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Il Foglio Rassegna Stampa
07.02.2009 Il vero volto dell'Iran e la vittoria in Iraq
La testimonianza di Massimo Boffa e l'analisi di Carlo Panella

Testata: Il Foglio
Data: 07 febbraio 2009
Pagina: 3
Autore: Massimo Boffa-Carlo Panella
Titolo: «Quel che resta della rivoluzione -Così Maliki vince in Iraq e sconfigge la rivoluzione khomeinista "»

Sul FOGLIO di oggi, 07/02/2009, due analisi, sull' Iran di Massimo Boffa, e sull' Iraq di Carlo Panella.  Il pezzo di Boffa, oltre ad essere una testimonanza, va detto che è molto sincero. L'autore, come lui stesso scrive, era allora un comunista tutto d'un pezzo, che vedeva nell'America e nello Scià i nemici da sconfiggere. Non era l'unico, molti lo pensano ancora oggi, ma questa sincerità nel raccontare "com'era", ci è piaciuta. A noi, che allora stavamo dalla parte della modernità, quindi con gli Stati Uniti e con lo Scià, e che fin da quando Khomeini predicava la sua ideologia sul suolo francese, avevamo capito che razza di criminale era. Boffa era con gli altri, con quelli che applaudivano, ma non lo nasconde, anzi. Magari il suo percorso fosse di inegnamento a tanti terzomondisti-in-ritardo di oggi.

Ecco gli articoli:

Massimo Boffa: " Quel che resta della rivoluzione "

Tra gli accadimenti fortunati della mia vita c’è quello di essermi trovato, un po’ per caso, a Teheran nel novembre 1978, alla vigilia della Rivoluzione. Oddio, non proprio per caso, giacché mi aveva inviato Rinascita, il settimanale del Partito comunista italiano, per seguire quella che si annunciava come una seria crisi regionale, in un paese noto all’opinione pubblica di sinistra soprattutto per il regime autoritario e repressivo dello scià Reza Pahlavi. Ma di quella realtà io ignoravo quasi tutto, storia e perfino geografia. Dopo quel primo soggiorno molti altri ne sono seguiti, così che mi sono ritrovato, a più riprese, a fare la spola tra Roma e Teheran fino all’estate 1980: vale a dire, per tutta la fase “anarchica” della Rivoluzione, quella terminata con la cacciata del presidente eletto Abolhassan Bani Sadr (che per qualche tempo aveva cercato di fare argine alla deriva più estremista del movimento islamico) e con la vittoria completa delle componenti più radicali. Per noi cronisti italiani e francesi, che ci reincontravamo periodicamente al Park Hotel (inglesi e americani stavano nel più lussuoso Intercontinental), il primo impegno era ovviamente quello di raccontare eventi che si facevano via via sempre più spettacolari. L’8 settembre 1978, nella centrale piazza Jaleh, la polizia aveva sparato contro una manifestazione di protesta per la strage avvenuta in un cinema di Abadan a causa di un incendio che la vox populi aveva attribuito ai servizi segreti. Erano rimasti sull’asfalto decine di dimostranti. A quella manifestazione ne seguirono altre, sempre più imponenti, secondo un calendario scandito dal martirologio dell’islam sciita e culminante nel giorno dell’ashura, in cui viene commemorata l’uccisione in battaglia nel 680 a Kerbala di Hossein, figlio di Alì (primo imam sciita e quarto califfo dell’islam). Quel giorno di dicembre le strade di Teheran si riempirono di una folla immensa, che sfilò dal mattino fino al tramonto chiedendo l’abdicazione dello scià e inalberando le immagini dell’ayatollah Ruhollah Khomeini. Il vecchio ayatollah era in esilio da 16 anni per la sua attività anti- regime e da alcune settimane si era trasferito dall’Iraq a Neauphle-le-Château, nella periferia di Parigi, da cui inviava in Iran i suoi discorsi registrati su cassette. L’autorità morale, l’intransigenza politica e l’efficace rete cospirativa fornita dalla parte del clero che si riconosceva in lui (ben più diffusa dei tradizionali partiti di opposizione, per di più illegali) lo avevano proiettato alla ribalta del movimento popolare. Ma nessun regime che sia saldo al proprio interno e che sia disposto a usare senza scrupoli lo strumento repressivo è mai caduto per una spinta popolare, per quanto possente. Quello dello scià, invece, aveva cominciato a mostrare inequivocabili segni di debolezza. Da Washington, infatti, il presidente Jimmy Carter, principale protettore dell’Iran ma anche alfiere di una politica dei “diritti umani”, si era messo a premere sul suo alleato perché accettasse una riforma della monarchia. Fu l’elemento che fece precipitare la situazione. A quel punto, il corso delle cose divenne tumultuoso: Reza Pahlavi fu costretto a insediare un primo ministro riformatore (Shapur Bakhtiar) e a partire per un esilio “temporaneo” in Egitto (16 gennaio); due settimane dopo Khomeini rientrava a Teheran, accolto da un corteo che si snodava dall’aeroporto fino ai più remoti quartieri della città; quindi, un esercito demoralizzato si chiamava fuori dal gioco politico e l’11 febbraio le milizie islamiche conquistavano il potere travolgendo il governo Bakhtiar e mettendo al suo posto Mehdi Bazargan, un musulmano mite, che giurava fedeltà all’ayatollah Khomeini e che poteva ben poco per moderare la spinta del radicalismo rivoluzionario. Il terrore cominciò subito prima con le esecuzioni dei principali collaboratori dello scià, come l’ex primo ministro Amir Abbas Oveida, poi estendendo la pratica dei processi sommari dai reati politici a quelli “morali”, con corti di giustizia improvvisate, come quella del sinistramente celebre ayatollah Sadegh Khalkali. Il 30 marzo un referendum (98 per cento a favore) trasformò l’Iran in una “Repubblica islamica”, ponendo le fondamenta istituzionali di una democrazia totalitaria su base teocratica. Venivano costituiti un Parlamento e un presidente eletti dal popolo, ma la sovranità reale era nelle mani della guida religiosa (secondo il principio del “velayat- e-faghig”). Per più di un anno, questo dualismo di poteri alimenterà l’instabilità del paese, tra vani tentativi di arrestare la spinta del movimento islamico (prima Bazargan, poi Bani Sadr) e accelerazioni estremiste (come l’occupazione dell’ambasciata americana il 4 novembre e la cattura di 55 ostaggi, detenuti per 444 giorni). Con la destituzione di Bani Sadr, nel giugno 1981, la Repubblica islamica troverà la sua forma politica e istituzionale, che sostanzialmente dura tuttora. Insomma, per noi cronisti ce n’erano davvero di cose da raccontare. Ma ci trovavamo anche di fronte a un impegno più complicato: trasmettere ai nostri lettori il senso dell’enormità dell’evento cui stavamo assistendo, una rivoluzione che già allora appariva dell’ordine di grandezza di quella francese del 1789 e di quella russa del 1917, e come quelle destinata a cambiare il mondo. Oggi si fa presto a dire: “Rivoluzione islamica”. Trent’anni fa, sia il sostantivo che l’aggettivo potevano suonare incongrui. Innanzitutto fu il sostantivo a essere oggetto di contestazioni. Prevaleva ancora, nella cultura politica della sinistra, una nozione ingenua della “rivoluzione”, come qualcosa di desiderabile ai fini del progresso sociale. Sconcertava dunque un movimento rivoluzionario che appariva “regressivo”, tanto nei suoi propositi di restaurare un ordine pre-moderno quanto nei suoi atti pratici, rivolti a reprimere i liberi costumi che il regime laico dello scià aveva introdotto tra i ceti urbani dell’Iran. E’ quindi inesatto quanto ancor oggi si sente dire, che cioè la cultura di sinistra accolse con favore la Rivoluzione khomeinista. O almeno, parzialmente inesatto. C’era infatti una sinistra ortodossa che maneggiava con diffidenza gli eventi di Teheran, poiché confliggevano con il proprio paradigma simil-marxista, secondo cui le rivoluzioni arrivano a coronare un precedente sviluppo delle forze sociali e a dischiudere nuove prospettive di emancipazione. E c’era una sinistra moderata, di fatto socialdemocratica, che si ritraeva inorridita di fronte al corso plebeo della rivoluzione. Più in generale, molto forte era la tendenza a minimizzarne la portata: in fin dei conti, quanti regimi autoritari del Terzo Mondo si erano dichiarati “rivoluzionari” in seguito a un colpo di mano militare (Nasser, Saddam, Gheddafi…) e avevano poi circoscritto le proprie ambizioni a un mero contesto regionale. Simpatie provenivano invece dalla sinistra terzomondista, sedotta dalla carica anti-americana dei mullah iraniani e dall’appoggio apertamente offerto alla causa palestinese (una delle principali strade di Teheran, via Pahlavi, era stata subito ribattezzata via Palestina). In clima di Guerra fredda, inoltre, a chi sottovalutava le ambizioni in proprio dell’internazionalismo eventi di Teheran venissero semplicemente a spostare gli equilibri mondiali a favore dell’Unione sovietica. A complicare il quadro, esisteva poi una sinistra libertaria (Lotta continua in Italia, Libération in Francia) che aveva seguito con viva partecipazione il variopinto movimento di lotta contro lo scià, salvo poi sostenere i gruppi di resistenza contro l’islamizzazione forzata. In una chiave analogamente libertaria, Michel Foucault, inviato in Iran dal Corriere della Sera, aveva concentrato le proprie simpatie sulle nuove forme di disobbedienza che avevano eroso dal basso il regime di Reza Pahlavi. A questo punto, rischierei di apparire reticente se non aprissi (e subito chiudessi) una piccola parentesi personale. Trent’anni fa fui tra coloro che sostennero ardentemente la rivoluzione khomeinista, e qualche amico bonariamente ancora mi rimprovera. Tanto più che non mi dissuase nemmeno la deriva subito feroce degli eventi. Anzi. Per me era evidente che il khomeinismo apparteneva, per molti versi, allo stesso genere di fenomeni del giacobinismo e del bolscevismo. E non mi era certo ignoto il fondo nichilista e totalitario delle altre due grandi rivoluzioni. Ma all’epoca ero comunista, e per giunta piuttosto dottrinario. Mi sembrava dunque naturale, a dispetto dei costi umani, aderire al corso “tragico” dell’evento, secondo una scelta che oggi mi appare sciaguratamente estetica assai più che politica o morale. Aprire gli occhi sul carattere atroce della Rivoluzione iraniana e prendere distanze critiche dal comunismo, dalla rivoluzione russa e da quella francese fu per me tutt’uno. Chiusa la parentesi. * * * Ora a trent’anni di distanza, tutte queste discussioni inevitabilmente appaiono datate e forse anche un po’ provinciali. Con il passare del tempo, infatti, è emerso sempre più chiaramente il vero significato storico della Rivoluzione khomeinista, che ha a che fare soprattutto con l’aggettivo “islamica”. Giacché proprio allora ha cominciato a prendere forma precisa la formidabile rinascita dell’islam come forza rivoluzionaria mondiale e la trasformazione di quello che a lungo era stato essenzialmente un credo religioso nella più aggressiva ideologia politica contemporanea. La dimensione politica dell’islam fu, fin da principio, il tema forte di Khomeini (“L’islam è politico – diceva e ripeteva – o non è nulla”), vanamente contrastato da altri dignitari sciiti come Shariat Madari, vecchio e assai autorevole ayatollah che finì i suoi giorni relegato nella città santa di Qom. Nel far ciò, come è noto, si appoggiava a una solida tradizione: tra i fondatori delle grandi religioni, Maometto è l’unico ad avere esercitato direttamente il potere di fare le leggi, di amministrare lo stato, di dichiarare la guerra. A proposito della distinzione, familiare al mondo cristiano, tra una sfera religiosa privata e una sfera politica pubblica, non c’è niente da aggiungere a quanto affermava Bernard Lewis, lucido islamista, in un testo che, pur essendo stato scritto vent’anni fa, è sempre utile avere sotto gli occhi: “Non è così nel mondo islamico. Non è mai stato così in passato. E il tentativo, in tempi moderni, di introdurre questa distinzione forse verrà visto, nella lunga prospettiva storica, come una innaturale aberrazione che è giunta a termine in Iran e che potrebbe star finendo anche in altri paesi islamici” (“Islamic Revolution”, The New York Review of Books, 21 gennaio 1988). Se Dio è la fonfonte della sovranità, la legge è la legge di Dio, l’esercito è l’esercito di Dio, e anche i nemici sono i nemici di Dio. All’opposizione tra amici e nemici di Dio, tra credenti e miscredenti, la Rivoluzione khomeinista ha apportato nuovi significati, che sono alla base dell’attrazione che oggi esercita l’ideologica islamica in tutto il mondo. Innanzitutto un significato sociale: l’opposizione tra poveri e ricchi, tra diseredati e potenti della terra. E su questo motivo la retorica del regime iraniano non ha mai abbassato i toni. Ma soprattutto ha apportato un significato culturale: la lotta contro l’occidentalismo, inteso come la principale forza corruttrice della civiltà musulmana, tanto più insidiosa quanto più seducente. L’America è il Grande Satana perché è il Grande Seduttore. Ma l’America è un nemico lontano. Può essere sfidata, non vinta. Può essere ferita, come è successo l’11 settembre, può essere maledetta, le sue bandiere possono essere bruciate, non sconfitta. Ci sono nemici più vicini e più fragili, come Israele, un paese per il cui destino ogni persona ragionevole palpita di angoscia. Il nemico più prossimo di tutti, però, il più suscettibile di essere destabilizzato dal verbo che proviene da Teheran, è interno al mondo islamico: sono quei paesi che si dichiarano musulmani ma non lo sono, poiché non vi regna la legge di Dio, la sharia. L’ostilità contro la modernizzazione agita le minoranze intellettuali islamiche almeno dall’inizio del Novecento, quando la Turchia di Kemal Atatürk abolì il califfato e impose il laicismo di stato. Le più attive hanno operato in Egitto, i Fratelli musulmani, e hanno condotto una lotta incessante prima contro Nasser, poi contro Sadat, ora contro Mubarak. Ovunque la pietra dello scandalo è la condizione della donna. La sua emancipazione, la sua libertà sessuale sono il simbolo stesso di costumi giudicati inautentici e degenerati, non islamici. In nome dell’islam autentico, le leadership laiche vengono delegittimate in tutto il mondo musulmano. E la Rivoluzione iraniana ha trasmesso a questi agitatori l’esempio e l’energia di un islam trionfante. “Fare come a Teheran” è diventato lo slogan di una vera e propria internazionale islamica, che mina i regimi moderati del mondo musulmano. Per minimizzare il potere contagioso del khomeinismo si è molto sopravvalutata la rivalità tra sciiti e sunniti. Essa ha un senso molto preciso in Iraq, dove le due comunità hanno convissuto fianco a fianco nel medesimo paese. Ne ha molto meno altrove, dove la presenza sciita è trascurabile, ma l’irrequietezza dell’islam politico è più viva che mai. Ecco di nuovo Bernard Lewis: “La rivoluzione esercita una potente fascinazione sui popoli fuori dall’Iran. (…) Tra costoro, la differenza settaria è priva di importanza; Khomeini viene visto non come uno sciita o come un persiano, ma come un leader rivoluzionario islamico”. Oggi, come ieri, l’Iran è al centro della politica mondiale. Lascio a penne ben più competenti della mia avanzare analisi e previsioni sull’evoluzione di quel regime e sulle crisi latenti che hanno come epicentro Teheran, prima tra tutte quella legata all’armamento atomico. Che ha un risvolto apocalittico, date le minacce di Mahmoud Ahmadinejad a Israele. Ma ne ha anche un altro, che ha a che fare con il nazionalismo iraniano e con le sue ambizioni di potenza regionale. Non ci sono solo i mullah al potere: c’è il laico Ahmadinejad, ex pasdaran, che ha portato al governo lo spirito dei combattenti nella guerra contro l’Iraq di Saddam (1980-1988), l’altra grande epopea fondativa del regime, accanto alla cacciata dello scià e alla Rivoluzione khomeinista. Moderati e radicali, pragmatici e ideologi, ma anche nazionalisti e internazionalisti: è dai conflitti tra costoro che risulterà il corso futuro della rivoluzione.

Carlo Panella: " Così Maliki vince in Iraq e sconfigge la rivoluzione khomeinista "

Roma. Una sonora, chiara sconfitta del khomeinismo e la prova che in Iraq, pur tra mille difficoltà, si sta costruendo in una forte proposta politica alternativa, in ambito sciita, al regime degli ayatollah. Questo è il significato politico più importante del risultato delle elezioni regionali (che erroneamente in occidente vengono definite provinciali) del 31 giugno scorso, tanto che il premier Nouri al Maliki ha potuto dichiarare: “Questo voto rivoluziona completamente la carta politica dell’Iraq”. I media internazionali si limitano a registrare il clima di sostanziale pacificazione e di fine delle violenze che ha caratterizzato il voto e il successo personale della lista del premier Nouri al Maliki. Ma questi sono solo due aspetti – pur clamorosi – di un risultato che irrompe nel mondo musulmano sciita evidenziando il successo popolare di una alternativa al modello iraniano. E’ indubbio il successo di un surge voluto da George W. Bush – e ostacolato da Barack Obama – che ha visto le forze di sicurezza irachene perfettamente in grado di garantire la correttezza del voto anche in regioni roventi – come quella di Bassora – completamente abbandonate dalla Coalition of Willing. E’ altrettanto indubbio che la liste di Maliki abbiano avuto un successo straordinario, conquistando il controllo di ben sette regioni a maggioranza sciita e di Baghdad (38 per cento dei suffragi), mentre, specularmente il Consiglio supremo islamico (ex Sciri) di Abdul Aziz al Hakim (che si è presentato con una lista dal triste nome, “I martiri del patibolo”) ha perso perso in queste regioni una egemonia maggioritaria che manteneva dal 2003. Ma il dato politico ancora più rilevante è racchiuso nella differenza strategica che distanzia da trenta anni la piattaforma politica del movimento Dawa (a cui appartiene appunto al Maliki) dal Csi. Questa differenza riguarda proprio l’essenza della rivoluzione khomeinista e quindi l’essenza del regime odierno di Teheran. Al Maliki e il Dawa, rifiutano infatti la teoria del Welayat e Faqih, del governo del Giureconsulto, base teorico-pratica del regime teocratico iraniano. Secondo la piattaforma politica del Dawa, infatti, in attesa del ritorno del dodicesimo Imam (essenza della shi’a), dal punto di vista politico “i poteri legislativo ed esecutivo risiedono nel popolo, in quanto questi è il ‘reggente’ di Allah”. Da qui, la concezione di democrazia islamica, nettamente contrapposta a quella elaborata da Khomeini (e concretizzata nella Costituzione iraniana del 1979) in cui questa “reggenza” è affidata al Rahabar, alla Guida, al Giureconsulto. Il Dawa, insomma, ha una piattaforma teologico-politica omogenea a quella del grande ayatollah di Najaf, Ali al Sistani, che contrastò duramente la Costituzione di Khomeini, così come a quella dell’ayatollah Shariat Madari, che tentò di contrastarla in Iran finendo agli arresti domiciliari. Lo Csi (ex Sciri) di Abdul Aziz al Hakim, invece, ha sempre difeso il modello khomeinista, ma ora, dopo un pugno d’anni, la sua capacità di convogliare consenso in Iraq è precipitata. E’ successo esattamente l’opposto di quanto preconizzavano tanti pseudo esperti: l’intervento militare americano del 2003 e il successivo nation building hanno permesso – pur a costi elevatissimi – di definire un formidabile antidoto, un clamoroso Manifesto anti khomeinista che ha dimostrato di sapere convincere la maggioranza degli iracheni. Dunque non è l’Iran degli ayatollah a influenzare l’Iraq democratico, ma, all’opposto, in Iraq si sta consolidando una democrazia che offre al popolo iraniano, alle sue forze d’opposizione, un modello pienamente interno e omogeneo con la tradizione sciita e che rifiuta il despotismo khomeinista. Da oggi, l’opposizione iraniana ha in Iraq un modello antagonista a quello degli ayatollah e può svilupparsi un contagio esattamente contrario a quello preconizzato dai critici di G.W. Bush. Insomma, al Maliki segna il trionfo dell’essenza delle teorie neoconservative di Paul Wolfowitz. Questo, anche perché, sin dagli anni Ottanta, il Dawa – e al Maliki in prima persona – ha attratto – proprio per questa sua piattaforma teorica – non pochi sunniti e può quindi oggi più facilmente mediare con i partiti sunniti (9 per cento a Baghdad) e con i laici che, con Ayad Allawi, hanno ottenuto il secondo grande successo in questo voto (6,8 per cento a Baghdad). Resta, infine da valutare il 9 per cento di suffragi – sempre nella capitale – a Moqtada al Sadr, a dimostrazione dell’inquietante – ma ristretta – base di consensi che può avere una politica jihadista in un paese musulmano.

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