Durante la Fiera del libro di Gerusalemme Roberto Calasso ha incontrato Amos Oz . Di seguito la cronaca di Francesco Battistini sul CORRIERE della SERA di oggi, 17/02/2009. Ecco l'articolo:
GERUSALEMME — «Sto leggendo il suo libro su Kafka», Amos Oz stringe la mano a Roberto Calasso: «Col suo permesso, comincerò da questo che è per me una rivelazione. Pensavo di sapere tutto su Kafka, e invece mi ha sorpreso... ».
Che metamorfosi, alla Fiera del libro di Gerusalemme. Accade spesso, durante gl'incontri serali nel caffè letterario di Benianei Ha Uma, che s'attacchi a parlare di scrittori e si finisca per attaccare con la politica. Non si scappa. Chi sta con chi. L'orgoglio di chi è, il pregiudizio di chi non è. Prendete il povero scrittore giapponese Haruki Murakami: venuto a sfidare jetlag e accuse, si trova a ritirare un premio dalle mani del presidente Israeliano Shimon Peres e quasi a giustificarsi in pubblico con chi l'ha fatto passare per «collaborazionista dell'apartheid », a contorcersi in un'autodifesa non richiesta.
Oz e Calasso, no. Loro partono dal signor K. Dagl'incubi, dalle fantasie, dall'umorismo kafkiano (ma guai a usare l'aggettivo, che il signor Adelphi detesta). Perché il grande ceco è «un realista dell'incubo », come lo vede lo scrittore israeliano. Perché affrontarlo è una sfida, racconta Calasso: «Quando cominciamo a leggerlo, non sappiamo mai esattamente di che cosa sta scrivendo ». E perché in fondo, in quella lettera, sta qualcosa di più d'un semplice gioco letterario:
K nasce da due righe di Ka, altro fortunato titolo di Calasso, «e questo è in sanscrito il nome segreto di Dio», la divinità che esisteva prima di tutti gli dei. C'è luogo migliore, per parlarne?
Anche loro due cominciano così: a tema libero, non sapendo bene di che cosa discutere. In una piccola fiera, ma con un fiero passato (qui si premiarono Graham Greene e Nadine Gordimer, Milan Kundera e Octavio Paz) e un parterre che un po' stupisce l'editore italiano: «Io ne giro, di saloni del libro, ma qui trovo persone molto più competenti del solito. C'è il meglio delle case mondiali». Italia-Israele è una partita letteraria che appassiona, e all'incontro Calasso-Oz si sta seduti pure sui gradini. L'inevitabile domanda: perché agl'italiani piace tanto la letteratura israeliana? E perché gl'israeliani non smettono mai di leggere italiano?
«Un love affair», dice Oz. «È vero — spiega Calasso —. Lei, Grossman e Yehoshua avete un grande pubblico, la stampa vi offre spesso la prima pagina. Naturalmente contano le questioni politiche, che in Italia sono rilevanti. Ma per i libri non ci sono spiegazioni, a parte il fatto che sono dei buoni libri. Questo fenomeno è cominciato vent'anni fa, ora è all'apice. I lettori italiani sono più preoccupati da quello che accade qui, c'è maggior interesse ». Anche se la curiosità dell'editore va su altro: gli piacerebbe portare da noi autori meno conosciuti, un ebreo ucraino che (dice Oz) «scriveva in una lingua che non era la lingua usata», o vedere riscoperti anche grandi del passato come Agnon («è uno strano destino — ammette Oz —, noi di oggi siamo molto più conosciuti dei nostri mentori»). Dice lo scrittore israeliano: «Una delle cose che mi affascinano della letteratura italiana del XX secolo, e anche di adesso, è la sua vivacità. È piena di vita, di humour, di gusto. Elsa Morante, Natalia Ginzburg, Italo Calvino. Tutto il contrario di quell'anemica narrativa che arriva da molti Paesi europei: negli ultimi anni, per dire, avrò trovato uno o due libri francesi che mi hanno emozionato davvero». Qualcuno che ogni tanto ci coccoli, che diamine: «La nostra letteratura non è così ben conosciuta all'estero — Calasso si rammarica —. Perché molti sono anche difficili da tradurre. Prendete un Gadda, che ha una lingua molto complicata da rendere ». Oz: «Ah, il traduttore! La musicalità è la qualità più importante di chi traduce. Ma è come un concerto di violino interpretato da un pianoforte: va bene, purché non si pretenda di ricreare il suono del violino sul pianoforte. Lo dico sempre a chi traduce i miei libri: per essere leali, siate infedeli».
Lealtà, fedeltà. Per una volta non parla di politica, Oz. E un po' c'entra la sbronza elettorale, la batosta del cosiddetto partito degli scrittori: «Sono un po' stanco che i miei romanzi — ha detto qualche giorno fa — siano letti sempre come allegorie d'Israele: il padre non è necessariamente il governo, la madre non incarna i vecchi valori, la figlia non è sempre il simbolo di un'economia distrutta...».
Pure Murakami avrebbe voluto parlare solo di letteratura, al suo turno. E invece: «Quando m'è stato dato il Premio Gerusalemme — dice il giapponese —, molti m'hanno sconsigliato di venire, perché c'è stata Gaza. Ci ho pensato. Ma come la maggior parte degli scrittori, mi piace fare il contrario di quel che mi si dice. È nella mia natura di narratore. I narratori non possono fidarsi di qualcosa che non vedono». Glielo fanno dire: ma lui con chi sta? L'allegoria è a doppia lettura: «Se c'è un muro alto e duro e un uovo che gli si rompe contro, non importa quanto giusto sia il muro e quanto sbagliato l'uovo. Io sto dalla parte dell'uovo». Decollato dal Giappone libero di pensare, Murakami, atterrato a Gerusalemme con qualche dubbio. Una metamorfosi, in fondo. Anche la sua.
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