Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 25/02/2009, l'articolo " Due città, due anime e un esercito più religioso per Israele " . Ecco il pezzo:
Gerusalemme. A Tel Aviv, tra una birra in un bar trendy di Neve Tzedek e una passeggiata sul lungo mare mentre i surfisti aspettano l’onda buona, ti chiedono cosa ci vai a fare a Gerusalemme: l’ultima volta che ci sono stati, controvoglia, sono andati a trovare un lontano parente oppure ad accompagnare un amico in visita turistica. Quei 60 chilometri che separano la Città santa dal celebre centro del divertimento cosmopolita raccontano un divario, quello tra l’anima religiosa e l’anima laica d’Israele: convivono, interagiscono a distanza, a volte si toccano. Qualcuno parla addirittura di una guerra interna, che dura dalla fondazione dello stato, tra religiosi e laici. Theodor Herzl, padre del sionismo moderno, diceva: “Dobbiamo tenere i nostri preti dentro i confini dei loro templi”. Ma nel 1948, il primo leader d’Israele, David Ben Gurion, chiama a sedere nel suo governo le guide religiose, per attirare nel nuovo stato anche la componente più pia della diaspora. Garantisce ai rabbini il monopolio su matrimoni e divorzi, sul cibo e su altre questioni. Così, ancora oggi, il sabato, il giorno sacro del riposo, gli autobus non circolano nelle vie solitamente trafficate di Mea Shearim, enclave ultraortodossa di Gerusalemme, e neppure sul boulevard dei negozi e dei caffè di Tel Aviv, Dizengoff (con l’eccezione della città di Haifa, sulla costa del nord). El Al, la compagnia di bandiera, non vola il sabato. I suoi menu, come quelli di tutte le istituzioni pubbliche, dalle mense dei ministeri a quelle dell’esercito, servono soltanto cibo kosher, controllato e garantito dai rabbini. A Pessach, la Pasqua ebraica, tutti i supermercati del paese si svuotano di cibi lievitati e il ristorante che serve pane è multato (sono comunque molti a sfidare le sanzioni). In Israele non c’è il matrimonio civile. La vicina Cipro è diventata la meta di un bizzarro turismo delle nozze, una Las Vegas dove chi vuole sposarsi senza un rabbino scappa durante il week end. I prezzi dei voli sono bassi, l’isola piacevole per una cerimonia semplice. Ogni anno si apre la guerra del gay pride a Gerusalemme: le autorità delle tre religioni monoteiste che convivono nella città si oppongono alla manifestazione, mentre a 60 chilometri di distanza si è smesso da anni di lottare per i diritti gay: sono state riconosciute unioni siglate all’estero e ci sono ufficiali e vertici dell’esercito apertamente gay. L’ultralaico Lieberman Non manca chi ha cercato e tuttora cerca di ridimensionare il monopolio religioso. Nel 2003, un piccolo partito laico nato negli anni Settanta con un’agenda incentrata sulla separazione tra sinagoga e stato ha vinto 15 seggi alla Knesset, il Parlamento. Shinui, cambiamento in ebraico, gruppo dell’istrionico Tommy Lapid, politico ed ex giornalista scomparso l’anno scorso, non esiste più: nelle elezioni del 2006 non ha ottenuto neppure un seggio. Oggi, un’agenda simile è portata avanti proprio dal controverso Avigdor Lieberman, il fenomeno delle recenti elezioni. Il politico d’origine moldava è sostenuto soprattutto dagli immigrati dell’ex Unione sovietica, un elettorato profondamente laico, ed è particolarmente osteggiato dai piccoli partiti religiosi. I russi che appoggiano Lieberman il moldavo, l’uomo che ha i numeri per sbloccare l’impasse elettorale in cui si trova Israele, sono arrivati agli inizi degli anni Novanta, dopo il crollo dell’Unione sovietica. Hanno aperto commerci, soprattutto macellerie e salumerie. A Netanya, città costiera del nord, centro d’immigrazione recente, alcuni dei loro negozi sono stati presi di mira dagli ultraortodossi, bruciati perché vendevano carne di porco, cibo vietato dalle strette leggi alimentari ebraiche. Nel 2007 la municipalità della città ha imposto un discusso decreto per impedire la vendita di maiale nelle aree residenziali. Molti chilometri a sud, in un’altra città dell’immigrazione recente, Arad, nel deserto del Negev, sotto le insegne dei centri commerciali in cirillico, arabo ed ebraico, alte e bionde ragazze russe con minigonne da capogiro camminano a pochi passi da ebrei ultraortodossi intabarrati nei loro cappotti neri, in testa cappelli scuri a tesa larga, o di pelliccia a shabbat. Questi, qui come in altre città d’Israele, si dedicano soltanto allo studio delle scritture, hanno istituzioni educative e scolastiche separate da quelle nazionali. La politica, le vicende dello stato, il conflitto con i palestinesi non entrano tra i banchi delle loro scuole. Le loro mogli indossano parrucche tutte uguali per coprire i capelli e non esporre l’uomo a tentazione, vestono soltanto gonne sotto il ginocchio e pesanti calze scure anche in estate o in mezzo al deserto. Ai muri dei loro quartieri sono appesi cartelli che ricordano al passante di attraversare le loro strade soltanto se vestito in maniera decorosa e modesta. Sono gli haredim, i timorati di Dio, da harada, in ebraico, paura. Nei kibbutz del nord, nati dal lavoro dei primi pionieri del sionismo laico e socialista, non si indossano copricapo e si va a fare compere o al ristorante anche a shabbat, come succede a Tel Aviv. Negli insediamenti della Cisgiordania i giovani studenti delle yeshiva portano jeans e felpe con il cappuccio, le ragazze ampie gonne colorate che danno loro un tocco molto hippy. Nel 2005, quando l’ex premier Ariel Sharon annunciò il ritiro israeliano dalla Striscia di Gaza salirono a migliaia sugli autobus, nastri e striscioni arancione negli zaini della North Face e puntarono a sud. Opposero resistenza ai soldati e ai poliziotti disarmati che in pochi giorni sgomberarono gli insediamenti di Gush Katif. Sono i giovani del sionismo religioso, politicizzati e militanti, vicini alla destra più dura e contraria a ogni concessione territoriale ai palestinesi. Li chiamano il movimento delle kippah sruga, kippah all’uncinetto, dal copricapo colorato che indossano, diverso per esempio da quello nero degli ultraortodossi. “Sono circa 700 mila – spiega al Foglio Oz Almog, professore all’università di Haifa che da anni studia la demografia del paese – Ho avuto bisogno di molto tempo per avere questi numeri, non ci sono censimenti fatti sul grado di religiosità della popolazione. Gli ultraortodossi sono invece circa 750 mila. Ma ci sono oltre tre milioni e mezzo di ebrei laici a gradi diversi. C’è chi non esce con la kippah sulla testa, chi conduce una vita perfettamente laica e va in sinagoga una volta all’anno, chi benedice il pane e il vino ogni shabbat. Si tratta di tradizioni, non soltanto di religione”. Le statistiche dicono che rispetto agli anni Settanta, in cui il 40 per cento degli israeliani si considerava laico, oggi soltanto il 20 si definirebbe tale. Secondo alcune proiezioni, entro il 2015 il numero di ebrei ortodossi, che hanno tradizionalmente famiglie estese, raddoppierà. Oggi rappresentano il dieci per cento della popolazione. Il professor Almog non è d’accordo con chi parla di progressiva e inesorabile deriva religiosa del paese: “Israele è un luogo laico, pluralista e democratico. Se veramente vogliamo parlare di tendenze, allora possiamo dire che Israele al contrario sta diventando ogni giorno più laico. A parte Gerusalemme, sono sempre di più i negozi e i commerci aperti il sabato, dieci anni fa non potevi andare a fare shopping il weekend, i ristoranti non kosher stanno aumentando e molte più persone vanno a sposarsi all’estero per poter celebrare un matrimonio civile. L’immigrazione russa ha portato una percezione diversa in Israele e l’aumento in numero degli ultraortodossi non influisce sulla vita di tutti i giorni dei laici: non impongono l’osservazione di precetti religiosi”. La teoria del professore trova riflesso nelle ultime elezioni amministrative a Gerusalemme: nonostante gli allarmi dell’Israele più laica sull’ormai implacabile deriva verso un medioevo teocratico nella Città santa, alle urne di novembre il candidato laico Nir Barakat ha battuto di non pochi voti l’ultraortodosso Meir Porush (il 52 per centro delle preferenze contro il 43). E il modello di sindaco da imitare, dai contorni ormai mitici e leggendari, resta per molti nel paese quello di Teddy Kollek, primo cittadino di Gerusalemme dal 1965 al 1993, rieletto cinque volte: di lui si dice che trasformò la Città santa in un centro moderno attraverso compromessi di successo tra le sue diverse anime, non soltanto quella laica e quella ultra religiosa. Esiste accanto alle leggi uno status quo creatosi negli anni, “un vivi e lascia vivere” su cui riposa l’equilibrio tra laicità e religione in Israele. Così dice al Foglio Meri Shalev, celebre scrittore israeliano, al telefono dal primo moshav del paese. La comunità agricola di Nahalal, in cui è cresciuto anche l’ex leader politico e militare Moshe Dayan, è costruita in cerchi concentrici, con gli appezzamenti di terra lottizzati in parti uguali: una struttura ripresa da molti altri moshav, primi centri del sionismo di stampo socialista. “Non è l’Afghanistan, non è Teheran – dice Shalev – Israele è una democrazia. Non esiste il fanatismo, non applichiamo precetti religiosi. A parte i matrimoni e i funerali. Mia figlia è incinta senza essere sposata, e siamo tutti contenti. Qui puoi vivere una vita laica senza alcun problema, a volte sorgono conflitti, c’è un dibattito, ma esiste uno status quo creatosi con gli anni”. I ragazzi delle yeshiva fanno il militare Eppure, qualcosa sta cambiando in certi settori della società. Shalev nel 1967 era un giovane ufficiale dell’esercito. Durante la Guerra dei sei giorni ha combattuto al nord sulle alture del Golan conquistate quell’anno. “Quando ero nell’esercito – racconta – con me c’era soltanto un ragazzo religioso. Ora, nella stessa unità, che conosco per via dei molti ritrovi di veterani che organizziamo, ci sono sempre più soldati religiosi”. Nell’agosto del 2007, un sondaggio del quotidiano Maariv ha rivelato che il 40 per cento dei cadetti del corso ufficiali appartiene al movimento del sionismo nazionalista e religioso. “Stanno diventando l’ossatura dell’Idf”, scriveva il giornalista Ben Caspit. Quattro dei dieci soldati uccisi nella recente operazione a Gaza, Piombo Fuso, erano giovani religiosi. Gli ebrei ultraortodossi non fanno il servizio militare. I figli del sionismo religioso, invece, grazie a diverse combinazioni di accademie e yeshiva offerte dall’esercito, sono i nuovi numeri forti nell’Idf. Secondo il professor Almog, le nuove leve vanno a inserirsi nei buchi lasciati liberi dai giovani rampolli delle famiglie dell’élite laica e ashkenazita, un tempo scheletro dell’Idf. “Oggi questi ragazzi non vogliono più per diversi motivi servire come ufficiali o piloti da combattimento. Quello dei giovani degli insediamenti non è un atto religioso, ma una sfida di assimilazione di una fetta della popolazione che si identificava in parte con un movimento, il sionismo, di cui però non era leader. I pionieri del movimento erano infatti laici”.
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