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Corriere della Sera Rassegna Stampa
07.02.2009 Incredibile, Farian Sabahi arriva al Corriere
che ci sia una manina ad averle aperto la porta ?

Testata: Corriere della Sera
Data: 07 febbraio 2009
Pagina: 1
Autore: Faria Sabahi
Titolo: «Il calice amaro di Teheran»

Il CORRIERE della SERA di oggi, 07/02/2009, a pag.32, e con un richiamo in prima, pubblica un articolo di Farian Sabahi, dal titolo "Il calice amaro di Teheran" che riportiamo. Abbiamo visto con un certo stupore la firma della Sabahi sul CORRIERE della SERA,  ne spieghiamo i motivi. Sino a qualche mese fa scriveva sltuariamente sulla STAMPA, una collaborazione che si è interrotta quando il quotidiano torinese ha ricevuto da A.B.Yehoshua,  illustre collaboratore, una lettera di protesta per le manipolazioni che la Sabahi aveva portato alle sue dichiarazioni rilasciate durante un'intervista. La Sabahi, omettendo e modificando, aveva lasciato intendere al lettore che l'Iran non rappresentava un pericolo per Israele. La giornalista, iraniana, da sempre scrive sull'Iran cercando di presentare la politica di questo stato terrorista in una veste accettabile per l'occidente. L' "incidente  Yehoshua" ha però rivelato il suo gioco, incrinando il rapporto con il giornale torinese (consigliamo di leggere tutta la storia cliccando il nome della giornalista nel nostro motore di ricerca " cerca nel sito"). Ma, invece di finire sulle pagine del Manifesto o simili, ce la troviamo sul CORRIERE della SERA ! Per rendersi dìconto del suo "stile" sarà sufficiente leggere quanto scrive.  L'alleanza dello Scià con gli Usa e con Israele è vista in chiave khomeinista, "Riavvicinarsi agli Stati Uniti, e al suo alleato israeliano, sarà un calice amaro che, prima o poi, ayatollah e pasdaran dovranno bere." E' l'Iran che deve bere quel calice amaro, non è  Israele a doversi preoccupare delle minacce dell'Iran. In più, con la tecnica dell' "omissione", ampiamente usata da Sergio Romano, non una parola sulla politica di gran finanziatore del terrorismo mediorientale dell'Iran, raccontato come uno stato che ha sì dei problemi, ma in fondo quale stato non ne ha ? A pensar male si fa peccato, diceva quel sant'uomo di Andreotti, ma aggiungeva che quasi sempre si indovina. Che ci sia la manina di Romano ad aver guidato l'ingresso della Sabahi al Corriere ? E' una domanda che vorremmo arrivasse a Paolo Mieli sull'onda di moltissime e-mail da parte dei lettori di IC.    Ecco l'articolo:

Farian Sabahi - Il calice amaro di Teheran


ll 10 febbraio sarà una data importante sia per Israele sia per l'Iran: i cittadini dello Stato ebraico andranno alle urne per eleggere il nuovo premier e quello stesso giorno, che nel calendario persiano corrisponde al 22 di Bahman, i sostenitori della Repubblica islamica celebreranno il trentesimo anniversario della rivoluzione che consentì di cacciare lo scià Reza Pahlavi, da molti considerato una pedina degli americani in Medio Oriente. Nel 1979 gli slogan contro lo Stato ebraico accompagnarono quelli contro gli Stati Uniti e servirono a mobilitare le folle. Trent'anni dopo, archiviare quelle invettive significherebbe rinnegare la rivoluzione stessa e mettere a rischio la sua leadership. Per questo, e nonostante il fallimento della sua politica economica, con le dichiarazioni contro lo Stato ebraico il presidente Ahmadinejad ha rispolverato gli ideali rivoluzionari e ottenuto il sostegno del leader supremo Khamenei in vista delle elezioni presidenziali del 12 giugno. Il carismatico ayatollah Khomeini aveva posto fine alle relazioni diplomatiche con gli Usa e Israele, che invece vantavano ottimi rapporti con lo scià. Con lo Stato ebraico Reza Pahlavi intratteneva rapporti di collaborazione in campo agricolo, industriale, energetico e militare. Il naturale fondamento di questa intesa era la vicinanza di due Paesi in un certo senso isolati, in un Medio Oriente popolato da arabi di fede sunnita: l'Iran è una nazione a maggioranza sciita che parla persiano, Israele è abitato da ebrei con un loro idioma. Un'alleanza inevitabile, in quella fase storica in cui il panarabismo riscaldava gli animi di alcuni e ne spaventava molti altri. In questi 30 anni i rapporti tra Iran e Israele si sono deteriorati, ma che cosa c'è di sostanziale dietro la retorica?
Oltre alla comune diffidenza verso gli arabi, a tenere uniti i due popoli è da sempre il commercio, che non si è mai interrotto grazie alla complicità dei 250 mila ebrei iraniani che vivono in Israele e alla triangolazione di Paesi come la Turchia e gli Emirati Arabi. Di fatto, le invettive del presidente iraniano sono funzionali a mantenere viva l'ideologia rivoluzionaria, che altrimenti rischierebbe di vacillare. Perché, a distanza di 30 anni da quegli eventi turbolenti, l'Iran non è più lo stesso: la popolazione è raddoppiata e, quindi, il 50% degli iraniani di oggi nel 1979 non era ancora nato; il tasso di alfabetizzazione degli adulti si avvicina all'89% e le istanze di democrazia e di rispetto dei diritti umani si fanno sempre più pressanti. Ma l'aspetto più preoccupante è quello economico: il budget del governo dipende dalle esportazioni di petrolio, ma in questi decenni le sanzioni hanno impedito i necessari investimenti in infrastrutture; di conseguenza, secondo Roger Stern della Johns Hopkins University, la produzione diminuisce del 10% annuo ed entro il 2025 si potrebbe profilare il prosciugamento delle riserve. Una previsione pessimistica, a cui si aggiunge l'inchiesta della Cia sui Global Trends, secondo la quale entro quella data il petrolio non sarà più la principale fonte energetica.
In un Paese dove i sussidi dello Stato alla popolazione sono fondamentali nel mantenere il consenso, una diminuzione tanto drastica degli introiti rischia di avere conseguenze politiche. Per questo la leadership della Repubblica islamica dovrà accettare un cambio di strategia per mettere fine all'isolamento. A costo di venire a patti con Washington. E a condizione che l'amministrazione di Obama decida di riconoscere il ruolo regionale dell'Iran e non lasci inascoltate le richieste iraniane, non ultima la restituzione dei depositi congelati dalle banche americane all'indomani della presa degli ostaggi del 4 novembre 1979. Riavvicinarsi agli Stati Uniti, e al suo alleato israeliano, sarà un calice amaro che, prima o poi, ayatollah e pasdaran dovranno bere. Perché, come spiegò lo stesso Khomeini negli ultimi anni di vita, a guidare le scelte politiche deve essere l'interesse nazionale, anche a costo di accantonare i principi islamici. E verrebbe da aggiungere, a ridosso dell'anniversario, anche a costo di lasciare che la polvere ricopra gli ideali di una rivoluzione di cui la maggior parte degli iraniani non ha memoria.

Per scrivere a Paolo Mieli cliccare sull'e-mail sottostante


lettere@corriere.it

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