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Giorgia Greco
Libri & Recensioni
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I nuovi libri di V. Grossmann e S. Tomasi 16/02/2009

Vita e destino                                             Vasilij Grossman Traduzione di Claudia Zonghetti Adelphi                                                        Euro 34

A proposito di Vita e destino di Vasilij Grossman, qualcuno ha scritto che starebbe al XX secolo come “Guerra e pace” di Tolstoj sta a quello precedente. L’idea non è peregrina: il romanzo di Grossman infatti possiede analogo respiro storico, oltre a un’ampiezza, a una straordinaria e meticolosa umanità, che ricorda da vicino l’immenso capolavoro ottocentesco. Come il libro tolstojano, anche questo fa precipitare il lettore dentro una dimensione che è perfettamente irreale, letteraria, tenendolo però ancorato alle vicende storiche del tempo che racconta – in questo caso lo spaventoso maelstrom novecentesco dei lager nazisti e dei gulag staliniani. L’opera stessa ha avuto una genesi e poi un destino fuori del comune. Terminato nel 1960, dopo quasi dieci anni di lavoro, il testo incorre nelle maglie della censura. Nel ’61 l’immancabile Kgb se sequestra non solo la copia originale, ma le minute, le copie e i nastri della macchina per scrivere. Del resto, solo pochi anni prima, nel ’57, “Il dottor Zivago” di Boris Pasternak era avventurosamente riuscito ad arrivare in occidente, procurando nel ’58 il Nobel al suo autore. Si capisce che a quel punto il regime avesse stretto i controlli. “Vita e destino” compare per la prima volta nel 1980 in Francia, nei primi anni ’80 da noi (in un’edizione che è andata da tempo esaurita). Traversie a parte, il romanzo è di tale portata letteraria e di così ricca e arricchente bellezza, da far sbiadire la gran parte della narrativa contemporanea. Lo consiglierei con forza non solo a chi ama leggere, ma ancora di più a chi ama scrivere.

 

 

 

 

Mario Fortunato

 

 

L’Espresso

 

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Arturo Loria. Storia di un ebreo errante        Silvia Tomasi. Mup, Parma                                                            Euro 16,00

Come in ogni famiglia, anche in quella delle lettere italiane ci sono parenti che non si sa proprio come collocare. E’ indubbio che ne facciano parte, e forse meriterebbero anche un posto d’onore, ma poi, chissà perché, non vengono mai invitati nelle occasioni più importanti. Non che siano antipatici, per carità, ma un po’ scostanti, questo sì.
Arturo Loria impersona con stile il ruolo di escluso. La sua è una delle prose più raffinate del Novecento, ricca di sfumature lessicali e di aggettivazioni spesso sorprendenti. Anche le trame, l’intersecarsi di dimensione onirica e realismo plebeo, fanno di Loria un fine interprete del disagio borghese. Quando nel 1928 apparve la sua prima raccolta, Il cieco e la bellona, Eugenio Montale la giudicò “al di sopra del limbo, pur onorevole, delle promesse”. E, in effetti, tra la fine degli anni Venti e la metà degli anni Trenta, Loria conobbe un lusinghiero successo di critica e una discreta fortuna presso il pubblico.
Elegante, ricco (figlio di un affermato industriale), colto, Loria era protagonista alla moda delle cerchie intellettuali fiorentine. A darci uno scorcio dell’indole proustiana dello scrittore è ancora Montale, giovane e intimidito davanti al supremo dandy: “Se avessi potuto, un giorno, condurre a Firenze una vita, un supplemento di vita du côté de chez Swann, avrei potuto farlo solo con l’aiuto e l’assistenza di un maestro: Loria”.
M
a dietro a tanto successo mondano si nascondeva già uno spaesamento, che con gli anni divenne sempre più marcato. A Firenze Loria apparteneva solo per metà. Il luogo della sua narrativa rimase Carpi, dove era nato nel 1902 da padre ebreo e madre cattolica, e dove aveva vissuto l’infanzia tra “nebbie fumide” e surreali fantasie di pianura. Un bimbo robusto e volitivo, segnato però dalla poliomielite, che gli offese una gamba e lo costrinse a venire a patti con la diversità.
Dopo il trasferimento della famiglia in Toscana nel 1912, e gli anni di bohème universitaria a Pisa, Loria si addentra in un universo espressivo estetizzante, ma di un estetismo provocatorio, popolato di balordi, sgualdrine e derelitti, che si muovono in un paesaggio sgretolato e precario. Questa maestria eccentrica lo impone alle “Giubbe rosse”, il caffè dove si riuniscono i letterati fiorentini di punta. Pubblica su “Solaria” e nel 1933 vince il prestigioso premio Fracchia. L’atmosfera culturale si fa però sempre più soffocante.
Nel 1936 la censura fascista chiude “Solaria”, con l’accusa di oscenità, e nel ’38 arriva il trauma delle leggi razziali. A differenza di tanti altri, Loria non emigra e anzi si converte al cattolicesimo, solo per scoprire che la madre lo aveva già fatto battezzare, quasi di nascosto, ancora bambino. Comincia il tempo dell’amarezza e del progressivo inaridirsi della vena creativa. Ad aggravare le cose, con la guerra vanno distrutti gran parte dei suoi manoscritti, compreso un lungo romanzo a cui aveva lavorato per oltre dieci anni. Dopo la liberazione, Loria si getta a capofitto nell’impegno pubblico. Con Bonsanti, Montale e Scaravelli fonda la rivista “Il Mondo”, è richiestissimo come conferenziere ma la sua narrativa è ormai fuori moda. Annota così con amarezza: “Quelli che non credono più in me, e sono tanti da anni, hanno forse ragione. Il volere uno stile ha ucciso in me qualsiasi vena d’arte”. Ma, in fondo, un insuccesso per troppo stile non è il peggiore dei destini che possono toccare a uno scrittore.

Giulio Busi

 Il Sole 24 Ore


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