascoltate al vertice di Sharm el Sheikh, voluto dal presidente egiziano Mubarak, che ha raccolto sul Mar Rosso i rappresentanti di 90 Paesi e istituzioni planetarie, sembrano andare nella giusta direzione. Però se la disponibilità finanziaria è garantita, non lo è altrettanto la volontà politica delle parti interessate: il dialogo interpalestinese deve ancora cominciare, e poi vi è il rischio che il governo di Gerusalemme proceda a intensificare gli insediamenti, rendendo vane le speranze di vedere uno Stato palestinese accanto a Israele.
Ci sono tuttavia alcuni motivi per giustificare un moderato ottimismo. Il primo è storico. Come è accaduto nel passato, dopo un evento traumatico si è spesso materializzata la possibilità di far sedere amici e nemici attorno allo stesso tavolo. Accadde nel '91, dopo la guerra per liberare il Kuwait, quando il segretario di Stato James Baker (braccio destro del presidente Bush padre) convocò la conferenza di Madrid, raggruppando israeliani, siriani, libanesi, giordani e palestinesi, e avviando quel processo che avrebbe portato agli accordi di Oslo. Potrebbe accadere oggi, dopo la guerra di Gaza, con il contributo di Hillary Clinton, che ha portato a Sharm il vento positivo di quell'atmosfera e l'orgoglio di guidare la diplomazia di un Paese che, come ha detto giorni fa il siriano Assad, «è insostituibile ».
Un altro motivo è di politica regionale. Da qualche giorno, pur rifiutando contatti con Hamas, vi sono visite continue nella Striscia. Un «va e vieni» interessante: John Kerry, Xavier Solana, lo stesso Toni Blair, che intende rivitalizzare il Quartetto (Usa, Ue, Russia e Onu) di cui è il rappresentante. Il tutto collegato con l'attivismo dell'ala dialogante di Hamas, che al Cairo è entrata nelle sei commissioni per rendere stabile la tregua e avviare la riconciliazione con i laici del Fatah, quindi con Abu Mazen.
I distinguo sulla destinazione del denaro per la ricostruzione di Gaza è il primo spartiacque: gli Stati Uniti hanno deciso di donare 900 milioni di dollari, 600 all'Anp e 300 per la Striscia. L'Italia, oltre agli aiuti della Ue, partecipa con 100 milioni, come ha annunciato Berlusconi. L'Arabia Saudita è pronta a corrispondere per un miliardo di dollari. Somma enorme, che Riad investe anche per cementare il suo piano del 2002, che prevede il ritiro di Israele alle frontiere del 1967 in cambio della normalizzazione dei rapporti con i Paesi della Lega araba.
Un omaggio ai sauditi lo ha rivolto proprio la Clinton, sostenendo di essersi ispirata alla loro «proposta». Teoricamente, si parte insomma con la giusta determinazione. Ma oltre al denaro e alle belle parole occorrono i fatti. Per l'inviata del presidente Obama comincia ora la parte più difficile: la missione a Gerusalemme da Netanyahu, e a Ramallah da Abu Mazen. Se vincesse la ragionevolezza, entrambi, israeliani e palestinesi, dovrebbero scegliere la via di governi di unità nazionale. Via impervia, ma non vi sono alternative.
Il MANIFESTO - dedica alla conferenza di Sharm el Sheikh l'articolo a pag. 11 di Michele Giorgio (" Gaza, promessa una pioggia d'aiuti per la ricostruzione"). Il quotidiano comunista non esita a raccontare bugie, pur di convincere il lettore che l'unico responsabile della situazione a Gaza è Israele. Giorgio è chiaramente schierato a favore dei terroristi di Hamas, tanto che arriva a scrivere: "Per Hamas nemmeno una parola ma il Segretario di stato ( Hillary Clinton, ndr) rivolge un appello per «l’interruzione del ciclo del rifiuto e della resistenza» e la fine dello «sfruttamento della sofferenza degli innocenti». Nessun riferimento anche alla massiccia offensiva israeliana che ha messo in ginocchio Gaza. Le promesse generose fatte da arabi ed occidentali non suscitano entusiasmo a Gaza dove la popolazione è consapevole che le condizioni poste dalla Comunità internazionale, contraria alla possibilità che Hamas (che controlla Gaza da due anni) gestisca gli aiuti. Tutto ciò mentre «Mujama islami», la principale istituzione assistenziale di Hamas, pare ( pare? Non è nemmeno una cosa certa...ci chiediamo, inoltre, quale sia la fonte di Giorgio ) abbia già distribuito in tutta Gaza decine di milioni di dollari in risarcimenti alle famiglie delle vittime dell’attacco israeliano, ai feriti e a coloro che hanno perduto la casa. «I fondi di cui abbiamo sentito parlare a Sharm el Sheikh non arriveranno mai a Gaza - prevede Raed Abu Shabab, insegnante a Maghazi - così come non abbiamo visto aiuti negli anni passati.
Può anche darsi che Hamas abbia distribuito alla popolazione di Gaza dei soldi per la ricostruzione, almeno quelli ricevuti dai regimi islamici, ma questo rende ancora più improbabile che sia un'altra entità a gestire quattro miliardi e mezzo di $ che stanno per arrivare. Ma questo Giorgio non lo scrive.
Il SOLE 24 ORE - L'articolo " Pioggia di aiuti per Gaza " a pag. 11 di Ugo Tramballi si focalizza sul fatto che, a suo avviso, la conferenza per la ricostruzione di Gaza sarà un fallimento per colpa di Israele, che non farebbe altro che boicottare ogni iniziativa umanitaria in favore dei palestinesi. Questo risulta chiaro dalla frase : " Ma tanta solidarietà continua a scontrarsi con la realtà. Il boicottaggio israeliano impedisce l'invio di ciò che il denaro può comprare per ricostruire: cemento, acciaio, bitume e molto altro (...). E poi c'è Hamas che ha il potere sul campo per fermare qualunque ricostruzione ce non lo riguardi ". Non solo Tramballi si "dimentica" di specificare per quale motivo alcuni camion di aiuti vengono bloccati (e cioè perchè potrebbero conterere armi o materiali utili a costruire esplosivi) , ma mette anche sullo stesso piano Israele e Hamas, colpevoli, secondo lui, in egual misura della miseria dei civili di Gaza. Israele non è più uno Stato che si difende, ma un aggressore dello stesso livello di Hamas.
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