|
|
||
Una pace perfetta Amos Oz
Traduzione di Elena Loewenthal
Feltrinelli
In uscita il 26 febbraio
Padri e figli della nazione di Israele: l’inverno del kibbutz e una nuova primavera, forse. Epopea partecipe e interrogazione serrata, mura di dolore e sfondati di speranza per una narrazione vivida, dove ogni tanto irrompe una voce sola, a volte addirittura un “noi”, e si apre lo squarcio lirico di un paesaggio. Inverno ’65, kibbutz Granot. Yonatan Lifschitz a 26 anni, dopo una vita passata in comunità, ostaggio di imperativi familiari e sociali, è divorato dal sentimento più struggente e vero del maschio giovane: la sete di libertà dalla famiglia di origine e dal kibbutz, gli obblighi sociali e di relazione, il lavoro organizzato e gli ideali comunitari, e dalla giovane moglie Rimona, che la perdita della loro figlia nata morta ha lasciato in uno stato di apatica disponibilità, esasperante. Il padre di Yoni, Yolek, è segretario del kibbutz, un eroe del movimento e del partito laburista, già ministro con Ben Gurion, un pioniere che ha posato le prime pietre dell’edificio di Israele e ora affronta gli anni del disincanto, non intende le inquietudini e i tormenti dei giovani, il loro anelare ad andarsene per il mondo, una nuova diaspora edonista, come quel suo figlio Yoni che forse non è tale, come un doloroso ricordo che la moglie Hava mantiene vivido lascia credere. In questo ribollire di emozioni e sentimenti contrastanti, una notte arriva al kibbutz Azariah, ragazzo un po’ malconcio e querulo, occhi verdi e una chitarra, che parla senza freno, cita Spinoza, loda la vita del kibbutz e intanto annuncia nuove calamità per Israele. Yolek lo affida al figlio, che l’accoglie prima con fastidio, poi in casa malgrado l’evidente attrazione di lui per Rimona. Il bizzarro terzetto susciterà l’ira di Hava, che minaccia di screditarlo se non caccerà Azariah. Yoni partirà, Azariah resterà, Rimona aspetterà. Arriverà la primavera, la guerra. Chissà.
Scritto nell’82 e ora tradotto, opera vibrante e dolorosa, Una pace perfetta, è un romanzo corale, le figure in scena a turno a recitare i loro monologhi interiori, intervallati da narrazioni più distese, con qualche leziosità di troppo. Più un extra, la memorabile lettera che Yolek scrive al vecchio compagno di battaglie e avversario politico Eshkol: un racconto di Israele che da solo vale la lettura – e che Yolek non spedirà.
Tiziano Gianotti
La Repubblica delle donne
--------------------------------------------------------
C’era una volta una famiglia Lizzie Doron
Traduzione di Shulim Vogelmann
Giuntina Euro 12
Dice che lungo le strade non ci sono targhe commemorative. Ma per Lizzie Doron il quartiere di Bitzaron, a Tel Aviv, “è un pezzo della storia del popolo ebraico e di Israele. Qui dopo la guerra i sopravvissuti della Shoah si sono stretti insieme e hanno trovato il coraggio di dare vita a nuove famiglie”. Qui è ambientato “C’era una volta una famiglia”, che racconta le storie di chi, come la scrittrice, fa parte della “seconda generazione” di sopravvissuti della Shoah. Senza mai nominarla troppo, perché Israele diventa il “Paese di qua”, in cui “vive un popolo estraneo che viene dalla terra di là”, l’Europa della guerra.
Bitzaron c’è ancora?
“Sì, e ancora ci abitano alcuni protagonisti dei miei libri. Quel quartiere è stato testimone delle follie, dei drammi, delle paure e dei miracoli, dei pianti e delle speranze della generazione dei sopravvissuti”.
Cosa vuol dire essere un “caso di seconda generazione”?
“Convivere con un vuoto per tutta la vita. O metaforicamente essere un albero senza radici che però continua a crescere”.
Come sono nati i suoi libri?
“Un giorno mia figlia mi ha detto che doveva fare un tema sulla storia della famiglia. Mi sono resa conto che non avevo niente da raccontarle. Mi sono messa a scrivere per ordinare le idee, ma mia madre non mi aveva mai raccontato niente della Shoah e della sua famiglia prima della guerra. Ho potuto solo decifrare i suoi silenzi, le mie rimozioni e sensi di colpa, la vita del quartiere”.
Si ragiona spesso su come continuare a parlare di Shoah dopo la scomparsa dei testimoni. Qual è la sua opinione? “Io scrivo per me stessa, per vivere, ricordare e onorare mia madre. Ma i miei figli, per esempio, non ne vogliono sentir parlare. Dicono che ne hanno abbastanza”
Alessia Gallione
La Repubblica delle donne
------------------------------------------------------
L’ebreo e l’ebraismo nell’opera di Rembrandt Anna Seghers
a cura di Vincenzo Pinto
Giuntina Euro 13,00
Di che cosa è fatto l’ebreo nell’immaginario collettivo europeo? Molto spesso è una silhouette definita per assenza, per sentito dire, per eccesso esacerbato, e vive in uno spazio intermedio tra realtà e finzione. Forse è per questo, perché si tratta di catturare un fantasma, che una giovane scrittrice – ancora non sa di esserlo – riesce laddove i più agguerriti sociologi e critici falliscono. Tanto più se gli ebrei in questione sono macchie di colore, ombre e luci, che da secoli custodiscono il loro mistero.
Lo studio di Anna Seghers sugli ebrei nell’opera di Rembrandt è un piccolo capolavoro di fraintendimento. E’ soltanto una tesi di laurea, discussa nel 1924 all’università di Heidelberg da una studentessa ebrea di belle speranze. La prosa del volume ha tratti ancora acerbi, e pure riesce a esprimere l’energia intellettuale di una straordinaria stagione del giudaismo tedesco. In una Germania sempre più minacciata dall’antisemitismo, la Seghers si interroga sul filosemitismo di Rembrandt, così caldo e rassicurante. La galleria di ritratti e ambienti ebraici del grande pittore olandese è per lei un richiamo e una sfida.
Ma cosa si nasconde dietro queste figure di sefarditi di Amsterdam, entrati come soprapensiero nelle scene bibliche? Dietro questo giudaismo a un tempo sontuoso e quotidiano? E’ sufficiente riandare ai contenuti del protestantesimo olandese per comprendere l’eccezionale spessore di un tale ebraismo per figure? All’ebrea assimilata Seghers, che sarebbe poi diventata una celebre pasionaria marxista, le ragioni puramente religiose vanno strette e, del resto, l’Amsterdam di Rembrandt è la città in cui si muove anche il miscredente Spinoza e in cui nasce la moderna fede del dubbio. Per la Seghers, Rembrandt non può essere semplicemente un pio calvinista, che recluta gli ebrei per dare maggiore credibilità alle proprie rappresentazioni veterotestamentarie: “Il suo ebraismo non acquista significato in base a una posizione religiosa o culturale, ma è dotato di un proprio valore, tipico solo per lui”.
Se la Seghers fosse stata una storica dell’arte pura, avrebbe probabilmente cercato questo segreto giudaismo rembrandtiano nelle sintassi delle luci e nelle invenzioni iconografiche, ma poiché ciò che le interessa è soprattutto l’arte del racconto, vede nel grande olandese un narratore già premoderno: “Egli dipinge questi volti come aveva dipinto un cortile scuro o un anonimo paesaggio desolato, di cui nessuno prima di lui aveva saputo cogliere la ricchezza, percepibile unicamente nel quadro”. Secondo la Seghers, Rembrandt intuisce insomma negli ebrei una qualità nuova, che la studiosa definisce “Überwirklich”. La traduzione italiana rende questa acuta parola tedesca con “surreale”, ma forse sarebbe stato meglio usare il vecchio concetto di “soprasensibile”, disceso dalla scuola idealistica di Fiche e Schelling.
Non è dunque un Rembrandt filologico, quello che ci viene qui presentato, ma quasi un pittore espressionista, capace di delineare i suoi ebrei in una diafana materia intellettuale, pressoché soprannaturale, in qualche modo libera dai sensi e dalla storia.
Giulio Busi
Il Sole 24 Ore
|
Condividi sui social network: |
|
Se ritieni questa pagina importante, mandala a tutti i tuoi amici cliccando qui |