Israele oggi alle urne, duello tra Livni e Netanyahu - Voterò per Livni. Ma Israele ha bisogno dell'unità nazionale - Io non voto più. Gli elettori pensano solo alla sicurezza - Lieberman è un neofascista pericoloso ma sono ottimista, il popolo vuole altro - Effetto Lieberman in Israele - Se la guerra finisce nell'urna, la resistibile ascesa della destra
Oggi in Israele si vota. Ecco come i quotidiani di oggi, 10/02/2009, trattano la notizia. Di seguito i commenti di Fiamma Nirenstein sul GIORNALE , di Arrigo Levi su La STAMPA ,di Antonio Ferrari sul CORRIERE della SERA che pubblica anche un reportage di Davide Frattini sul voto degli intellettuali israeliani, due articoli dal FOGLIO, la cronaca di Francesco Battistini sul CORRIERE della SERA, le interviste di Umberto De Giovannangeli a Meir Shalev sull'UNITA', di Francesco Battistini al regista israeliano Amos Gitai sul CORRIERE della SERA e di Alberto Stabile a Yehoshua su REPUBBLICA e alcune brevi da SOLE 24 ORE e MANIFESTO.
Ecco gli articoli:
Il GIORNALE - Fiamma Nirenstein : "Perché la destra di Netanyahu non deve far paura ", pagina 17
Oggi, nel solito clima febbricitante,Israele vota e già molti giornali nel mondo hanno pronto un coccodrillo per la pace, giudicando Netanyahu, il primo nei sondaggi, un pericolo pubblico. Un’idea primitiva e poco lungimirante, che è già diventata un ritornello. Le elezioni israeliane devono essere guardate senza spirito bigotto, perché la pace non sta, almeno in Medio Oriente, dove la si va a cercare, e i fatti lo hanno dimostrato senza equivoci. I fatti di oggi: Netanyahu col Likud e Tzipi Livni con Kadima sono testa a testa; tutti e due hanno chance di vincere. Ma i partiti di destra prenderanno la maggioranza, anche se non è detto che essa si trasformi in governo. Avigdor “Yvette” Lieberman, capo di Israel Beitenu, cavalcando in primis la minaccia arabo-israeliana, ha fatto a Bibi il pessimo scherzo di conquistare molto rapidamente una gran fetta di elettorato di destra portandogli via voti: questo disegna all’orizzonte sia una consistente coalizione di destra, sia però, in caso di qualche voto in più di Livni su Netanyahu, la possibilità che “Yvette”, laico e assistenzialista oltre che favorevole a concessioni territoriali, accetti una coalizione con Kadima. Barak, col partito laburista dovrebbe toccare i 16 seggi, ma anche Shas supererà i 10 seggi: quindi è possibile che si profilino all’orizzonte due coalizioni. E molti, mentre si va a votare, sono gli incerti. Ma allarghiamo lo sguardo e cerchiamo di capire che cosa significhi per Israele votare: qui va alle urne l’unico paese democratico in una selva di dittature, si cerca la certezza che il Primo ministro innanzitutto possa difendere il Paese. Lunedì scorso, una settimana dalle elezioni, l’Iran ha lanciato un satellite portato da un missile che potrebbe portare presto un carico atomico di una tonnellata, se è vero, come dicono gli esperti, che l’Iran ha superato il punto di non ritorno verso la bomba. Gli ayatollah non fanno mistero della loro volontà di distruggere Israele, e Hamas, gli Hezbollah, Al Qaeda, promettono la stessa cosa. Hamas seguita a sparare missili, la Siria si ritira dai colloqui, il mondo segnala potentemente la propria incomprensione per la campagna di Gaza. Il sostegno americano può declinare con la presidenza di Obam, e Israele non sa se la nuova amministrazione porgerà più sostegno o più pressione. Nessuno, neppure la sinistra, è più convinta di trovare la panacea rispetto all’odio islamista nella linea tradizionale che consegna terra in cambio di pace ai palestinesi, ormai in gran parte preda dell’ideologia islamista: con Oslo tutte le città furono sgomberate ponendo 98 per cento dei palestinesi sotto Arafat solo per arrivare alla terribile Intifada delle Moschee, che ha fatto quasi 1500 morti israeliani per terrorismo. Lo sgombero unilaterale di Gaza ha portato alla pioggia di qassam; lo sgombero del 2000 del sud Libano ha aperto la porta alle armi degli Hezbollah per la guerra. Il prossimo Primo ministro è quello che potrebbe ricevere alle tre di mattina la fatidica telefonata che chiede che fare di fronte a un attacco micidiale. Chi vorreste che rispondesse, si chiede il cittadino di Israele che nel frattempo chiede pulizia morale dopo le accuse di corruzione, chiede che la sua vibrante democrazia, la sua libertà estrema, il suo futuro nel campo dell’high tech, della scienza, dell’arte, e vuole anche un benessere eroso dalla guerra continua e dalle crisi internazionali. Netanyahu, quando fu Primo ministro nel ’96 lascio Hebron, strinse la mano ad Arafat, a Wye Plantation firmò concessioni. Oggi ripete che non vuole dominare un singolo palestinese e che però non vuole fare prima del tempo concessioni che possano diventare rampe di lancio per missili. La questione degli insediamenti non la affronta diversamente dagli altri candidati, è nella situazione che abbiamo descritto, non vuole fare passi falsi. La sua fama di duro è forse legata al famoso motto “Itnu Icablu”, se daranno riceveranno, che stabiliva un limite alle concessioni territoriali senza contropartita nella lotta al terrorismo; ai suoi preveggenti, conturbanti libri sul terrore internazionale; alla sua appartenenza alla Sayeret Matchal, un’unità speciale che spesso ha compiuto azioni impossibili di salvataggio dal terrorismo e di cui anche Ehud Barak era parte; alla sua parentela con Yoni, il comandante dell’unità che salvò gli ostaggi di Entebbe e che là perse la vita. Se Bibi sarà Primo ministro, Gerusalemme dovrà imparare a comunicare meglio di quanto faccia. L’europa ha sempre mal sopportato che Israele sia costretta a indossare spesso gli abiti del combattente, e non riesce mai e poi mai a vedere che il ruolo della volontà israeliana nei processi di pace, non può niente se la controparte non c’è. E che oggi, chi vince dovrà cercarla in una selva sempre più oscura.
LASTAMPA Arrigo Levi "Israele, un voto sulla pace", pagina 39
Volgendo lo sguardo a Israele, a poche ore da elezioni che potrebbero decidere se il negoziato di pace andrà avanti, o se subirà un’altra ennesima battuta d’arresto, si ha l’impressione di guardare in un caleidoscopio. Ripensando a Israele com’era sessant’anni fa, al momento della nascita dello Stato, e riportando alla mente alcune delle immagini-chiave d’Israele come ci è apparso in momenti decisivi della sua storia, si vede una realtà in continuo cambiamento.
L’Israele del 1948, che si batté per impedire che gli ebrei venissero «buttati a mare», vittime di una strage degna dei tempi dei mongoli e dei Crociati, come assicuravano i leader arabi, si ispirava a un sionismo in cui l’antica identità del popolo della Bibbia si fondeva con ideali socialisti, liberal-democratici, nazional-mazziniani dell’Europa dell’Ottocento. Ne era simbolo il laburista Ben Gurion. L’Israele che fece la prima pace con uno Stato arabo, l’Egitto di Sadat, aveva però alla testa il grande rivale di Ben Gurion, il nazionalista Menachem Begin. La pace con la Giordania di re Hussein fu firmata da un successore di Ben Gurion, Yitzhak Rabin, e fu «la pace dei soldati», da nemici divenuti amici, ambedue rappresentanti del «campo della pace». Il processo di pace con i palestinesi ebbe per protagonisti ancora i laburisti Rabin e Peres, affiancati a Stoccolma, per il Premio Nobel, da Yasser Arafat. La lunga strada del negoziato è tappezzata da accordi, o da accordi mancati, negoziati sia dal successore di Begin Bibi Netanyahu (accordo della Wye Plantation), sia dal successore di Rabin Ehud Barak. Il primo ritiro dai territori occupati (la Striscia di Gaza) fu voluto da Sharon, un altro eredi di Begin, come lo era anche Olmert, suo successore alla testa del nuovo partito centrista Kadima, che fino all’altro ieri negoziava col successore di Arafat Abu Mazen.
Ma se questa sintesi di nomi ed eventi può dare un’impressione di continuità nella diversità, intanto la realtà israeliana cambiava in modo stupefacente. Ci fu prima l’invasione degli ebrei provenienti dal mondo arabo. Più di recente quella dei russi ebrei, che dopo settant’anni di comunismo hanno, temo, assai poco in comune con i pionieri sionisti venuti dalla Russia zarista col loro carico di ideali. Oggi ne è simbolo Avigdor Lieberman, il «bulldozer della destra», violentemente anti-arabo, nemico non solo del terrorismo palestinese dei nuovi fondamentalisti di Hamas, ma anche degli arabi cittadini israeliani. Al caleidoscopio israeliano si è affiancato un caleidoscopio arabo-palestinese. Forse il nazionalismo laico di Arafat è superato. E intanto in America, grande protettrice d’Israele, non c’è più Bush, ma Obama.
Più lungo è il tempo della conoscenza che si ha d’Israele, come del mondo palestinese (per me, la memoria torna fino a quell’esercito di cittadini senza uniformi che combatté la guerra del ’48, vinta la quale, fra la sorpresa generale, si pensava ingenuamente di avere vinto anche la pace), e meno si è sicuri di conoscere gli israeliani e i palestinesi d’oggi. Certamente, il «campo della pace» ha ancora i suoi portabandiera, dall’una e dall’altra parte. Il presidente Peres ha scambiato cortesie col re saudita. Voci di intellettuali importanti, di fama mondiale, hanno fatto emergere nella coscienza israeliana anche le ragioni dei palestinesi, e l’idea (anche la grande avversaria elettorale di Netanyahu, Tzipi Livni, l’ha fatta propria), che la sopravvivenza d’Israele sarà certa soltanto dopo la nascita di uno Stato palestinese. Non manca chi ritiene possibile, magari sotto la pressione di Obama, comunque vadano le elezioni in Israele, un trattato generoso e giusto fra lo Stato ebraico e Abu Mazen: confidando che poi lo stesso Hamas riconoscerà (forse nella scia di una lunga tregua con Israele, che potrebbe firmarsi fra pochi giorni al Cairo), che anche per i palestinesi c’è un solo futuro: la pace fra due Stati indipendenti e liberi. Amos Oz giudica un trattato «possibile e forse persino imminente». Oz è un grande scrittore e un grande uomo. E’ anche un idealista.
Attendiamo l’esito delle elezioni con l’animo carico di dubbi e incertezze. Si pensava che l’invasione di Gaza, in risposta alle deliberate provocazioni di Hamas, rafforzasse le «colombe» israeliane. Forse ha invece rafforzato i falchi di Netanyahu e Lieberman. Non conosco altro Paese al mondo in cui ad ogni elezione il tema dominante sia quello della strada migliore da scegliere per assicurare la sopravvivenza dello Stato. Si succedono le generazioni, tutto cambia, ma il problema resta lo stesso
CORRIERE della SERA - Davide Frattini " La sinistra tradisce gli scrittori ' Scegliamo Tzipi per fermare Bibi ' ", pagina 17.
E' curioso come l'impaginazione dell'articolo (il titolo associato con le foto di Oz e Yehoshua ) suggerisca che tutti gli intellettuali , compresi Amos Oz e Abraham Yehoshua , voteranno per Kadima. Impressione che viene smentita nel corso dell'articolo, dal momento che i due scrittori sono rimasti fedeli a Meretz.
TEL AVIV — Mac o Pc. Poveri o ricchi. Generali (in poltrona) o pacifisti (in manifestazione). Gli spot elettorali di Hadash — che in Parlamento mette insieme ebrei e arabi, Karl Marx e Pantere Nere israeliane — se la prendono di più con i cugini di Meretz che con i nemici del Likud. Parenti serpenti a sinistra. Il partito degli scrittori — ha il sostegno di Amos Oz, Abraham Yehoshua, David Grossman — perde popolarità da quando ha giustificato «le prime 48 ore» dell'operazione militare contro la Striscia di Gaza e ne perde adesso che la corsa tra Tzipi Livni e Benjamin Netanyahu si fa stretta. Il voto utile (a fermare Bibi) sembra superare nelle ultime ore l'avversione per le posizioni da falco tenute dal ministro degli Esteri, durante i ventidue giorni di conflitto. La scelta divide il quotidiano liberal Haaretz. L'editore Amos Shocken scrive un commento per appoggiare Meretz, l'editoriale non firmato (che esprime la posizione del suo giornale) lo boccia: «Hanno fallito e hanno lasciato un vuoto a sinistra. Non c'è ragione per dare loro la preferenza». Un sondaggio a uso interno rivela che gli indecisi a sinistra (valore otto seggi) sono pronti a votare per Livni. Tra loro, la maggior parte sono donne. «Perché vedono in lei una figura pulita e fresca», spiega Dan Miodownik, che ha effettuato la ricerca e guida la campagna di Meretz. «Abbiamo scoperto che i nostri elettori potenziali non sono in dubbio tra noi e i laburisti, ma tra noi e Kadima. Questa volta, più che mai, la gente vuole votare per un partito che abbia influenza e purtroppo Meretz sembra fuori dai giochi». E' la formula ripetuta dai consiglieri di Livni. «Non conta se Meretz ha 5 o 7 seggi, se il labour ne ottiene 14 o 16. Solo Tzipi può battere Bibi. E la sinistra lo ha capito».
In queste settimane, Amos Oz ha fatto campagna per Meretz (o Nuovo movimento- Meretz come viene chiamato dopo l'innesto della squadra di intellettuali). Qualche commentatore maligno lo ha soprannominato «rabbino Ovadia Yosef», come il leader dello Shas, paragonando l'impegno dello scrittore a quello di un guru spirituale. Resta convinto della scelta: «Votare per Meretz significa votare per la pace. I laburisti hanno esaurito il ruolo storico, perché si offrono come partner in qualsiasi coalizione, incluse quelle di destra. Kadima non rappresenta le colombe». Elenca le battaglie portate avanti dalla sua formazione: «Diritti delle donne, giustizia sociale, contro la coercizione religiosa». Riconosce che Meretz sia pronto a far parte di una coalizione guidata da Livni, con i laburisti e gli ultraortodossi dello Shas, «ma non Avigdor Lieberman», il capo della destra ultranazionalista.
«Anch'io continuo a sostenere Meretz », dice l'amico Abraham Yehoshua, mentre la sceneggiatrice Edna Mazya ha deciso di abdicare a un decennio di militanza per appoggiare Livni («è cresciuta nel ruolo e sta adeguando Kadima alla sua personalità»). «La gente voterà non per qualcuno, ma contro chi non vuole al potere — commenta Henriette Dahan-Kalev, direttrice del dipartimento per gli studi di genere all'Università Ben-Gurion — e Livni può rappresentare una scelta automatica per larga parte della sinistra».
Haim Oron, leader di Meretz, ha scritto una lettera alla candidata, chiedendole di «dire la verità» e dichiarare se sia disposta a entrare in una coalizione con Netanyahu e Lieberman: «È importante per quegli elettori ai quali Kadima viene presentato come un'alternativa di centro- sinistra». Dal palco dei comizi, lei si mantiene al centro: «Abbiamo dimostrato che la sicurezza non appartiene solo alla destra e la pace non appartiene solo alla sinistra».
CORRIERE della SERA - Antonio Ferrari " Trenta partiti e caos ' all'italiana ' ", pagina 30
Spesso, in una democrazia, sono gli elettori indecisi ad arricchire il voto con qualche sorpresa. Però stavolta, in Israele, gli indecisi (soprattutto con se stessi) sono troppi e ogni previsione sul risultato è azzardata. Il perché l'ha liquidato un analista israeliano con un paradosso: «Qui, si dice la verità nei sondaggi e poi si mente nell'urna». Vero a metà, perché anche i sondaggi più recenti hanno rinunciato a cercare la bussola della volontà degli elettori.
Di sicuro, il voto di oggi confermerà il costante declino dei partiti tradizionali, seguendo l'esempio di alcuni Paesi europei. La presentazione di oltre trenta liste è un'indicazione di quello che viene definito, non si capisce se con ironia o ammirazione, «metodo all'italiana». A riequilibrare la stanchezza e la sfiducia nei confronti della destra del Likud e della sinistra laburista aveva pensato Ariel Sharon, fondando un grande partito centrista, di modello gollista, Kadima. Che però è rimasto un'opera a metà. Dopo l'uscita di scena dell'anziano condottiero, colpito da un ictus che lo ha ridotto da tre anni ad una condizione vegetativa, il partito vive infatti nell'incertezza, pur essendo ammantato dall'indubbio fascino della sua leader, la ministra degli Esteri Tzipi Livni. Mancano infatti a Kadima una convincente ideologia e soprattutto il carisma del fondatore. Un tempo, in Israele, esistevano i blocchi: destra da una parte e sinistra dall'altra.
E con i blocchi si potevano disegnare in anticipo le coalizioni. Oggi, coalizioni e blocchi possono frammentarsi, con ciascuno dei partiti che imbocca strade diverse da quelle prevedibili. Creando non poche difficoltà al presidente dello Stato, Shimon Peres, che dovrà affidare l'incarico di formare il governo. Ed è questo a rendere indecifrabile quel che accadrà nelle urne, e soprattutto quel che succederà dopo. Tutti seguono la forza seduttiva del reazionario-populista Avigdor Lieberman e del suo baldanzoso partito Israel Beiteinu, vera novità del voto.
Tuttavia, c'è chi dice che «chi ha conosciuto bene il leader non lo voterà mai, mentre lo voteranno quelli che non lo conoscono e si accontentano dei suoi slogan».
Non sono pochi coloro che già rimpiangono Ehud Olmert, il premier che si è dimesso per uno «scandalo finanziario» quasi risibile; e che, da dimissionario, ha avviato colloqui indiretti con la Siria, ha condotto la guerra agli estremisti islamici di Hamas, ha avuto il coraggio di ammettere i propri errori in una clamorosa intervista; e che potrebbe teoricamente ottenere, nelle prossime settimane, quando sarà in carica soltanto per l'ordinaria amministrazione in attesa del successore, la liberazione del caporale Gilad Shalit, da scambiare con centinaia di prigionieri palestinesi.
Certo, se Shalit fosse stato liberato prima del voto, qualcuno avrebbe tratto sicuri vantaggi politici. Ma Hamas è troppo diviso per decidere: stretto com'è dallo scontro strisciante fra i leader di Gaza e quelli che vivono all'estero, come Meshaal a Damasco, e il confronto dialettico fra l'ala politica e quella militare che convivono nella Striscia.
Come ammette il noto giornalista israeliano Nahum Barnea, un mago delle previsioni elettorali, «stavolta non riesco proprio a vederci chiaro».
Due mesi e mezzo fa era sicuro, quasi perentorio: «Il prossimo primo ministro non sarà una donna», lasciando quindi intendere che il leader del Likud Benjamin Netaniahu aveva la vittoria in tasca. «Oggi sono confuso, anche perché in poche settimane abbiamo avuto quattro consecutive campagne elettorali.
Troppe. Prima il tema era la corruzione, poi l'economia, poi le operazioni a Gaza, e poi il dopo Gaza.
Avevano promesso che, con la guerra di Gaza, la campagna elettorale era sospesa. Al contrario. Tutti si sono adoperati ad intensificarla, seguendo i propri calcoli politici. Ecco perché la gente è disorientata. A questo non eravamo abituati!».
Il FOGLIO - " L'ex feluca Ayalon ci dice come dialogherà il falco Lieberman ", pagina 3
Gerusalemme. “Yvette” – è il soprannome vezzoso di Avigdor Lieberman – ha viaggiato per tutto Israele in questa campagna elettorale. L’ex buttafuori di una discoteca di Tel Aviv è stato ovunque per guadagnare sostegno: dai kibbutz del nord alle comunità del sud colpite dai razzi di Hamas anche dopo la fine dell’operazione Piombo fuso. I viaggi lo hanno premiato: il voto di oggi non è più scontato come lo era nei primi giorni della corta e noiosa campagna elettorale, con il Likud di Benjamin Netanyahu favorito e Tzipi Livni, leader di Kadima, che arrancava dietro. I seggi di scarto oggi sono soltanto due. E l’unica certezza prima dell’apertura delle urne è il successo di Yisrael Beitenu, Israele Casa Nostra, il partito del politico con il pizzetto che vive in un insediamento della Cisgiordania e fu già fenomeno nelle elezioni del 2006: potrebbe passare da undici a 19 seggi e superare il partito laburista, Avoda, che ha guidato Israele per decenni, spingendolo al quarto posto. “Noi parliamo chiaro, senza equivoci”. Questa, secondo Danny Ayalon, candidato nelle liste di Yisrael Beitenu ed ex ambasciatore a Washington, è la regione del successo. “E’ questo che piace al pubblico: offriamo soluzioni specifiche, siamo forti sulla sicurezza, sulla politica estera, ma anche sull’educazione e le riforme elettorali”. “E per quanto riguarda gli arabi israeliani, perché i giornalisti chiedono soltanto questo, dico categoricamente che non facciamo distinzioni tra razza, religione, ed etnia”, spiega riferendosi al controverso slogan “no cittadinanza senza lealtà”, neanche troppo velatamente rivolto alla minoranza arabo-israeliana. “Abbiamo un’identità nazionale: Israele è una nazione ebraica, il che non significa che chi non è ebreo avrà meno diritti. Ma chi chiede la distruzione d’Israele sì”. Non è soltanto lo slogan sulla lealtà ad aver attirato su Lieberman, moldavo di nascita, celebre per il forte accento russo in ebraico e per qualche debolezza grammaticale, l’attenzione dei mass media internazionali. Il ritornello di queste elezioni sulla stampa è: “La deriva a destra d’Israele”, e il previsto successo ai seggi del politico, candidato corteggiato per i suoi numeri sia da Netanyahu sia da Livni, preoccupa: ci si chiede cosa accadrà al processo di pace con una figura radicale come “Yvette” in coalizione. Tutto per ora lascia pensare che Lieberman sarà l’ago della bilancia: i candidati favoriti nei giorni scorsi, sondaggi alla mano, sono stati chiari: “Nessun problema ad accogliere Yisrael Beitenu in coalizione”. “Non devono preoccuparsi”, rassicura Ayalon, ripetendo quello che alcuni analisti israeliani nei giorni scorsi hanno anticipato: Lieberman, domato dalla quotidianità della politica e all’interno di una coalizione che si preannuncia variegata, si rivelerà più moderato di quanto molti si aspettano. Yisrael Beitenu è un partito “molto utile e molto pragmatico. Esprime i desideri di molti israeliani: avere un paese migliore sotto ogni aspetto”. Ma secondo l’ambasciatore che per anni ha cercato di portar avanti l’agenda delle trattative – era tra i negoziatori israeliani a Wye Plantation nel 1998 e a Camp David nel 2000 e fu tra i maggiori sostenitori del ritiro dalla Striscia di Gaza, nel 2005, “negli ultimi 15 anni, negoziati e ritiri hanno portato soltanto sangue”, Oggi, sulle concessioni territoriali la posizione di Yisrael Beitenu è simile a quella del Likud di Netanyahu, che ha condotto l’intera campagna elettorale contro nuovi disimpegni, promettendo pubblicamente di non portare avanti, in caso di vittoria, l’agenda del premier uscente Ehud Olmert, successore di Ariel Sharon, mente ed esecutore del ritiro da Gaza. Ma, per Ayalon, le trattative non sono state totalmente cancellate dai programmi: “Primo: risolvere la questione del nucleare iraniano e mettere in ordine ‘la casa palestinese’. Poi si potrà parlare di processo di pace”
Il FOGLIO - " L'ex dirigente Sharansky ci spiega come farebbe la pace Bibi ", pagina 3:
Gerusalemme. Per aggiudicarsi la vittoria elettorale in Israele, Kadima sta puntando sul passato dell’avversario, il leader del Likud Bibi Netanyahu, rinfacciandogli di “non avere saputo reggere la pressione e di essere andato nel panico” negli anni in cui era premier, dal 1996 al 1999. Secondo Natan Sharansky – ex dissidente in Russia, ex ministro israeliano e autore di “The Case for democracy”, un saggio che secondo l’ex presidente americano George W. Bush ha ispirato la sua politica estera – non è vero. “Nel 1999 Netanyahu ha perso la posizione di premier perché non voleva essere costretto a seguire politiche che credeva potessero mettere in pericolo il paese – dice Sharansky al Foglio –. Da ministro delle Finanze, dal 2003 al 2005, ha sopportato pressioni immense. Quando con il suo piano economico ha cercato di dare una svolta liberista, ha ricevuto le critiche non soltanto dei nostri sindacati più influenti e del Partito laburista, ma anche degli oppositori all’interno del suo Likud. E anche il premier di allora, Ariel Sharon, che in un primo tempo si era dichiarato d’accordo, poi prese le distanze dal suo piano. Ma Netanyahu non ha ceduto ed è riuscito a far passare riforme come quella sul sistema bancario, che hanno salvato la nostra economia e ora ci rendono meno vulnerabili di fronte alla crisi”. Un’altro argomento usato a sfavore di Netanyahu è l’arrivo alla presidenza americana del democratico Barack Obama. Secondo Sharansky, i due leader potrebbero lavorare assieme con efficacia per raggiungere la pace. “Credo che andrebbero d’accordo – spiega – ma comunque è ridicolo considerare pericoloso un candidato perché saprebbe dire no agli americani”. Anzi, a essere chiari non si sbaglia mai: per Sharansky la posizione ferma di un governo israliano nel non accogliere una proposta americana, perché la ritiene contraria agli interessi nazionali, non ha mai causa to vere crisi fra i due paesi. “Piuttosto invece molte volte si sono create tensioni quando un governo israeliano non è stato pronto a esprimersi con chiarezza – spiega – perché gli Stati Uniti si sono sentiti fuorviati o male informati. Netanyahu ha messo in chiaro che vuole mettere in atto un processo di pace, ma non uno che utilizzi le stesse politiche fallite viste nel passato, come gli accordi di Oslo o il ritiro unilaterale da Gaza. Quello che propone Netanyahu, invece, è che la pace vera si realizzi partendo dalla base, la stessa idea in cui io ho creduto per molti anni”. Il piano proposto dal leader del Likud include massicci investimenti sull’Autorità nazionale palestinese. “Serve a offrire ai palestinesi un incentivo – dice –. Credo che i tempi siano maturi per approcci che partono dal basso, perché tutte le altre alternative sono cadute. E se c’è un presidente in grado di comprendere questo tipo di approccio è Obama. L’ho capito quando ho avuto modo di parlarci a qualche cocktail o leggendo i suoi libri. Sono portato a credere che la nuova Amministrazione di Washington non sia interessata a continuare le politiche che in passato hanno fallito, ma a trovare nuove strade”. I consensi del partito Yisrael Beiteinu, guidato dall’ultranazionalista di origini russe Avigdor Lieberman, sono in forte crescita. “Credo che l’offensiva di Israele su Gaza abbia irrigidito le posizioni degli ebrei israeliani nei confronti dei palestinesi così come degli arabi israeliani, il 20 per cento della popolazione – spiega Sharansky – Ma Netanyahu e Lieberman hanno già lavorato insieme nei governi passati e non vedo perché non dovrebbe succedere di nuovo”. Sharansky, un “likudiano di ferro”, è stato al governo per quasi dieci anni. Tornerebbe in politica se glielo chiedesse Netayahu? “So già quali sono i vantaggi e i limiti dell’avere un ruolo influente. Sono abbastanza soddisfatto dove sto. Ma se dovessi ricevere una proposta, la valuterò”.
CORRIERE della SERA - Francesco Battistini : " Israele oggi alle urne, duello tra Livni e Netanyahu ", pagina 16
GERUSALEMME — Un biglietto, un orfano, un paio d'alberi. Per acchiappare l'ultimo 10-15 per cento d'indecisi, ognuno provoca come sa.
L'astro nascente Avigdor Lieberman cala al Muro del Pianto e affida alle pietre l'ultimo messaggio d'Yisrael Beitenu: «Non c'è cittadinanza senza fedeltà» (commento del rabbino capo dello Shas, il partito religioso scavalcato nei sondaggi da Lieberman: «Patetico: quella è una reliquia del Tempio, non un campo da tennis»).
La stella fissa Bibi Netanyahu, perfidia massima, chiacchiera a lungo con Yuval Rabin, il figlio di Rabin, che qualche mese fa decise d'appoggiare il suo Likud. La stella pulsante Tzipi Livni se ne va sul Negev a piantare un ulivo nella foresta del Kadima, perché «non voglio vivere in un Paese dove quest'albero sia considerato una profanazione». L'ultima stella del carro, il laburista Ehud Barak, sceglie di piantare un albero pure lui, nel kibbutz dov'è nato, per buttare lì un pensiero più terra terra: «Se non m'avvicino ai venti seggi, il ministro della Difesa non lo faccio più».
Silenzio, si vota. Cinque milioni e 300mila elettori. Centoventi seggi da conquistare, maggioranza ai 65, con una coalizione da inventare com'è sempre stato dal 1948 a oggi. Stavolta, la diciottesima Knesset nasce in un'incertezza inedita: «Non s'è mai vista un'elezione in cui, ventiquattr'ore prima, così tanta gente fosse tanto indecisa », scrive Sima Kadmon su Maariv. Confermano i sondaggisti dello Smith Research Center: la battaglia tra Netanyahu e Livni, i due favoriti, si gioca sul filo dei 23-24 seggi ciascuno, seguiti a 3-4 seggi dalla rivelazione Lieberman (che fa circolare indagini sue e s'attribuisce già la palma di primo partito d'Israele) e a una decina dai laburisti. Due le — si fa per dire — variabili: un 20% d'elettorato costituito dagli arabi israeliani, scioccati dalla guerra di Gaza e tentati di non andare a votare nemmeno per i propri partiti; un 13-14% d'immigrati russi che fino a un mese fa sostenevano in massa Netanyahu e ora, dicono i sondaggi, gli preferiscono di gran lunga la legge e l'ordine di Lieberman.
Chi vincerà, se ci sarà un vincitore, si saprà alle 9 ora italiana. Dopodiché, il presidente Shimon Peres avrà otto giorni per individuare una coalizione possibile e incaricare un premier; 42 giorni al massimo, per avere la lista dei ministri. Quando s'è dimesso Ehud Olmert e ci ha provato Tzipi Livni, le consultazioni sono fallite: non è detto che fra due mesi non si riapra una campagna elettorale. Lasciando a Obama ancora un po' di tempo, prima di scendere in quest'arena.
L'UNITA' - Umberto De Giovannangeli : " Voterò per Livni. Ma Israele ha bisogno dell'unità nazionale", pagina 26:
Un Paese in trincea oggi si reca alle urne. Israele vota. Paure, speranze, incertezze, scenari futuri nelle riflessioni di uno dei più affermati scrittori israeliani: Meir Shalev.
Israele ha “sfiorato” il voto in uno stato di guerra. Queste elezioni sono diverse dal passato?
«Qualche particolarità c'è stata. Innanzi tutto i tempi della campagna elettorale sono stati brevissimi e questo a me, personalmente, non dispiace, visto che tutto sommato quello che i partiti hanno da offrire è già chiaro a tutti. Ciò che invece è diverso è lo schieramento delle forze politiche: eravamo stati abituati ad un confronto fra due partiti maggiori e dietro di loro uno-due medi e una serie di piccoli. Da queste elezioni, se non ci saranno sorprese, avremo quattro-cinque partiti medi che possono fare da ago della bilancia e un gruppetto di piccoli partiti più settoriali. Il fenomeno è, in ogni caso, rappresentato da Lieberman (il leader del partito di estrema destra Israel Beitenu, ndr.), un personaggio che riesce negli ultimi anni a cavalcare gli umori o meglio i malumori dell'ampia fascia dell'opinione pubblica insoddisfatta della classe politica e disposta a discostarsi dal proprio voto tradizionale. Questa volta Lieberman ha assunto il ruolo di vendicatore nei confronti degli Arabi israeliani - colpevoli di tramare contro lo Stato di cui sono cittadini -perfino in periodi di guerra come è avvenuto nell'ultimo confronto. E attenzione, non lo fa stupidamente! Usa argomenti che possono convincere tanto i “razionali” quanto gli “emozionali”: "Siamo usciti da Gaza come gli Arabi volevano e abbiamo ricevuto in cambio missili e bombe. I nostri governi incapaci e inerti non hanno reagito per otto anni a questo stillicidio. Guardate i deputati arabi alla Knesset: invece di curarsi del pubblico che li ha mandati al parlamento – vale a dire i cittadini arabi di Israele – si occupano solo della questione palestinese, comportandosi come una quinta colonna all'interno del sistema politico d'Israele". Lieberman non prospetta un'ideologia, non avanza possibili soluzioni al conflitto; con il suo slogan "non c'è cittadinanza senza fedeltà al Paese", offre al pubblico ebraico-israeliano la vendetta politica nei confronti di quella parte della popolazione che viene percepita da molti come traditrice».
Che cosa c'è da sperare e da temere dalle agende dei tre candidati per il futuro di Israele come Lei lo vede?
«Tranne per il fatto che una di loro è donna, i tre candidati non lasciano molto spazio a sorprese nelle questioni più scottanti della politica israeliana. Rappresentano partiti che in un'ottica di formazione di governo possono convivere perché non hanno fra loro forti differenze. La cosa è perfino auspicabile alla luce delle future sfide che Israele dovrà affrontare. Rimane – di nuovo – l'incognita Lieberman, ma anche di Shas, il partito ultraortodosso che rappresenta gli ebrei sefarditi. Se i tre partiti maggiori non sapranno superare i loro problemi dettati principalmente da ambizioni personali, potrebbero essere questi partiti minori a imporre il futuro di Israele in molti campi. La domanda è quindi se il vincitore fra i tre candidati saprà “cucire” un valido governo di unità nazionale mobilitando gli altri due contendenti».
«Il Likud per la pace e i laburisti per la guerra» si diceva una volta in Israele. Ma ora ci si trova fra un confronto pieno di incognite con l'Iran e la probabilità di dover giungere a duri compromessi imposti forse da Barack Obama, per porre fine al conflitto con i Palestinesi. Chi è bene che sia alla guida del Paese?
«Già molti anni fa, spiegavo in alcuni miei articoli cosa significa per me un "presidente americano amico di Israele". E lo descrivevo come colui che convincerà/costringerà Israele a smantellare gli insediamenti e a trovare un punto di incontro con i Palestinesi. Se Obama si muoverà in questa direzione, anche con "l'aggressività" che ha promesso di usare, non potrò che appoggiarlo – e tutto questo nella totale convinzione che questo sia un interesse dello Stato d'Israele. Spero solo che non si sia aspettato troppo e che la cosa sia ancora possibile. Per quanto riguarda la mia preferenza, questa va alla Livni (Kadima), ma non perché conosca appieno le sue qualità o capacità, ma perché gli altri due - Benjamin Netanyahu (Likud) ed Ehud Barak (Labour) - hanno dato già una prova negativa delle loro. Spero che le sia data questa possibilità e che come prima dimostrazione delle sue capacità come premier, sappia formare un governo Kadima, Likud e Labour che superi gli egoismi partitici e individuali e che si prepari al meglio per le future sfide che Israele si appresta ad affrontare».
La sinistra israeliana soffre di una lunga crisi. Perché non riesce ad uscirne?
«Non c'è dubbio che c'è da tempo un vuoto di leadership. Da Rabin a oggi la sinistra non riesce a trovare una figura carismatica intorno a cui unirsi. Ma insieme a questo, la sinistra non riesce a offrire nuove bandiere, dopo che buona parte delle sue del passato sono diventate proprietà comune di tutti i partiti che coprono l'area politica che va fino alla destra moderata. E questo vale in buona misura tanto per i temi politici quanto per quelli sociali. Ma da questa difficoltà e incapacità di distinguersi deriva forse una incomprensione che va approfondita. Quando mi capita di essere in Europa e anche in Italia, mi rendo conto che molti pensano, o vorrebbero pensare, che in Israele opera una destra nazionalista e militarista e contrapposta a questa una sinistra israeliana paladina della pace e dell'amore fra i due popoli. Due innamorati che stanno sempre a letto a sbaciucchiarsi. Spiacente, ma non è così: la maggioranza della sinistra vuole vivere in con i Palestinesi in pace, ma in due stanze separate. Io mi considero parte della sinistra e posso confermare la mia profonda volontà di essere un giorno amico dei Palestinesi, ma nello stesso tempo il mio realismo mi dice che oggi il mondo deve aiutarci innanzi tutto a diventare buoni vicini, a salutarci educatamente quando ci incontriamo senza bruciarci le macchine nel parcheggio se non siamo d'accordo uno con l'altro. Magari sarà meno idilliaco e si presta meno a slogan pacifisti, ma dobbiamo fare la pace e non l’amore».
CORRIERE della SERA - Francesco Battistini : " Io non voto più. Gli elettori pensano solo alla sicurezza ", pagina 16
GERUSALEMME — Per chi vota?
«Non voto da un pezzo. In Israele, vincono sempre i peggiori».
Allora non le importa sapere come finisce.
«Gl'israeliani non votano mai per un governo, votano sull'esistenza di questo Paese. I sondaggi non sono buoni, sono preoccupato come tutte le persone ragionevoli».
Preoccupato per la possibile vittoria della destra di Netanyahu o per il probabile trionfo dell'ultradestra di Lieberman?
«Netanyahu sarà un problema se deciderà di fare un governo con Lieberman e i religiosi dello Shas. Lo sarà meno, in compagnia di Tzipi Livni e magari laburisti».
Guerra e voto. Per Amos Gitai, 59 anni, è normale parlarne: i suoi film sono politica, le sue idee combattono. Se n'è andato a Parigi anni fa, soffocato dalle critiche e da qualche censura. Ogni tanto ritorna. Da lontano, osserva questa trincea elettorale del dopo Gaza.
Ma come si spiega uno come Lieberman?
«Il problema non è lui. È il fatto che siano nati partiti etnocentrici come Israel Beiteinu e lo Shas. Tutto è cominciato dalle grandi ondate migratorie. Per anni, abbiamo avuto immigrati da Paesi oppressivi, brutali come la Russia, il Caucaso, l'Est europeo. Le ondate sono finite, oggi ci troviamo un blocco d'elettori che ha una percezione della società basata solo sui rapporti di forza. Israele ha cambiato pelle, molti hanno un'idea di Stato diversa da quella di chi lo fondò. È la stessa forza che porta gl'immigrati magrebini a identificarsi negli ultrareligiosi dello Shas: la percezione religiosa, nel rapporto con lo Stato, è l'unica che molti possiedono».
E la Livni, Barak, i leader più tradizionali?
«S'adeguano. Mostrano i muscoli. L'uomo di sinistra Barak parla la lingua dei generali. Meretz, la sinistra, il partito degli scrittori sono stati cancellati dalla guerra di Gaza».
Che impressione le ha fatto, quest'Israele unanime sulle bombe?
«È stato terribile. Hamas ha regalato il bonus per azioni brutali. Sono state le settimane dell'impolitica, del razzismo e dell'antiarabismo di Lieberman. È una situazione che mi ricorda molto la confusione in cui precipitammo dopo la guerra del Kippur. Il conflitto nella dirigenza, la stagnazione, la frammentazione sono simili. Anche se stavolta c'è un'incognita: Obama».
Guarda mai la foto del soldato Shalit? Le viene in mente che somiglia ai riservisti del suo «Kippur»?
«Somigliano le divise. Il resto, no. Allora c'era una società che si preparava a fare concessioni territoriali, c'era una sinistra critica, si mettevano le basi per la pace di Oslo. Oggi noi siamo cambiati, ma sono cambiati anche gli arabi: c'è Hezbollah, c'è Hamas. Ci sono stati il ritiro del Libano con Barak, il ritiro da Gaza con Sharon. E la sensazione nell'opinione pubblica è che tutto questo non sia servito a nulla. È l'argomento che usa la destra classica di Netanyahu: mai più ritiri unilaterali. Io sono per la restituzione dei Territori, ma capisco che sia difficile finché di là ci sono Hezbollah e Hamas. Bisogna raggiungere un accordo pacifico col mondo arabo. Ma anche il mondo arabo deve cambiare».
Che Israele ritrova, quando torna?
«Non sto nel pensiero prevalente. Ma insisto, perché è il mio mestiere dire cose scomode. A chi mi parla solo di sicurezza, io parlo soprattutto di pace ».
«Valzer con Bashir» è candidato agli Oscar...
«È un film che è stato finanziato in Israele, e questo è un bene: parlano pure lì della guerra. Anche se io non ebbi tutti questi elogi. Fui pesantemente attaccato, criticato. Se oggi c'è spazio per un film così e se il pubblico va a vederlo, questo si può dire: qualcosa è migliorato».
La REPUBBLICA - Alberto Stabile : " Lieberman è un neofascista pericoloso ma sono ottimista, il popolo vuole altro ", pagina 17
Gerusalemme - «È un fuoco tremendo, devastante, quello che sta cercando di accendere Lieberman. Un linguaggio come il suo non è mai appartenuto neanche alla destra revisionista, né ai nazionalisti religiosi. Non fa parte della tradizione israeliana. E´ il linguaggio del neofascismo europeo condito con del vecchio bolscevismo. E contro di esso tutti, inclusa la destra del Likud, dobbiamo combattere».
Abraham B. Yehoshua è severissimo con Avigdor Lieberman, la sorpresa di questa vigilia elettorale, l´uomo politico che turba le coscienze degli israeliani moderati con lo slogan "nessuna cittadinanza senza giuramento di lealtà", agitato come una clava contro gli arabi-israeliani, rappresentati come una "minaccia interna", persino più grave del nucleare iraniano, di Hezbollah ed Hamas. Per non dire poi del proposito di trasferire parte della Galilea, dove la maggioranza della popolazione è araba, sotto l´autorità palestinese, in cambio degli insediamenti in Cisgiordania. E tuttavia Lieberman sembra in grado d´irritare il grande scrittore israeliano, ma non di spaventarlo, o di indurlo al pessimismo: «E´ un fenomeno transitorio. Va e viene. Passerà».
Quindi lei non crede che la prossima Knesset sarà la più di destra della storia d´Israele?
«Se dovesse vincere una coalizione di estrema destra, dovrebbero includere anche Hamas, perchè Hamas li ha molto aiutati a creare le condizioni per un successo del genere. Ma perché predire qualcosa di brutto che non è ancora successo?».
Perché fa parte del gioco delle previsioni elettorali.
«Allora io le dico che a vincere sarà una larga coalizione, l´unica che può governare il paese in questo momento. Un partito come quello di Lieberman non è in grado di governare. Anche se dovesse prendere il 30% non potrebbe fare nulla senza l´aiuto del centro. Ma se a vincere sarà il Likud, c´è in Netanyahu il desiderio di formare una coalizione di centro-destra, con Kadima e i laburisti. Ed è quello che vuole il popolo».
Mi faccia capire. Sta parlando di un governo di unità nazionale?
«Sto parlando di un governo ampio, in grado di affrontare questioni molto complesse, drammatiche, come la crisi economica e la sicurezza».
E´ questa la posa in gioco di queste elezioni?
«Io credo che il problema centrale di queste elezioni sia il dialogo, il processo di pace che deve continuare. Nessuno può sfuggire a questo. Un governo di centro, o basato sul centro, potrà proseguire il dialogo usufruendo dell´ombrello offerto dai paesi arabi moderati, dalla nuova amministrazione americana e dall´Europa».
E Gaza?
«Gaza sarà tranquilla, le condizioni di vita miglioreranno, le case distrutte dalla guerra saranno ricostruite. I missili cesseranno di colpire Israele».
Tutto questo succederà con Hamas al potere?
«Hamas ha tratto la sua lezione dall´operazione "Piombo fuso". Si notano movimenti importanti. Hamas di Gaza si ribellerà contro Hamas di Damasco, leadership interna contro leadership esterna. L´Egitto s´impegnerà di più per lottare contro il contrabbando. L´Europa dovrà essere più coinvolta. Mi sento di essere ottimista, perché Israele è stato costruito sull´ottimismo e, se mi consente, sulla naivité dei sionisti».
A proposito di sionismo, Shlomo Avineri ha ricordato ieri su "Haartez" che Theodor Herzl negli anni ´20 aveva immaginato uno stato dei cittadini, senza distinzione di religione, razza, sesso, con uguali diritti e doveri. Non le sembra che il messaggio elettorale di Lieberman vada nella direzione esattamente opposta?
«Certo che va nella direzione opposta. E´ una rottura di quegli ideali. E ripeto, è un linguaggio che viene da fuori, estraneo persino ai partiti religiosi. Lieberman attacca uno dei punti più sensibili della nostra storia, il delicato equilibrio tra la maggioranza ebraica e la minoranza araba, un modus vivendi costruito in 62 anni con grandi sacrifici da una parte e dall´altra».
Forse è per questo che molti israeliani temono il successo di Lieberman. Lei non ha paura?
«Io non ho paura, perché le sue idee mi sembrano campate in aria, o prese a prestito da certi personaggi dell´estrema destra europea che hanno fatto clamore ma non hanno lasciato traccia».
Posso chiederle per chi voterà oggi?
«Per il mio partito. Meretz. E mi raccomando, scriva che sono ottimista. Lo sono sempre stato».
Sul SOLE 24 ORE Ugo Tramballi critica il sistema elettorale proporzionale di Israele, inoltre dichiara che la recente guerra contro Hamas avrebbe influenzato l'elettorato israeliano, ormai convinto (a torto?) di non aver un interlocutore arabo di pace. Tramballi, pur di criticare Israele, arriva a scrivere che è sì una democrazia, ma che anche a Gaza c'è democrazia, dal momento che Hamas è stata eletta " con le elezioni più democratiche del mondo arabo ". Tramballi avrebbe difeso anche qualcun altro che, negli anni '30, è stato eletto in Germania con " elezioni democratiche "? ("Effetto Lieberman in Israele", pagina 11)
Il MANIFESTO Zvi Shuldiner commenta il consenso sempre maggiore che la destra sta ottenendo fra gli elettori, attribuendone la responsabilità alle guerre che Israele ha combattuto contro i suoi aggressori. Schuldiner si riferisce in particolar modo all'ultima guerra, quella contro Hamas. dichiarando prima che è stata una guerra politica e poi che è stata persa da Israele, dal momento che Hamas ne è uscita rafforzata. Israele, comunque, ha torto. Hamas lancia razzi sulla popolazione? Non bisogna rispondere perchè si uccidono i civili, perchè Hamas si rafforza, perchè l'ultradestra "fascista" guadagna consenso...peccato che nell'articolo Schuldiner non chiarisca quali azioni deve fare Israele per poter sopravvivere... ("Se la guerra finisce nell'urna, la resistibile ascesa della destra", pagina 11)
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